Mario Monicelli – che si è suicidato a novantacinque anni, la sera del 29 novembre 2010, lanciandosi dalla finestra del bagno al quinto piano del reparto di Urologia dell’Ospedale San Giovanni di Roma, e diventando il fantasma italiano acutissimo che ci ossessionerà ancora a lungo, consigliandoci e aiutandoci in questi tempi difficili – aveva le idee molto chiare su ciò che era successo all’Italia:
Ci ha fregato il benessere. La generazione che l’ha toccato per prima si è illusa che fosse eterno, inalienabile. Invece era stato conquistato dai padri con sofferenza e sacrificio. Così l’ha dissipato senza trovare la formula per rinnovare il miracolo, e gli eredi di quel gruppo umano hanno deluso le aspettative ad ogni livello. Gente senza carattere, priva di ambizioni, sommamente pretenziosa e basta.
Del resto, in una memorabile puntata del programma Match (1977), condotto nientemeno che da Alberto Arbasino (ah, la RAI di quei tempi!), Monicelli aveva duellato proprio con l’alfiere, allora regista esordiente, della generazione a cui appartengono gli attuali cinquantenni-sessantenni: Nanni Moretti. Nel corso del ‘duello’, il maestro della commedia è tranquillo e ascolta volentieri, mentre il secondo è spocchioso, inutilmente aggressivo. Poi, improvvisamente, al trentaduesimo minuto (quasi a fine puntata), Monicelli perde la pazienza e diventa irresistibile:
– Volevo dire un’altra cosa, a proposito di cattiveria: io sono cattivo, non tu.
– Io non ho detto…
– Tu dicevi: “voglio essere cattivo”, rivolto a me. Io voglio essere cattivo…
– Ma tu non sei cattivo, perché Un borghese piccolo piccolo non è un film cattivo, è un film molto ambiguo, secondo molti reazionario, anche secondo me… Il giustiziere della notte, Sordi che tortura uno, tutto il sangue…
– Ma no, io voglio essere cattivo nella mia domanda a te. Adesso si sta parlando, da un anno, di un film che tu hai fatto [Io sono un autarchico, N. d. A.], che nessuno ha visto o che pochissimi hanno visto. Hai avuto la fortuna che ne hanno parlato tutti, se ne è parlato in televisione: ma guarda che il tuo film è grazioso, niente di più. Invece si è creata questa cosa per cui tu adesso sei l’esponente della nuova regia italiana, della nuova nouvelle vague italiana: no, non è vero. Sei un buon regista…
– Ma io che c’entro, mica mi so’ fatto pubblicità da solo.
– Sì sì: te la sei fatta da solo benissimo. Sei stato il press agent più straordinario che ci sia nella gioventù italiana dai quarant’anni in giù, credimi. Che il film poi sia grazioso, siamo d’accordo: ma ti assicuro che è molto meno di quello che tu credi.[i]
Ecco ciò che si dice “un momento di verità”. E in quel giro di anni, ce ne sono molti altri: si potrebbe addirittura tracciare (anche se non è questo il luogo), l’intera storia di una generazione attraverso le opere (film, romanzi), che ne ritraggono i membri. Il figlio di Picchio in Primo amore, obeso e perennemente in eskimo: abbandonato dal padre in tenera età, vive con una donna orribile e fa il pittore da strapazzo in uno sgabuzzino del suo appartamento fatiscente. Marco Millozzi di Caro papà che non parla e non vuole parlare con suo padre Albino, al quale trasmette tutta la sua ostilità e il suo disprezzo, e che gli dice a un certo punto con grande amarezza: “è come se le lampadine in voi si spegnessero tutte insieme”. I fascistelli romani ritratti da Goffredo Parise ne L’odore del sangue [ii], che a loro volta echeggiano i fascisti agghiaccianti e robotici di San Babila ore 20: un delitto inutile (Carlo Lizzani 1976); il culto della morte che caratterizza un’intera generazione, tematizzato in modo paradossale in un racconto prezioso e trascurato di storia controfattuale come Una storia vera (1977) di Umberto Eco [iii]; i ritratti impietosi e fulminanti che costellano quel libro ancora straordinariamente attuale che è Un paese senza (1980) di Alberto Arbasino:
La trappola attuale sembra ancora più cupa. Alla certezza di un universo nemico si somma infatti la consapevolezza di una iniquità e di uno sfascio “tipicamente italiani”, e quindi non rimediabili con la cacciata di invasori oppressori a cui addossare le colpe, e da sostituire prontamente con italiani molto abili, molto lavorativi, e capaci di migliorare la situazione economica e la condizione culturale.
Di qui (la piccola borghesia sogna, sogna…) nasce quel trip nell’Immaginario che Edoardo Sanguineti chiama “demagogismo onirico” e Alberto Ronchey definisce “vampirismo ideologico” (vampirismo passivo, evidentemente, come per le fidanzate di Dracula). E ne deriva quell’andare non tanto “in paranoia”, bensì in schizofrenia, dissociazione, disgregazione, deterioramento, che è il grande tema e il grande disturbo delle generazioni giovani… (…)
“Non sanno gestire le loro libertà”, sentenzierebbero i vecchietti. Ma la dissociazione sembra arrivare abbastanza lontano. Questa, infatti sembra la prima generazione che contemporaneamente lotta per rovesciare lo Stato, e per ottenere posti fissi e stipendi perpetui dallo Stato medesimo: come per recuperare quella situazione di inamovibilità contro la quale si facevano le rivoluzioni vere, quelle per conquistare le libertà personali senza condizioni. [iv]
Da questi testi e da questi film emerge in definitiva il ritratto di una generazione “storta”, pressoché irrimediabilmente. Gli adulti di allora (i Monicelli, i Risi, i Parise, gli Arbasino) riconoscono e denunciano una forma patologica: la fragilità unita alla violenza, alla crudeltà; l’instabilità, il disordine mentale ed esistenziale. Oggi, i “grandi”, gli adulti sono invece proprio i membri di quella generazione: e l’incomprensione, l’incompatibilità si presentano a parti invertite. I baby boomers non capiscono affatto la solidità e la serietà, perché gli sono estranee, non fanno parte del loro bagaglio umano e morale. Essi hanno trasferito intera, invece, la loro personale e antica instabilità nel sistema sociale, nel tessuto collettivo, plasmandolo a loro immagine e intaccando le strutture che reggevano tutta la baracca.