La casa: un ultimo piano dietro via Flaminia Vecchia con due grandi A sulle ante della porta. Sul pianerottolo, scaffali di libri. Dentro, un salotto con un divano a L interminabile, comodo, occupato da libri, sovrastato da lampade fungoidali e da un esercito di Adelphi. Ma il pezzo forte è un corridoio: quadri illustri ai lati, Guttuso e Pasolini soprattutto, a lui dedicati, e come soffitto una combinazione di pannelli in vetro colorato, illuminati come un dancefloor Anni 70 rovesciato, in combinazioni cromatiche – viola giallo blu bianco rosa rosso – da grafico hipster. È del ’30, è il più grande scrittore italiano vivente.

Uno penserebbe a un ego debilitante, invece Arbasino è uno da cui farsi raccontare d’altro, di altri (tanto, per l’agiografia e la completezza abbiamo i ben due Meridiani Mondadori usciti pochi anni fa). Ecco per esempio come ritrae la scena di Nuovi Argomenti, la rivista pensosa e impegnata di Moravia, dove arrivò neanche trentenne, grazie all’esordio proustiano e già Nouvelle Vague di Le piccole vacanze.

Con Moravia che rapporti aveva?

Ottimi, perché erano pessimi con Elsa Morante, perché non so perché lei ce l’aveva con me… con Moravia erano ottimi…

Era anche la donna più antipatica d’Italia, no?

Era molto antipatica… Noi spesso con la buona stagione pranzavamo fuori, la sera, con Moravia e Morante, i due Piovene quando erano a Roma, i due Guttuso che abitavano qui e quindi venivano lì, poi Bassani, Pasolini eccetera e qualche volta Gadda, che se era stanco non veniva, poi il giorno dopo telefonava e diceva «Ha strillato molto la Elsina anche ieri sera?». «Ha strillato la Elsina?», diceva Gadda… E lì effettivamente lei strillava perché arrivava agitando Paese Sera dicendo «Qui bisogna scrivere una protesta, bisogna fare una raccolta di firme»…

E Moravia invece… era credibile il suo ruolo pubblico?

Sì.

Anche utile?

Anche utile, lui poi era sempre imbronciato ma era molto socievole: imbronciato e socievole. Anche con Dacia [Maraini] ci siamo sempre visti abbastanza spesso. Una cosa curiosa era che verso le undici di sera mentre si era ancora lì a tavola c’era Pasolini che cominciava ad agitarsi un po’ e la Elsina gli diceva «Vai, vai pure Pier Paolo perché sennò non aspettano»… allora, quello che ci potremmo chiedere oggi era che, siccome la pedofilia allora non esisteva come concetto oltre che come termine, e allora non ci si pensava alla maggiore o minore età dei ragazzini… il fatto era che siccome i ragazzini non avevano né moto né biciclette né niente, stavano lì sotto casa e Pier Paolo arrivava lì sotto le case loro, come mai i fratelli maggiori, i genitori…

… Non lo andavano a menare?

Appunto, perché ogni tanto, specialmente Pier Paolo si vedeva un po’ percosso ma però ci si domandava come mai i genitori, il padre, i fratelli non andavano a menare Pier Paolo…

Eh però Emanuele Trevi [in Qualcosa di scritto] dice che ogni tanto lo si vedeva un po’… (malconcio, ma non ho finito la frase).

Sì, perché a lui piaceva farsi picchiare quindi quando poi giravano i film esotici… India, Yemen, così… dicevano i macchinisti che tornava tardissimo insanguinato, picchiato… trovava dovunque, in questi luoghi esotici, trovava delle turbe di ragazzini da cui si faceva picchiare perché è impossibile che lo picchiassero in Yemen, in Arabia, in India…

(Ecco qui un racconto di Arbasino, composto così, di fronte a me, nel suo salotto pieno di libri. Attento a ogni dettaglio, sul tavolino, accanto a un Mallarmé ha il numero di Nuovi Argomenti che contiene un mio saggio su di lui, e anche un mio libro in cui scrivo di lui, e non li menziona mai, solo mi dà a intendere di essere al corrente. Si vede che ha frequentato un genio delle relazioni come Henry Kissinger quando lavorava nella diplomazia internazionale. Ma torniamo ai racconti: comincio a capire come ha fatto a pubblicare tanto: parla esattamente come scrive – ed ecco la parte inevitabile sull’infanzia, il fascismo e la guerra…)

Sono nato nel ’30, quindi ho fatto in tempo a vivere gli ultimi anni del fascismo e poi tutta quanta la guerra perché eravamo sfollati in campagna ed eravamo in difficoltà gravi perché si era in una zona dominata dalle brigate nere e da una Sichereit tedesca… e poi quello che colpiva negli anni dei partigiani e delle brigate nere era con che spontaneità veniva fuori da persone grigie, burocratiche, apparentemente normalissime, una crudeltà sanguinaria tale… Era inimmaginabile perché si son viste delle persone come – ripeto – grigie, burocratiche, funzionariali, che non appena avevano una divisa organizzavano subito le celle della morte… supplizi, delle cose inverosimili da concepire fino a un momento prima, voglio dire… e quindi è diventato abbastanza complicato avere dei rapporti con quel tipo di realtà dove da ragazzini si vedevano degli anziani signori che diventavano improvvisamente sanguinari crudelissimi torturatori… e quello succedeva…

Come si venivano a sapere queste cose?

