Era il 12 settembre del 2008 quando lo scrittore americano David Foster Wallace si impiccò nel patio di casa sua a Claremont, in California a 46 anni.

Come nasce un autore di culto? A metà della sua brillante carriera universitaria, il giovane David Foster Wallace, un perfetto nerd appassionato di filosofia, matematica e logica, ha quella che lui stesso definisce una crisi di mezz’età a vent’anni: in preda a un improvviso calo di motivazione lascia gli studi per un semestre e se ne torna a casa; gli capita in mano «The Balloon», un racconto di Donald Barthelme, uno dei maestri della narrativa postmoderna; ne rimane folgorato, comincia a scrivere.

La sua prima opera pubblicata è The Broom of the System (La scopa del sistema), nelle parole dell’autore «il romanzo di formazione di un giovane wasp ossessionato da Wittgenstein e Derrida», che riceve dalla critica un’accoglienza entusiastica. Seguono un originale saggio sul rap scritto a quattro mani con un ex compagno di college, Signifying Rappers (Il rap spiegato ai bianchi) e la raccolta di racconti Girl with Curious Hair (La ragazza dai capelli strani). Il successo è immediato e i paragoni illustri (benché spesso non incontrino il favore di Wallace) abbondano: i nomi di De Lillo, Pynchon, Barth e di tutti i grandi padri della narrativa postmoderna e sperimentale vengono citati per elogiare uno stile che mescola intellettualismo e comicità, surrealtà e iperrealismo, ironia e reale commozione. Wallace riceve una serie di premi prestigiosi e si assicura un seguito fedelissimo di lettori dal palato fine.
Ma il suo capolavoro indiscusso è Infinite Jest (1996): ambientato in un poco fantascientifico prossimo futuro in cui tragicomici progressi della tecnologia e surreali sviluppi politici non mutano la complessità dolorosa dei sentimenti e dei rapporti umani, questo secondo, mastodontico romanzo (1200 pagine nell’edizione americana, più di 1400 in quella italiana, la prima mai realizzata al mondo) lo fa entrare definitivamente nel Gotha della narrativa americana degli ultimi decenni.
La scrittura di Wallace è altrettanto ispirata quando si tratta di non-fiction stories: una serie di articoli che spaziano fra lo sport, la critica letteraria e il puro reportage di costume con una vena ironica irresistibile sono stati raccolti nel 1997 in A Supposedly Fun Thing I’ll Never Do Again (Una cosa divertente che non farò mai più e Tennis, tv, trigonometria, tornado), ma ne esistono molti altri pubblicati sulle più influenti riviste americane: fra i più recenti, una cronaca ravvicinata della campagna elettorale per le primarie americane («Rolling Stone», n. 838) e una recensione-saggio sul rapporto fra l’uso della lingua e la questione razziale negli Stati Uniti di oggi («Harper’s», aprile 2001).
Estraneo alla mondanità letteraria e non, ma senza eccessi da “invisibile” alla Pynchon, David Foster Wallace ha vissuto per anni a Bloomington, una cittadina nel cuore dell’Illinois dove ha insegnato all’università locale (è proprio il Midwest la vera patria di Wallace, leggere per credere le descrizioni fra l’epico, il bucolico e il grottesco che fa degli sterminati campi di granturco e delle bizzarrie metereologiche dell’Illinois in più d’uno dei suoi racconti). Di recente però Wallace si è trasferito in California: un nuovo incarico accademico lo attendeva in un’altra cittadina di provincia, Pomona, nei pressi di Los Angeles. Nel frattempo, dopo aver pubblicato nel 1999 un secondo libro di racconti, Brief Interviews with Hideous Men (Brevi interviste con uomini schifosi), che raccoglie pezzi inediti e già apparsi su rivista nel corso di diversi anni, Wallace è tornato a due dei suoi grandi amori di gioventù, la matematica e la filosofia, nel suo volume più recente, Everything and More, uscito nell’autunno 2003 negli Stati Uniti: un saggio sulla storia del concetto di infinito nella matematica che lo consacra ancora una volta come artista geniale capace di scrivere di tutto con immancabile acutezza di visione e perizia stilistica.
Negli ultimi anni sono comparsi su diverse riviste letterarie americane (preferibilmente piccole, indipendenti, addirittura oscure) diversi suoi racconti di varia lunghezza, che nel corso del 2004 andranno a formare una raccolta dal titolo provvisorio di Oblivion. I diritti italiani, con somma tristezza della nostra caporedattrice, sono stati acquistati da Einaudi.
Il 12 settembre 2008, David Foster Wallace è stato ritrovato morto nella sua casa di Claremont dalla moglie Karen Green.

