Pino Cacucci, prima ancora che uno scrittore e un traduttore, è un viaggiatore. Nel suo ultimo libro, La memoria non m’inganna, che raccoglie scritti di diverso tenore: ricordi, recensioni, piccoli racconti, dedica un breve testo a Bruce Chatwin, il “viandante impeccabile”: “Basterebbe quella foto che gli scattò lord Snowdon nell’82: scarponi appesi al collo, bisaccia in spalla, sguardo inquieto e momentaneamente distolto dal sentiero per dare un’occhiata veloce all’obiettivo, sguardo che sembra voler dire: ‘Fai pure, ma io non posso fermarmi’… In quell’immagine Bruce Chatwin è l’emblema del viandante, e poco importa se stesse posando da ore o minuti, ciò che resta impresso è il senso del movimento”.
Anche Pino è un viandante, solo che lui, a differenza di tanti vagabondi per vocazione, ha trovato una meta: il Messico è la sua seconda casa, ogni volta che ne parla lo fa in prima persona, dice “noi in Messico…”.
Anche qui, nella sua Bologna, sembra essere di casa e di passaggio allo stesso tempo. C’è confidenza e amore per la città, ma anche l’irrequietezza, il dinamismo di chi ha pur sempre un piede al di là dell’oceano.
Sei da poco tornato dal Messico, dove hai anche organizzato il Festival Messico-Italia di Mahahual, quanto tempo passi nel tuo paese d’adozione?
«Cerco di tornare in Messico ogni volta che posso, perché credo sia culturalmente uno dei posti più vivaci che ci siano. E sono in buona compagnia: Harold Pinter diceva che quando voleva respirare cultura, altro che Parigi o New York, andava a Città del Messico.
La prima volta che mi sono spinto fino a Mahahual, l’ultimo lembo del Messico prima del Belize, ho ritrovato Luciano, una vecchio amico, ed è nata un’idea folle: un festival Italia-Messico in un paese di mille abitanti. Contro ogni previsione, anche con il sostegno delle amministrazioni locali, il progetto prende piede. Alla fine abbiamo radunato 100 invitati, 51 messicani e 49 italiani. Certo, l’affluenza di pubblico, trattandosi di un paesino così piccolo, non poteva che essere limitata. Abbiamo però avuto un’enorme attenzione da parte della stampa e soprattutto ci siamo divertiti tantissimo. Lo scopo principale – l’abbiamo chiamato apposta cruzando fronteras (attraversando le frontiere) – era quello di far vivere assieme persone, artisti, provenienti anche da realtà, non solo da paesi diversi. In questo siamo riusciti: si è creata una sorta di simbiosi, soprattutto la sera, quando i musicisti italiani e messicani suonavano insieme, si creava una vera e propria comunità anche con la gente del posto.»
È già in cantiere la prossima edizione?
«La volontà c’è, speriamo di riuscire a realizzarla. Sarebbe un peccato se finisse tutto adesso, ci abbiamo investito molto, facendo anche dei sacrifici, e speriamo che chi ci ha fatto delle promesse – sponsor, istituzioni, eccetera – le mantenga.»
A proposito di rapporto Messico-Italia, tu non cerchi solo di portare, come in questo caso, l’Italia in Messico, ma anche il Messico in Italia, ad esempio attraverso la tua rassegna stampa settimanale che ha sempre un occhio di riguardo nei confronti dell’America Latina.
«Sono ormai 25 anni che faccio la rassegna stampa, o “Stampa rassegnata” per Radio Città del Capo, qui a Bologna, in cui ogni tanto cito anche “A” Rivista Anarchica, e forse sono l’unico a farlo. Sicuramente sono uno dei pochi che parla di America Latina. Di certo non lo fa la stampa italiana, tutta accartocciata su se stessa, concentrata sull’Europa – che ormai non conta più niente nel mondo. È che se non vai tu su internet a cercarti la notizia e compri solo i quotidiani italiani in edicola, sembra che l’America Latina non esista.»
Adesso, con l’elezione di papa Bergoglio, sembra che esista almeno l’Argentina.
«Il caso dell’elezione del papa è emblematico: io mi trovavo in Messico in quel periodo, e quando sono tornato mi sono reso conto che qui l’avevano già fatto santo. A Città del Messico guardavo i telegiornali, anche i più conservatori: lo hanno massacrato, hanno parlato del suo passato, gli hanno fatto un processo pubblico chiedendosi fino a che punto era stato complice della dittatura o soltanto codardo. C’è una discrepanza assoluta nella visione del mondo quando sei là e quando sei qua. Qui muore Andreotti e subito diventa quasi un sant’uomo. A Londra muore la Tatcher e i minatori fanno festa.»