Si sapevano perché c’erano gli arresti, ne parlavano, se ne parlava moltissimo. C’erano ad esempio i castelli dei dintorni di Voghera, che venivano requisiti dalle brigate nere, dalle Sichereit, da quelle varie formazioni… ed erano poi formazioni abbastanza spontanee, si veniva a sapere perché lì nei paesini si sa tutto – se un castello viene requisito, se una casa viene requisita, occupata. Così per esempio a un certo punto mio padre era stato arrestato da una di queste formazioni fasciste perché facendo il farmacista dava le medicine ai partigiani. Poi era amico di Italo Pietra, che era comandante partigiano della zona quindi ovviamente mio padre gliele dava… e quando veniva arrestato mio padre, dovevano intervenire degli amici di famiglia, degli avvocati, persone che avevano un po’ rapporti con tutti, diciamo, perché poi nei centri piccoli tutti si conoscevano da prima ovviamente e quindi se uno veniva arrestato, se mio padre veniva arrestato… non lo vedevamo tornare e io che avevo quattordici, quindici anni, così, dovevo mettermi a cercare dove lo tenevano e lo vedevo lì in attesa di un interrogatorio…

E poi quanto è rimasto fuori casa?

Qualche giorno, alcuni giorni… ma poi siccome nei centri molto piccoli tutti quanti si conoscono da sempre, lì poi ci sono degli accomodamenti. Uno viene arrestato anche forse per intimidirlo.

E questo quindi tra persone che si conoscevano già prima?

Sì, appunto, per un ragazzino molto giovane… Io poi avevo a scuola, nel primo ginnasio, quindi nel quaranta, quarantuno, come insegnante una delle figlie del preside Provenzal, ebreo… queste figlie erano cattoliche come la madre e andavano anche in chiesa in maniera piuttosto visibile e lui, Dino Provenzal, a un certo punto, succedeva ad alcuni ebrei che abitavano a Voghera e nei dintorni, si diceva «È in Svizzera, è riuscito a espatriare», ma poi era vero o era invece in una camera lì nascosta della villa… in cantina, torretta? Che poi a Voghera non c’è mai stato un ghetto ebraico, però c’erano degli ebrei di posizione: il preside del ginnasio, oppure c’erano degli avvocati, dei commercianti. C’era per esempio, in campagna vicino a noi, era nascosto il professore Della Seta, non solo ebreo come dice il nome, ma era un personaggio molto famoso ai suoi tempi perché aveva diretto la scuola archeologica italiana ad Atene, Alessandro Della Seta, c’è anche sulla Treccani. Siccome aveva sposato una sorella della sciura Marina, che era una signora proprietaria di terreni, allora si era rifugiato lì, ma siccome era scappato con gli abiti che aveva addosso, che erano abiti elegantissimi da città con dei paltoncini blu come usavano, però ogni tanto usciva, verso sera, per fare una passeggiata: ma non aveva né le scarpe né gli indumenti adatti per le vigne fangose dove eravamo sfollati… Lui poi morì lì, prima che finisse la guerra morì lì.

Voi eravate sfollati.

Vicino Casteggio, tra Voghera e Casteggio. Perché si usava che allora tutti i cittadini di un certo rilievo avevano lo studio professionale oppure nel caso di mio padre la farmacia a Voghera e poi c’era, a poca distanza, la casa di campagna dove si passava tutte le estati, perché si stava al mare o in montagna per un mese ma poi, l’estate essendo lunga, prima di cominciare le scuole si stava nelle case in campagna e c’eran tante di queste case di campagna perché era un’usanza…

A voi cosa venne requisito?

A noi niente, perché non avevamo castelli o ville.

Ha iniziato a scrivere già durante la guerra?

No, dopo la guerra. Le piccole vacanze, sono uscite nel cinquantasette, Calvino l’ha pubblicato, è stato il mio primo libro. Però erano racconti scritti da un anno o due circa. Prima avevo scritto un po’ di poesie che sono quelle poi raccolte in Matinée… In verità è successo che volevo, ormai stufo da anni e anni di neorealismo postbellico, esemplato sulle brutte traduzioni degli americani, tutti quei “disse”… allora io nelle Piccole Vacanze, nel primo racconto, si dice che adagio adagio era finita la guerra, e questo adagio adagio è finita la guerra dice proprio il contrario perché non era adagio adagio: era morte, fame… Perché facendo finta di parlare di vacanze, di estati, in realtà si decretava la fine del neorealismo ed è per quello che a molti non è piaciuto quel libro, perché non era engagé, non c’erano i partigiani, non c’erano le SS, e non c’era “Bella ciao”, insomma…

Per questa cosa potrei ridere per un’ora… E Calvino? Rispetto a questa cosa?

