La storia di Prenzlauer Berg, che visse in povertà gli anni del Muro per poi esplodere negli anni ’90, quando si popolò di giovani, artisti e intellettuali – Oggi è uno dei quartieri più effervescenti di Berlino – Sembra di essere nella New York degli anni ’70…

Ai primi del Novecento, si chiamava Prenzlauer Tor. Era un quartiere piuttosto scalcinato: ci abitavano i berlinesi immigrati dalla provincia o dalla vicina Polonia. Palazzoni stipati di gente povera, scappata dalla campagna ridotta in miseria dopo la Prima guerra mondiale.

Quando nei ruggenti anni Venti sbarcarono a Berlino tanti intellettuali e artisti – dai fratelli Erika e Klaus Mann ai grandi direttori d’orchestra come Arturo Toscanini, Josef Kleiber, Otto Klemperer e Bruno Walter, da Luigi Pirandello a Corrado Alvaro, alla colonia anglo-americana stufa di Parigi: Djuna Barnes, Paul Bowles, Aaron Copland, Christopher Isherwood e l’immenso Wystan Auden, tutti attirati dall’estrema effervescenza della vita culturale, dai prezzi bassi e dalla libertà dei costumi – nessuno di loro vi mise piede, o quasi.

E nessuno avrebbe potuto immaginare che quasi un secolo dopo, sotto il nome di Prenzlauer Berg, sarebbe diventato il quartiere più vivace, divertente e ricercato della città. Il luogo dove si concentrano le energie giovani di una metropoli che ha comunque uno dei tassi più alti in Europa di popolazione giovanile e single (quasi il 60 per cento).

PRENZLAUER TOR BERLINOPRENZLAUER TOR

La zona che tantissimi italiani, cresciuti in maniera esponenziale negli ultimi anni (dal 2009 a oggi, in tutta Berlino, sono quasi raddoppiati, toccando le 17 mila presenze censite), hanno comprato casa: per abitarvi o per investire i propri risparmi (posto che i prezzi, fino a poche stagioni fa, erano risibili, se confrontati con quelli di Roma o di Milano). E infine la scena del film in questo momento più amato dal pubblico tedesco: “Oh Boy” di Jan Ole Gerster, una commedia dai toni amari, piena di humour e intelligenza, tutta girata in bianco e nero proprio nelle strade e nei palazzi di Prenzlauer Berg.

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La trasformazione da area depressa a nuovo quartier latin dell’Europa unita naturalmente ha attraversato vari passaggi. Negli anni del nazismo, la vocazione proletaria ha lasciato il posto alla nuova piccola borghesia cittadina. La Seconda guerra mondiale, come è noto, ridusse Berlino in macerie: tuttavia, questa parte della città, conquistata dall’Armata rossa di Stalin, rimase piuttosto indenne dai bombardamenti alleati.

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Nella Berlino Est, capitale della Ddr di Ulbricht e poi di Honecker, Prenzlauer Berg si andò popolando di attori, poeti, registi e, a partire dagli anni Settanta, di gruppi rock e punk. Erano gli anni del Muro, che tagliava in due la Bernauerstrasse, una delle arterie che delimitano Prenzlauer Berg: nei Sessanta, i cittadini del settore sovietico comunicavano con parenti e amici, dall’altra parte della strada, affacciandosi alle finestre dei piani più alti. Poi i palazzi più vicini al famigerato Muro furono sgomberati e non rimase che tentare la fuga nelle maniere più tragiche e avventurose, o rassegnarsi a vivere sotto “Il cielo diviso” (titolo di un celebre romanzo di Christa Wolf).

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Quando però, il 9 novembre 1989, l’odiosa barriera di cemento armato, che spaccava la città e le coscienze di mezzo mondo, venne giù in una sola notte, gli abitanti di Prenzlauer Berg poterono vantare di essere stati all’avanguardia di quella rivoluzione pacifica e senza morti di piazza. Le prime manifestazioni di protesta, i primi cortei che misero in crisi e poi sfaldarono il regime comunista nacquero infatti nella Zionskirche e nella Gethsemanekirche, due luoghi di culto nel cuore di Prenzlauer Berg, dove, sotto l’ala protettrice della Chiesa evangelica, si riunivano gruppi di dissidenti al regime, capeggiati fra gli altri dai poeti Sascha Anderson e Rainer Schedlinski (che poi risulteranno in verità spie al soldo della Stasi, la pervasiva polizia segreta comunista).