Come è stata accolta invece la morte di Videla?
«Ieri dall’Argentina mi hanno mandato una cosa molto dura e toccante, una sorta di saluto a Videla, anzi ai suoi familiari, in cui si dice: ecco, voi almeno il corpo l’avete, noi non l’abbiamo mai avuto.»
Pino Cacucci
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Come mai secondo te in Italia c’è invece questa tendenza all’immediata santificazione post mortem?
«Credo che la maggior parte di responsabilità ce l’abbia l’informazione. L’informazione italiana è strutturalmente ossequiosa. C’è stato un periodo in cui sembrava che lo sport preferito degli italiani fosse andare ai funerali, come quando è morto Agnelli. Nessuno che abbia detto “senza i soldi pubblici non avrebbe fatto niente, la Fiat è nata come fabbrica bellica, scoria avvelenata della grande guerra”. La colpa è della stampa, e naturalmente anche dell’ignavia di tutti noi.
Alla morte della Tatcher invece Ken Loach ha detto: “Privatizzate il funerale, lei ha privatizzato tutto, ci manca che paghiamo il suo funerale con i soldi pubblici”.»
Invece in Italia cosa manca?
«Forse è l’indole italiana: noi tendiamo a perdere la memoria. Prendi la seconda guerra mondiale: siamo l’unico paese che ha compiuto genocidi, per esempio in Africa, e che ha fatto finta che non fosse successo niente. In Germania ancora oggi i bambini alle elementari devono imparare cosa ha fatto il proprio paese. Da noi a parte Del Boca, che è rimasto inascoltato, non ci sono neanche testi che dicono che in Jugoslavia c’erano campi di sterminio italiani gestiti dall’esercito, che ha sterminato persone solo perché erano slave, non perché erano partigiani. È stato tutto cancellato in nome del cambio di sponda di Badoglio, che fino al giorno prima era un criminale di guerra – gli inglesi avevano il mandato di impiccarlo – e il giorno dopo è diventato il padre della patria. È codardia storica. Non siamo in grado di fare i conti con noi stessi, con la nostra storia. Pensiamo a come viene insegnata a scuola la prima guerra mondiale. Io credo che non sia mai esistito Enrico Toti: è un’invenzione, non è possibile che un uomo senza una gamba venga rimandato in trincea.
Io ho vissuto una sorta di schizofrenia fin da bambino. Mio nonno era uno dei famosi ragazzi del ’99, che a 16-17 anni vennero mandati in trincea nel Carso, poi in Africa, e mi ha raccontato delle cose che mi hanno colpito profondamente. Che so, di un alpino a cui il generale ha sparato in testa perché non si è tolto la pipa e non l’ha salutato in maniera deferente. Oppure di un compagno di trincea che, avendone passate di ogni, ha aspettato un assalto e la prima fucilata l’ha sparata nella schiena del capitano. La sua guerra mondiale era così. Nella sua campagna d’Africa i soldati che guidavano gli autocarri tiravano sotto i passanti per divertimento.
Poi a scuola: Enrico Toti, Cadorna… erano tutti eroi. E io pensavo: mio nonno non è un bugiardo. E quando in prima media dovetti fare il tema “I ricordi di tuo nonno della prima guerra mondiale” scoppiò un casino: venni esposto al pubblico ludibrio della classe da parte del professore che mi tacciò di antipatriottismo.
Ecco, io ho sempre avuto questa schizofrenia fra la realtà che mi veniva raccontata e quella che leggevo sui libri.»
Molti dei tuoi personaggi sono figure dimenticate dalla storia. Questa scelta si lega al discorso che hai appena fatto? Dare memoria alle figure dimenticate, guardare la storia da un punto di vista laterale, meno istituzionale?
«Certo, la spinta che ho per scrivere è soprattutto questa, una sorta di spirito di rivalsa, scavare e ritirare fuori cose dimenticate o bistrattate. Fa parte del discorso sulla memoria intesa come coltivazione del dubbio, non assuefazione alle certezze che vengono propinate. Poi, più approfondisci, più scavi e più ti accorgi che la storia non è affatto una scienza esatta: ognuno la racconta come gli pare, e non può essere obiettiva.
E in quest’ottica sono molte le persone che meritano di riavere voce, a cui la voce è stata soffocata perché non faceva comodo quello che dicevano e facevano. Quindi ovviamente in tutta la storia dell’anarchismo trovo spunti all’infinito. Lo stimolo è riportare in vita queste esistenze dimenticate, sempre con la consapevolezza che non è possibile contrabbandare la verità assoluta. Io non a caso scrivo in una maniera narrativa, racconti e romanzi.
