Il trio Frears-Coogan-Dench porta a casa un risultato notevole con Philomena. Opera agghiacciante, che non disprezza di farci sorridere tra un risvolto e l’altro della consumata tragedia. In puro stile britannico, un film spigliato e magistralmente costruito, capace di mettere d’accordo un po’ tutti.
Come un fulmine a ciel sereno, Philomena irrompe sulla scena del Festival. Un film che piace tanto, quasi a tutti e pressoché unanimemente per i medesimi motivi. Un’opera che a ben vedere partiva già sotto i migliori auspici, per via di una storia oltremodo conciliante, due protagonisti stellari ed un regista come Stephen Frears, che non è esattamente l’ultimo arrivato. In più, valore a suo modo aggiunto sebbene in questo caso probabilmente secondario, trattasi di fatti realmente accaduti.
In una spensierata serata passata vagando per una fiera, la giovane Philomena incontra un ragazzo che la seduce emulando un vecchietto; da lì l’infatuazione, che col lento e inesorabile trascorrere degli anni matura in amore, benché trasferito al frutto di quell’incontro colpevole, o per lo meno percepito tale. Per scontare il peccaminoso concepimento di quella notte eterna, Philomena viene segregata per quattro anni in un convento, dove le suore sembrano aborrire il dono della procreazione, tanto da cadere in una tremenda eresia che sa più di impiastricciato puritanesimo anziché cristianesimo, ossia rendere il travaglio delle ragazze-madri un inferno. Non senza epiloghi nefasti, che spesso e volentieri comportano la soppressione di quella vita che eppure si dice di voler difendere con le unghie e con i denti. Una stortura insomma, quella anzitutto di confondere il peccato con il peccatore.
La saggia Philomena certe cose le sa e aspetta. La sua è una Fede genuina, quella degli ultimi: non si adira, non si dispera, non porta rancore; pur consapevole della sua talvolta eccessiva semplicità non avverte mai disagio, anzi, coltiva la virtù. Un esempio positivo, insomma, da non equivocare con un’eroina laica qualunque, dato che in lei Fede ed obbedienza coesistono e si alimentano a vicenda. Non si spiegherebbe diversamente il silenzio durato quasi cinquant’anni da quel giorno in cui il suo di figlio, Anthony, le viene definitivamente sottratto. Da allora ulteriore sofferenza, quella di una madre monca, amputata di una parte di sé, non di rado in questi casi la migliore.
Finché un giorno non decide che il tempo scorre più in fretta di quanto si riesca a scandirlo, ed allora decide di ritrovare quel figlio che oramai altro non sarà che un emerito sconosciuto. Per questo, con l’intervento della figlia, decide di rivolgersi ad un giornalista, uno di quelli noti peraltro. Uno la cui carriera ha di recente assunto una piega pessima e che diversamente non avrebbe mai accettato di occuparsi di uno dei tanti «casi umani» sparsi per il mondo. Nondimeno Martin Sixsmith ci mette poco a comprendere la portata dell’impegno assunto inizialmente per il comprensibile desiderio di batter cassa. Parte così la caccia al figlio di Philomena, adottato quando ancora era piccolo e da allora dolorosamente scomparso.
Alla luce di quest’incipit si sarebbe portati a credere, in maniera del tutto legittima tra l’altro, che Philomena racconti l’ennesimo, toccante dramma a sfondo materno. E non avrebbe del tutto torto, se non fosse lo humor e l’intelligenza con cui questa vicenda così forte viene messa in scena. Merito anzitutto della meravigliosa Judi Dench, più verace per esigenza di copione rispetto alle sue solite interpretazioni, ma non per questo meno signorile, discreta, amabile. Un misto dolce e amaro di simpatia e tenerezza: basta uno sguardo, un sorriso, una leggera inflessione del volto a restituirci la profondità di un personaggio che non andava sbagliato in alcun modo. Quale migliore scelta di Lady Dench, dunque?
Ma per quanto alta sia la prova di quest’ultima, sarebbe ingeneroso isolare la resa del suo ruolo da quella, altrettanto felice, di Steve Coogan, che interpreta il giornalista Martin. Uno che da ipotizzabile spalla finisce per calamitare su di sé una discreta attenzione, senza mai accavallarsi e con una bravura non da poco. Il ritmo, i tempi, sono quelli da commedia britannica fino al midollo, impreziositi da alcune battute davvero centrate, argute perfino, in puro stile british. Merito dunque anche di Frears, nonché dello sceneggiatore, che è poi lo stesso Coogan (qui in duplice veste), i quali confezionano un prodotto cinematograficamente ineccepibile, buono più o meno per tutti i palati.
Non a caso una delle primissime considerazioni che si è imposta da sé è stata proprio questa: pressoché impossibile non piacere, quasi al punto di irretire, una più che vasta fetta di pubblico con una storia di questo tipo, non solo estremamente coinvolgente dal punto di vista emotivo ma di sicuro richiamo per via delle delicate tematiche in gioco, decisamente attuali – d’altronde gli eventi «al presente» nel film si svolgono nel 2003. Tuttavia, come in parte illustrato, resta l’innegabile abilità e la cura con cui viene maneggiato tale materiale, altamente instabile, dunque foriero di sfide non da poco. Alleggerire un contesto del genere nel modo in cui assistiamo in Philomena rappresenta di per sé un meritorio traguardo; se a ciò si aggiunge un lavoro che non risente di sbavature, il cui risultato si presenta furbo, divertente e provocatorio quanto basta, appare difficile non lasciarsi trascinare dagli eventi.
E mentre c’è già chi si dice, forse un po’ troppo frettolosamente, disposto ad assegnare ogni riconoscimento disponibile a quest’ultima fatica di Stephen Frears (che senz’altro andrà a premi, questo è evidente), noi al momento ci limitiamo ad evidenziare l’enorme presa che Philomena ha avuto sul pubblico del Festival. I motivi, grossomodo, sono quelli sopra elencati. Dopo tre giorni di rischi assortiti, dunque, il Concorso offre un titolo che va sul sicuro; senza però limitarsi al consenso facile, bilanciando con encomiabile maestria quella che in mano altrui poteva anche essere una disfatta, ed invece è un interessante successo, di quelli che, oltre a farti sorridere, ti danno da pensare. Su noi, sugli altri; sulle nostre colpe, così come sulle loro: in attesa di quella risposta che non arriva mai finché non la si cerca con la predisposizione giusta. Per continuare a meravigliarsi di qualunque cosa, che «mai, nemmeno tra milioni di anni, avrei immaginato fosse in questo modo». Quanta rigenerante dolcezza.