 

UN’INTERVISTA DA Fanpage.IT

David Foster Wallace, a 5 anni dalla morte, è ancora il guru dell'avantpop. David Foster Wallace

Ci sono gli scrittori, i grandi scrittori e poi ci sono i guru. Quelli che, per esempio, passano con disinvoltura dal romanzo, al saggio, al racconto mutando a tal punto la propria cifra stilistica da apparire inafferrabili, sfuggenti. Provate a definirlo, David Foster Wallace e vedrete…

Ad ogni modo, diciamolo pure: “ceci n’est pas une…” commémoration! (questa non è una… commemorazione!) poiché siamo abbastanza certi che l’avrebbe odiata. È piuttosto un occasione – il quinto anniversario del suicidio dello scrittore – per rinfrescare un po’ il verbo “wallaciano” evidenziandone i passaggi autenticamente profetici e in più, per segnalare l’uscita di due libri notevoli: il primo, è una biografia del giornalista americano D.T. Max intitolata “Ogni storia d’amore è una storia di fantasmi” per Einaudi; il secondo, è una inedita raccolta di interviste dal titolo “Un antidoto contro la solitudine”, ultimo grande colpo della casa editrice romana Minimum Fax.

Come promesso, dunque, niente sciorinate melense né aneddotica da Wikipedia, viceversa vi proponiamo la prosa crudele e affilata di Foster Wallace, in un estratto ricavato dall’intervista che Dave Eggers gli aveva fatto nel 2003 per la sua rivista “The Believer” pubblicato in Italia da Isbn edizioni (se vi interessa e volete leggerla integralmente è disponibile anche on-line).

Foster Wallace, incalzato dal collega-intervistatore, dice la sua su un tema che ci è sembrato attualissimo e di cui, peraltro, si è discusso all’ultima edizione del Festivaletteratura di Mantova: il ruolo del letterato nel dibattito pubblico, in particolare sui temi legati alla politica. Provate per credere.

 

La mia convinzione personale, un po’ da sognatore, forse, è che visto che chi scrive roba letteraria si suppone abbia un qualche interesse speciale nell’empatia, nel provare a immaginare com’è essere l’altro, gli scrittori potrebbero avere un ruolo utile in un dibattito politico come il nostro, con i problemi che presenta. […] Implicita in questa breve, petulante risposta è l’idea che almeno una parte dello scrivere politico dovrebbe essere platonicamente disinteressata, dovrebbe elevarsi sopra lo scontro, eccetera; nel mio caso attuale ciò è impossibile […] Al momento sono un partigiano. Ancora peggio: sento una tale profonda e viscerale antipatia che non mi sembra di poter pensare parlare o scrivere in nessun modo con giustizia e sfumature a proposito dell’attuale governo. Dal punto di vista della scrittura, penso che questo stato interiore sia dannoso. È quando uno sente molto personalmente qualcosa che è più tentato di alzare la voce (“esternare” è il termine che si usa in questo momento, carico di retorica com’è), ma in quel momento si rivela meno produttivo che mai – è pieno di scrittori e giornalisti che “esternano” e scrivono pezzi sull’oligarchia e il neofascismo e la mendacità e la deprimente vista corta implicita nelle definizioni di “sicurezza nazionale”, “interesse nazionale” ecc., e molti pochi di questi scrittori mi sembrano produrre pezzi utili o potenti o veramente persuasivi rispetto a chi non condivide già le opinioni dell’autore.

Il mio piano per i seguenti quattordici mesi è bussare a porte e riempire buste, forse perfino mettermi la giacca, provare ad aggregarmi con altre persone per formare una massa demograficamente significativa per provare veramente a fare esercizio di pazienza, educazione e immaginazione nei confronti di coloro con i quali mi trovo in disaccordo. E anche usare più spesso il filo interdentale»

 

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