Qualcuno mi critica dicendo che sono apologie, che scelgo il meglio di personaggi che sicuramente potevano avere lati oscuri. Alla presentazione presso il Germinal di Trieste del mio libro Nessuno può portarti un fiore, c’è stato un compagno – non del Germinal, lo chiarisco per correttezza – che mi ha rimproverato di fare una sorta di “buonismo”, perché secondo lui Fantazzini era molto più duro di come l’ho descritto io. E in questo caso, essendo l’unico dei personaggi citati nel libro che ho conosciuto personalmente, ho risposto che questo è il modo in cui l’ho conosciuto io. L’ho conosciuto dopo che si era fatto 33 anni di galera e mi è parsa una persona sensibile, che trasmetteva una certa bontà d’animo. Ma ribadisco: ogni critica e dibattito sono proficui.
In ogni caso è ovvio che l’atteggiamento da cui parto è di condivisione: io non faccio lo storico, racconto storie. E alla base c’è sempre un trasporto, un’empatia nei confronti delle vicende che scelgo di raccontare.»
La condivisione è sempre così totale? Ti è mai capitato di avere dubbi su alcune vicende?
«In alcune storie che ho raccontato ci sono lati che io stesso non condivido, non sono sempre in totale simbiosi. Con il libro su Tina Modotti mi sono dovuto confrontare con dubbi continui. Ho scritto un libro di dubbi, anche contro altre pubblicazioni che hanno preferito l’immagine dell’eroina della rivoluzione, l’apostola del comunismo. Io invece ho tirato fuori dettagli della sua vita che dispiacevano a me per primo, perché da parte mia c’era l’innamoramento verso la persona, ma non potevo tacere ad esempio certe implicazioni con lo stalinismo o i dubbi sul suo livello di complicità in certi eventi.»
Forse è solo in questo modo che si rende giustizia a un personaggio: raccontandolo in tutta la sua complessità, anche scomoda.
«Dal mio punto di vista sicuramente. Prima di scrivere questo libro su Tina Modotti ne avevo scritto un altro, che ormai non è più in circolazione, in cui raccontavo me stesso alla ricerca di queste notizie, e man mano che procedo con le ricerche vedo sgretolarsi l’ideale che avevo di lei e sono costretto a fare i conti con i lati oscuri della sua vicenda, con aspetti della sua vita che, in altri libri che raccontano la sua vita, sono rimasti del tutto taciuti.»
È interessante il rapporto che si crea tra scrittore e personaggio, è una sorta di dialogo attraverso il tempo.
«È prima di tutto una specie di innamoramento. E poi naturalmente c’è il dialogo con il fantasma del personaggio. Ogni tanto ti fermi e chiedi al fantasma: “Ma hai davvero fatto questa cosa?”. Molte vicende resteranno sempre controverse. Tutte le volte che rivedo Paco Taibo (lo scrittore Paco Ignacio Taibo II) discutiamo a proposito dell’omicidio di Julio Antonio Mella, compagno della Modotti. Secondo Paco è stato fatto uccidere dal governo messicano in combutta con il dittatore di Cuba, mentre nulla c’entravano le dispute interne tra stalinisti e trotskisti. Io sono d’altro avviso, nel mio libro infatti ho riportato alcune testimonianze che ho letto sui giornali dell’epoca e che contrastano con la versione fornita da Tina. Recentemente Paco è tornato alla carica, convinto di aver trovato nuovi documenti a favore della sua tesi. Insomma, la storia non finisce mai, non è fatta di certezze: puoi continuare a scavare tutta la vita e poi ognuno magari rimane delle sue convinzioni, l’essenziale però è continuare a discutere e non fare finta di nulla.»
Del tuo modo di narrare incuriosisce molto la ricostruzione di dettagli e stati d’animo profondamente personali, per cui il lavoro di ricerca e di ricostruzione storica può aiutare fino a un certo punto. Qualche volta non hai paura di interpretare troppo liberamente?
«È una questione che mi sono posto, però ho fatto questa scelta: mi interessa raccontare gli stati d’animo. È la possibilità in più che ha il narratore rispetto allo storico, quella di riuscire a ridare vita alla persona anziché al personaggio. E quindi ci vogliono gli stati d’animo, ci vogliono i dialoghi, i sentimenti. Certo, io mi illudo che il mio modo di scrivere sia il risultato di ricerche, attraverso testimonianze di varia natura, che io poi trasformo in una scena in cui le persone si dicono delle cose e provano delle emozioni. E questo per forza sconfina nel romanzo. D’altra parte senza questi aspetti i personaggi sarebbero icone fredde, come nei libri di scuola.