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Negli anni Novanta – Berlino ormai riunificata – cominciò la migrazione interna. Prenzlauer Berg era pieno di stabili abbandonati, mai sottoposti a restauro dopo il Secondo conflitto mondiale. Le facciate dei palazzi cadevano in pezzi: vi si potevano ancora vedere i buchi dei proiettili di quella che fu la conquista palmo a palmo della parte orientale della città. I berlinesi dell’Est, i cosiddetti Ossie, tendevano a lasciare la zona, attirati dal benessere occidentale, e soprattutto da case con i servizi igienici non in comune.

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A Prenzlauer Berg cominciarono ad arrivare i giovani squattrinati che non trovavano più posto a Kreuzberg, il vecchio quartiere alternativo di Berlino Ovest, centro della grande comunità turca. E poiché la mancanza di soldi è forse la prerogativa principe di tutti gli artisti del mondo, in un batter d’occhio le strade comprese fra Schönhauser Allee, Kastanien Allee e limitrofe, si ripopolarono di giovani tedeschi occidentali, musicisti di varia ispirazione, post-punk, stravaganti anglo-americani e qualche italiano in avanscoperta.

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Chi scrive ricorda con precisione mista a panico – sarà stato il 1992 o ’93 – la visita a un’amica, giovane attrice di Monaco appena trasferita a Berlino: l’appartamento, enorme e pieno di magnifici stucchi, era privo di riscaldamento centrale e freddo come una Siberia, l’elettricità andava e veniva, il bagno era al piano di sotto e, per chiudere la porta di casa, sia lei sia i condomini usavano pesanti lucchetti e catene, come si trattasse di un motorino. Il costo dell’affitto era così basso da risultare surreale.

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In vent’anni, di quel quartiere, non è rimasto nulla o giù di lì. I palazzi sono stati restaurati uno a uno, oppure abbattuti per lasciare il posto a palazzine lussuose, in un trionfo di design teutonico. Spariti quasi del tutto post-punk e neo-hippy, è calata una valanga di yuppie, perlopiù britannici e statunitensi. I passeggini delle giovani coppie trentenni hanno invaso i marciapiedi. Mentre è comparso un gran numero di italiani, perlopiù studenti in fuga dal precariato.

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Non che Prenzlauer Berg si sia trasformato in un quartiere borghese: nient’affatto, e lo certificano l’intensa vita notturna (molti i caffè dove i fumatori, lungi dall’essere guardati dall’alto in basso, possono abbandonarsi al tabagismo), vecchie glorie cinematografiche come il Lichtblick (una sala per cinefili che piacerebbe a Nanni Moretti, inaccessibile come un film di Godard), locali come il Dock 11 per cultori della performance più estrema, la Literaturwerkstatt per poeti celebri oppure in fasce, l’Institute for Cultural Inquiry dove si riuniscono studiosi delle discipline più spericolate e ricercatori di mezzo mondo, il salon di Frank Schäfer (leggendario parrucchiere delle acconciature bislacche, che farebbe la gioia di Roberto D’Agostino), oltre a un discreto numero di bar gay più o meno effervescenti.

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E non è un caso che molti artisti abbiano qui i loro studi: dal sommo immaginifico Olafur Eliasson, danese, all’italiano Luca Vitone (molti però si stanno muovendo verso Moabit e Wedding, più abbordabile).

Certo, le conseguenze della “gentrificazione” si sono fatte sentire, soprattutto in termini di prezzi. Però bisogna ricordare che Berlino è una città ancora complessivamente a buon mercato, rispetto ad altre capitali europee e, tanto per dire, in un eccellente ristorante vietnamita (dopo quella turca, è la comunità più cospicua), il costo di una cena non supera i 15 euro.

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Risultato è che perfino George Clooney, piombato di recente a Berlino, per girare il suo nuovo film, “The Monuments Men”, negli storici studi di Babelsberg, abbia preso alloggio nel vicino Soho House (un club affiliato all’omonimo londinese) e la sera circoli nei ristoranti del quartiere, in compagnia di Matt Damon, coprotagonista della pellicola.

Non ancora imborghesito e in pantofole, il Prenzlberg (come lo chiamano i residenti) è un quartiere a misura di gioventù che, allontanata dai costi proibitivi di Londra e Parigi, o dagli esuberanti tassi di disoccupazione di Roma e Madrid, trova a Berlino un riparo e in questa zona un’illusione: quella di trovarsi nella New York adrenalinica e insieme rilassata, piena di energie creative ma non ancora ossessionata dal denaro e dal successo, di quegli idolatrati anni Settanta, di cui in fondo non hanno capito nulla. Tuttavia, non sarà inutile aggiungere che, tolto il manto dell’illusione, alla vita non rimane granché.

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