Ad esempio per il libro su Nahui Olin ho fatto anni di ricerche, ho letto testi, intervistato persone e visitato luoghi: da tutto questo magma decido di tirare fuori un romanzo, non una ricostruzione storica. E allora aggiungo delle parti in corsivo in cui lei, ormai vecchia, riflette sulle vicende. E, presentandolo in giro, mi è capitato più di una volta che dal pubblico mi chiedessero “Ma, quelle lettere di Nahui, dove le hai recuperate?” “Non sono lettere”, rispondevo, “le ho inventate io”. Da un lato è indubbiamente lusinghiero: il bravo narratore deve riuscire a calarsi nei panni degli altri, o in questo caso delle altre.»
Avendo raccontato anche di persone che conosci, che sono ancora in vita, ti è mai capitato che qualcuno abbia avuto delle rimostranze per come l’hai tratteggiato? Forse non Sepúlveda: ne fai un ritratto così bello che ha poco da lamentarsi…
«Di Sepúlveda ho scritto cose che mi aveva raccontato lui stesso. Oltretutto lui mi ha detto: “Maledetto Pino, sei il mio dottor Freud!” perché quei fatti, la sua prigionia, non li aveva mai raccontati a nessuno in modo così dettagliato. Erano una ferita aperta che in parte resterà aperta per sempre.
Rimostranze direi di no, piuttosto ho dei piccoli rimpianti. Faccio un esempio: in Ribelli c’è un capitolo su Silvio Corbari e Iris Versari. Era da tempo che volevo scrivere questa vicenda, quindi avevo già tutti i miei dati, non avevo però ancora conosciuto la famiglia di Corbari, cioè i due figli – e in particolare Giancarlo e sua moglie Iole – e Lina, la vedova, che allora era ancora viva. In quel capitolo ho dato molto spazio a Iris (compagna, amante di Silvio? Poco importa). Di fatto però ho quasi tralasciato la figura di Lina, che avendo già un figlio piccolo non poteva andare in montagna: era una di quelle donne che rischiavano la pelle per aiutare i partigiani, anche se non erano loro stesse in prima linea a combattere. E dopo averla conosciuta e apprezzata moltissimo, mi è nato il rimpianto di non averle dato il giusto rilievo a vantaggio di Iris, che a posteriori avrei ridimensionato.
Quando hanno ucciso Silvio Corbari Lina era incinta, e lei diceva: “Meno male che mio figlio è sputato al padre, se no avrebbero detto che ero stata con qualcun altro, e invece mio figlio è la prova che Silvio stava ancora con me quando l’hanno ammazzato”.
È sempre delicatissimo quando si parla dei vivi, anche se io sono stato fortunato, perché la famiglia Corbari poteva benissimo disconoscere il mio racconto. Ma hanno capito che l’ho fatto in buona fede, per restituire dignità e memoria alla storia di Silvio. Lina mi diceva spesso “Ah, i partigiani i partigiani: io però sono sempre stata trattata come la moglie di un bandito, non di un partigiano. Per campare ho dovuto fare i lavori più umili, perché non mi assumevano da nessuna parte, eravamo considerate mogli di ladri e banditi. Oggi si fa presto a parlare di Resistenza, ma il dopoguerra per noi è stato davvero duro. Col cavolo che ci consideravano vedove di eroi”.
In ogni caso, sia con i vivi che con i morti, è necessaria un’etica del narratore, un rigore morale di cui è responsabile lui solo. Poi chi legge è libero di fare le proprie critiche.»
Oaxaca (Messico), manifestazione popolare
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Con figure così iconiche: il bandito, il rivoluzionario, il fuorilegge un rischio forte può essere quello di cadere in una letteratura troppo romantica o apologetica.
«Certo, il rischio c’è e lo corro, ma al tempo stesso sono figure che mi attraggono proprio per questi motivi.
Quando ho cominciato a scrivere della banda Bonnot, e quindi dell’altra faccia della Belle époque, non ero spinto soltanto dal desiderio di riesumare fatti e persone che avevano una loro dignità, c’era anche un’altra forza che mi spingeva, anche se non dichiarata: raccontare quella storia era un po’ come raccontare tante altre storie simili degli anni ’70, che io ho vissuto. Volevo dire: “Attenzione, quelli che impugnano le armi non sono tutti fanatici, ci sono i fanatici, ma anche quelli che, in diverse maniere, sono stati sbattuti dalla vita con le spalle al muro”.
Raccontando la storia di Bonnot ho voluto dire che tu puoi anche essere una persona sensibile, animata da buoni propositi, ma se ti va tutto storto, ti perseguitano fin da piccolo, cresci in una fonderia, tuo padre è un povero disgraziato… provi a riscattarti e tutte le volte ti risbattono nel buco, alla fine ti incazzi e dici basta, meglio una fine spaventosa di questo spavento senza fine.
E allora perché devo condannare Bonnot in nome di un principio – anche di un certo anarchismo – non violento, pacifista? Il mondo nasce e vive nella violenza, puoi solo limitarla. L’ideale non violento è bellissimo, ma non applicabile in assoluto: ci sono fasi della storia in cui la gente si ribella e fa un atto di violenza. E quando non trovi una rivoluzione a disposizione fai come Bonnot, che si fa ammazzare, ma perché animato da un eccesso di sensibilità, non di crudeltà.
A me interessava provare a raccontare questo punto di vista, quello di chi non solo è rimasto nella storia come un criminale, ma che mentre faceva quelle cose aveva contro quasi tutto il movimento anarchico che lo considerava un provocatore o uno che – magari in buona fede – faceva dei danni politici enormi.
E anche in questo caso, come scrittore, mi sono messo su una china pericolosa, perché la critica può essere: della figura di Bonnot parli, cerchi di riscattarla, ma appartiene a inizio ‘900, uno che fa queste cose adesso cosa fai, non lo condanni? Io no, non lo condanno, ma neanche lo esalto. Non si tratta di proporre dei modelli, ma di raccontare cose che succedono e sono successe. Il confine è labile: non sto dicendo: “Prendete una pistola e fate come Bonnot”, anzi, raccontandovi com’è finita cerco semmai di dissuadere. Però vi dico anche che non era una carogna.»
Quindi ben venga anche un po’ di romanticismo…
«Io rivendico il romanticismo e l’epica. E sono in buona compagnia. Altri miei amici scrittori, come Paco Taibo, come Sepúlveda dicono spesso: “Romantici? Sì, cosa c’è di male? Siamo romantici perché abbiamo bisogno di sentimenti”. E io stesso non considero l’aggettivo “romantico” in maniera negativa.
Allo stesso modo rivendico l’epica: da lettore mi piace sentire il coinvolgimento di una narrazione epica degli eventi, quindi cerco di perseguirla. È logico che scegliendo questa modalità narrativa, il lettore, se coinvolto, sta dalla parte per cui parteggio anch’io. Comunque dubito fortemente di essere un cattivo maestro.»
I più criticati saranno i ritratti di personaggi non animati da ideali politici, che pure tu inserisci nelle tue rassegne di ribelli.
«Chiaro, Casaroli ad esempio, di cui ho parlato in Camminando, non era animato da ideali, era un “ribelle senza causa”, e c’è chi critica il fatto che io l’abbia inserito insieme a ritratti di partigiani, di persone fortemente connotate a livello etico e politico. A me però interessava il lato umano di un giovane che, nel dopoguerra, si ritrova come tanti altri a essere uno sbandato, senza più nulla in cui credere e la sua reazione è: “Be’, non cambia niente, io non credo più in niente: mi metto a rapinare le banche”. E allora si mette insieme ad altri due, uno che da giovane era stato fascista e uno che era stato partigiano, e ne viene fuori un terzetto grottesco che, unito da questo patto di morte, comincia a rapinare per fare la bella vita. Erano gli anni ’50 e in qualche modo anche loro si sono ribellati a un’Italia di buffoni.»
Be’, tra i Ribelli hai messo anche Jim Morrison…
«Certo, e mi chiedono cosa c’entri con in partigiani… c’entra: più ribelle di lui!
A parte i miei gusti personali, mi interessava la vita, brevissima ma intensa, di un musicista che viene ricordato solo per le canzoni ma che è anche finito in galera perché incitava a disertare la guerra del Vietnam, a bruciare le cartoline precetto quando arrivavano. Nel suo caso non c’era solo l’autodistruzione come forma di ribellione, c’era anche il tentativo di fare qualcosa di incisivo. Il suo eccesso di sensibilità l’ha poi evidentemente portato all’autodistruzione. Anche in questo caso la critica è facile: una signora a Milano mi ha detto: “Ma era un drogato”. E io: “Be’, signora, è un po’ riduttivo…”.»
È molto forte la tendenza, sia nei confronti di persone con problemi di dipendenza sia verso chi ha commesso qualche forma di reato, a identificare totalmente l’individuo con l’azione commessa. Per questo forse è invece importante recuperare un po’ di fascinazione nei confronti dell’illegalismo, come c’era ad esempio nella letteratura ottocentesca o prima ancora all’epoca dei supplizi pubblici: una sorta di “epica del malfattore”. Soprattutto ora che domina ovunque, anche a sinistra, un legalitarismo benpensante.
«Il mio stimolo per continuare a scrivere è proprio andare contro questo appiattimento, fare un po’ il bastian contrario. A me interessano le ragioni per cui si finisce a fare il bandito, il malfattore, eccetera.
Può anche capitare che comincio a ricercare, a scandagliare e mi accorgo che il personaggio che mi interessava era proprio uno stronzo, e allora lascio stare. Anche perché in quel caso non scatta la condivisione, che è indispensabile, quindi saluto il personaggio e dico: “La tua storia la racconterà qualcun altro”.»
Nello scegliere di raccontare determinate storie, quanto c’è di politico e quanto di viscerale?
«Credo che la mia passione politica sia viscerale. Io però preferisco parlare di passione sociale, visto che in troppi si sono prodigati per trasformare la parola “politica” in una parolaccia. Tutto in fondo è politica. Bisognerebbe riportare la politica alla sua accezione originaria di preoccupazione per l’altro, condivisione comunitaria di un problema, farsene carico anche per altruismo e generosità e non per interesse personale… insomma, l’esatto contrario di quello a cui assistiamo oggi, per cui la politica è essenzialmente una carriera.
Io vorrei invecchiare un po’ anche nello spirito, non solo nel corpo: vorrei incazzarmi di meno, dare una tregua al fegato. Certo, molte cose non le vedo più con lo sturm und drang dei 18 anni, l’età ti insegna a stare più zitto e ascoltare di più. Però c’è sempre una brace che si rinfiamma.»
Tornando a Sepúlveda, a proposito di reazioni viscerali, alla Fiera del libro di Torino… (scoppia a ridere e finisce la frase: “Quando ha detto che il Cile è un paese di merda!”) «Ecco, questo è uno dei motivi per cui siamo così amici…»
Dopo la sua dichiarazione Oscar Godoy, l’ambasciatore cileno in Italia, gli ha rimproverato di essere troppo concentrato sul passato del paese, di non riuscire ad accorgersi dei cambiamenti in atto.
«Non si può pensare di passare attraverso l’inferno e rimanerne indenni. Ciò non vuol dire che sia legato al passato: ha sì scritto libri di memoria, ma tanti dei suoi testi sono scritti per l’attualità e per il futuro, ad esempio quando dice che essenzialmente la differenza tra destra e sinistra è che la destra tende a semplificare tutto, e da qui il razzismo, mentre essere di sinistra vuol dire faticosissimamente accettare l’estrema complessità del mondo e farsene carico e non pensare alle scorciatoie, perché non esistono.»
Una volta, proprio sulle pagine di “A” hai scritto: “il mondo è troppo complesso per non essere anarchici”.
«Il concetto è esattamente quello! Le scorciatoie sono facili e così si va avanti per certezze assolute, che fanno i danni che sappiamo.
Insomma, Lucho (Luis Sepúlveda) prende la vita in maniera sanguigna, ma è una delle persone di maggior bontà d’animo che io conosca. A volte è proprio chi è più generoso nei confronti degli altri che sente l’affronto e si incazza di più. Lui, proprio perché sempre animato dal bisogno di accettare la complessità del mondo, non è un estremista: è sempre disposto ad approfondire le situazioni cogliendo anche le ragioni degli altri.
Poi, dopo tutto quello che ha passato, ora in Cile è tornata la destra al governo: è ovvio che sia furibondo. E lì, come in Italia in fondo, è anche colpa di una sinistra che non si fa votare, che delude talmente tanto, che poi a votare ci vanno solamente gli altri.»
Ricordavi che in Cile è tornata al governo la destra, ma in molti altri paesi latinoamericani non è così, anzi, in alcuni casi – Argentina, Venezuela, Bolivia – la sinistra, magari non sempre limpidamente, vince le elezioni da dieci, quindici, vent’anni.
«Be’, negli ultimi anni abbiamo assistito a fenomeni interessantissimi, che hanno fatto dell’America Latina anche una sorta di fucina per nuove maniere di intendere la sinistra al governo. Certo, a conti fatti l’esperienza di Lula in Brasile ricorda un po’ quella di Mandela. Però non ne nascono tanti di personaggi che dal carcere e dalle lotte, in alcuni casi dalla guerriglia – come il presidente dell’Uruguay – arrivano al governo. Il neoliberismo devasta ogni società, però il Brasile dimostra che da un lato si può progredire secondo i canoni imposti dall’esterno, con le quotazioni in borsa, la finanza e tutto l’orrore che sappiamo, ma al tempo stesso riducendo sempre più la povertà. Poi non bisogna dimenticare che queste situazioni sono sempre i risultati di grandi movimenti, non di un uomo della provvidenza. Nel caso di Chavéz, è criticabile l’uomo, con il suo modo di fare troppo istrionico, facilone, superficiale in certe scelte – gli piaceva farsi vedere con Ahmadinejad – ma il Venezuela ora ha una coscienza di sé che prima non aveva, non è più solo il paese da cui si estrae petrolio, con la corruzione dilagante, la fame, la povertà. Quindi forse questo tentativo ha gettato le basi per costruire qualcosa anche senza di lui… chissà.
Però tutta l’America Latina in questi anni ha dimostrato come si possa attraversare un passato di dittature, di situazioni estreme e nonostante tutto risollevarsi. D’altra parte in America Latina le dittature sono state in larga misura imposte dall’esterno, da minoranze, da oligarchie sostenute da un capitale e da un certo sistema economico. Per esempio, ?Pinochet ha fatto da apripista per il neoliberismo: tutti i chicago boys che hanno partorito quello che stiamo vivendo, l’hanno partorito a Chicago, ma il campo di prova è stato il Cile di Pinochet.
In America Latina ci sono situazioni che meriterebbero sicuramente più attenzione, non il silenzio assoluto dei nostri mezzi di informazione. Dovrebbe essere il nostro referente principale: non possiamo avere come referente la Cina, che in sostanza ha realizzato il capitalismo perfetto, dove c’è una dittatura che schiavizza il lavoro.»
Qual è invece la situazione del Messico?
«Il Messico è ancora un altro discorso, tant’è che geograficamente è ancora in Nord America, ma al tempo stesso è un paese latino, che si ritrova a difendere la latinità. Con tutte queste ventate di sinistra al governo, si è sperato che anche il Messico cambiasse, ma alla fine anche López Obrador non ce l’ha fatta.
Poi naturalmente in Messico la questione principale è la guerra al narcotraffico: un’assurdità, perché non puoi dichiarare una guerra sapendo di averla persa in partenza. Ce lo insegna il mercato: finché c’è domanda, c’è anche l’offerta. Finché ci sono gli Stati Uniti che consumano la cocaina, ci sarà qualcuno che la produce – Colombia, Perù – e qualcun altro, il Messico, che la commercializza. Questa è una realtà che non si può cancellare con l’esercito, men che meno con la corruttibilissima polizia. In questi giorni sto leggendo il libro di Saviano, che è un personaggio su cui ho molte riserve, ma che sulla questione sembra essersi documentato e di cui condivido l’idea, perché la penso da tempo, che oggi la cocaina regoli i destini dell’umanità. Ha anche sostituito il petrolio come principale stimolo economico.
È stato Bush (padre) – e prima Reagan – a suggerire al Messico di dichiarare guerra al narcotraffico, ma nella maniera più falsa che si possa immaginare, perché contemporaneamente – prima per diventare capo della Cia, poi per la presidenza – si è fatto finanziare dai narcotrafficanti dell’eroina del Sudest asiatico. Bush è un uomo dei narcotrafficanti: allora la guerra non è contro il narcotraffico, ma solo contro alcuni narcotrafficanti. Per giunta, una volta dichiarata la guerra, gli Stati Uniti hanno lasciato il Messico da solo a combatterla: non ci sono mai campagne di arresti o scontri a fuoco di là della frontiera. “Non è la nostra guerra ma sono nostri i morti” dicono gli striscioni nelle manifestazioni messicane. Il Messico non ha problemi così ingenti di consumo di droga come gli Stati Uniti. Per sconfiggere il narcotraffico bisognerebbe arrivare alle banche, perché è lì che il denaro si ferma, ma gli Stati Uniti, che si sono appena ripresi dal tracollo, non andrebbero mai a toccare le banche.
Poi se giri per il Messico non hai la sensazione di girare in un paese in guerra civile, anche se qui arrivano solo le notizie dei morti ammazzati. I problemi stanno soprattutto nella zona frontaliera.
E forse è proprio questa la ragione del mancato cambiamento: in fondo, se al governo andasse un partito disposto a trattare con i narcos, magari la carneficina finirebbe. È chiaro che sembra un discorso un po’ cinico, ma anche molto materialista: hanno scelto il male minore.
Anche i narcotrafficanti non sono tutti uguali: i gruppi più recenti, gli Zeta, sono di una ferocia mai vista. Sono tutti ex militari, corpi speciali dell’esercito messicano mandati negli Usa ad addestrarsi. Sono delle macchine da guerra, e hanno assoldato anche i kaibiles, i corpi speciali guatemaltechi responsabili del genocidio dei maya in Guatemala, specializzati in torture. Il vecchio narcotraffico, quello alla Chapo Guzmán, era diverso. Non dico si possa parlare di etica, ma per loro era impensabile ammazzare un bambino o una donna.
Alla fine sembra che il Messico abbia perso l’ultimo autobus per il rinnovamento, ma essendo anche così variegato, avendo al suo interno così tante realtà, ha una coscienza di sé molto forte, che è sempre stata più sviluppata rispetto al resto dell’America Latina. Non a caso ha fatto la prima rivoluzione sociale del ‘900.
È un paese pieno di paradossi: Città del Messico è una delle città più tranquille del mondo. Pur tenendo conto che ha 25 milioni di abitanti, ogni anno calano i dati su criminalità e microcriminalità. Qualche anno fa era facile essere rapinati in taxi, magari con la compiacenza del tassista. Ma sono ormai tre mandati che Città del Messico, prima con Obrador e poi con i successori, ha amministratori fondamentalmente onesti, non corrotti, che hanno a cuore la cosa pubblica. E ci sono state delle conquiste sociali e di laicità impensabili per il resto del Messico e per buona parte dell’America Latina. A Città del Messico l’aborto è assistito, le coppie di fatto hanno delle garanzie, si celebrano matrimoni gay già da anni. Sembra di fare il confronto con la Scandinavia e l’Olanda. E a me piace pensare che queste conquiste siano anche l’eredità di quelle donne straordinarie che tanto hanno lottato, da Frida a Nahui a Tina, e tutte le altre.
Sono un po’ di ore che chiacchieriamo… quale argomento abbiamo dimenticato?»
La traduzione!
«Certo, la mia attività principale! Passo più tempo a tradurre che a scrivere i miei libri. E sono fortunato ad aver fatto di una lingua e una cultura la passione di una vita. Con la passione puoi anche superare degli ostacoli tecnici, perché non ho mai studiato accademicamente lo spagnolo, l’ho imparato per strada. L’essenziale è trasmettere quello che intuisci nella tua lingua: devi conoscere i meccanismi della tua lingua, soprattutto per tradurre narrativa, perché richiede la capacità di trovare il modo di rendere le stesse emozioni che ha reso l’autore, ma in una lingua diversa. È qui che tornano i famosi stati d’animo.
Poi, quando traduco, cerco di farmi aiutare anche dall’autore: cerco di instaurare un rapporto d’amicizia. Finora mi è andata bene, e ho avuto la fortuna di trovare autori che capivano l’importanza di avere un rapporto con il proprio traduttore. Nessuno può avere la presunzione di conoscere un’altra lingua alla perfezione. E non può neanche esserci una corrispondenza perfetta tra le lingue. Non so come traducano Camilleri in spagnolo, ma già è difficile per un italiano che non sia siciliano capire tutto.»
Quanti titoli hai tradotto?
«Più o meno sono arrivato a 90 titoli e in totale a una cinquantina di autori, e spero che in ognuno ci sia il linguaggio degli autori, non il mio. Poi è chiaro che traducendo un minimo di libertà te la devi prendere, ma cercando sempre di mantenere questo impalpabile equilibrio tra la tua libertà e il rispetto per la scrittura dell’altro.»
E tu invece sei mai stato tradotto male?
«In realtà, quando è successo, me l’ha fatto notare Paco. Ad esempio San Isidro Futból è stato tradotto tutto nello spagnolo castigliano di Madrid, e quindi è andato perso quello che io avevo cercato di costruire, anche con il linguaggio, per rendere l’atmosfera del Messico. Tant’è vero che Paco adesso lo vuole ripubblicare. Lui e sua moglie hanno messo in piedi queste brigate per la lettura (brigadas para leer en libertad), per diffondere la lettura anche nei posti più sperduti del paese, e sta avendo un grande successo, a dimostrazione che se alla gente porti i libri gratis o quasi, legge. Qualche testo, di cui riescono ad avere gratis i diritti, lo pubblicano loro direttamente ed è quello che intendono fare con San Isidro Futból, questa volta rispettandone gli accorgimenti linguistici. Insomma, alle volte anche una semplice traduzione può diventare un atto di arroganza coloniale.»
I libri citati in queste pagineI fuochi le ombre il silenzio: la fragil vida di Tina Modotti negli anni delle certezze assolute, Agalev, 1988 Tina, Interno giallo 1991, Feltrinelli, 2005 San Isidro Futból, Granata Press, 1991; Feltrinelli, 1996 In ogni caso nessun rimorso, Longanesi, 1994; Feltrinelli, 2001 Caminando. Incontri di un viandante, Feltrinelli, 1996 Ribelli!, Feltrinelli, 2001 Nahui, Feltrinelli, 2005 ¡Viva la vida!, Feltrinelli, 2010 Nessuno può portarti un fiore, Feltrinelli, 2012 La memoria non m’inganna, Feltrinelli, 2013. |