Calvino ha avuto un atteggiamento fantastico perché io gli avevo mandato parecchi racconti…

Lo conosceva?

No… si mandavano tranquillamente via posta… e allora Calvino mi disse testualmente – che queste son cose che si ricordano: «Guarda, tu mi hai mandato parecchi racconti, più di cinque non ci conviene pubblicarne perché se il libro è troppo lungo non lo leggono e quindi non lo recensiscono, dobbiamo stare entro un limite modesto di pagine così lo leggono e lo recensiscono», poi però siccome sono tutti col fucile spianato in attesa del secondo, che non è mai all’altezza del primo perché nel primo uno ci ha messo tutte le sue esperienze, le letture, così, il secondo invece va fatto in fretta, dice «Tu non preoccuparti, che il secondo ce l’hai già qui, sono questi altri racconti quindi non stanno lì col fucile spianato che tu ti devi preoccupare, il secondo è qui», e infatti poi Bassani nella sua collana da Feltrinelli, Bassani ha pubblicato anche il secondo, cioè era un integrale dove c’erano gli stessi racconti più parecchi altri e fra l’altro c’era anche L’Anonimo lombardo che essendo di soggetto, diciamo, si direbbe scabroso per allora, oggi non importerebbe niente [si parla di neoavanguardia e omosessuali, ndr], ma siccome capitava in quel momento, è una cosa che io racconto anche per stabilire qual era il clima dell’epoca…

Fine anni Cinquanta erano sotto processo la maggior parte degli scrittori e dei registi, da Pasolini a Testori, Visconti, Antonioni, Fellini, erano tutti denunciati da un pm o da un altro perché nelle opere c’era qualche cosa di contrario alla morale corrente, c’era qualche trasgressione, qualche cosa contro la morale… allora, siccome si diceva normalmente che contrariamente ai film, che ci vuole un paio d’ore per vederli, invece per quanto riguarda i libri i pm non vanno oltre le prime pagine, allora mettendo L’Anonimo lombardo in un librone, una specie di omnibus, un librone grossissimo per allora, non c’era nessuno dei vari pm provinciali disposto a leggerlo… Erano tutti quanti sotto processo… poi Pasolini son continuate le storie anche per via delle vicende personali ma per esempio Visconti, Antonioni, Fellini, Testori: tutti sotto processo.

E di questi registi lei frequentava qualcuno? Come funzionava la vita a Roma?

Mah, io vedevo soprattutto Visconti e Fellini, frequentandoci poco tutto sommato perché per esempio Visconti era molto altero, così, e quindi siccome ero anche abbastanza amico di Testori, proprio in epoca dell’Arialda, allora ogni tanto andavo a mangiare da lui con Testori, così… Oppure con Fellini ci si vedeva abbastanza spesso perché viveva in via Veneto al tempo della dolce vita. Quando è uscito il film, il fenomeno della dolce vita era finito praticamente, perché il film descriveva ma ha segnato la fine di quel periodo dolce vita, e siamo nel Sessanta, Sessantuno… E però c’erano dei fatti molto simpatici perché siccome Fellini viveva in via Veneto, dove c’erano tavolini con Pannunzio, Patti, De Feo, qualche volta venivano Nicola Chiaromonte, Franca Valeri con Vittorio Caprioli, Nora Ricci che era la più elegante di tutti, perché era figlia del famoso Renzo Ricci e di Margherita Bagni ed era una bellissima donna elegante e spiritosa, colta, poi avendo dietro le spalle – il nonno era Zacconi, aveva tutta un’eleganza acquisita, non di primo acchito diciamo… e si stava volentieri con loro, certe volte veniva addirittura Saragata sedersi al tavolino… e c’era Fellini…

Com’era stato l’arrivo a Roma? Quando è arrivato a Roma?

Io sono arrivato subito dopo Le piccole vacanze, fra il Cinquantasette, Cinquantotto. Ero tutore e sono stato a lungo assistente di diritto internazionale… io mi ero trasferito a Roma da Milano con il mio professore di diritto internazionale, Ago, di cui ero assistente… alle Scienze Politiche, quelle dove c’era anche Moro che aveva una cattedra e parecchi altri luminari dell’epoca… allora siccome lui si è trasferito a Roma, anche perché poi aveva molte cariche internazionali a Ginevra, all’Aia, a tribunali vari, allora aveva casa a Roma – fra l’altro era cognato di Noberto Bobbio, avevano sposato due sorelle figlie di un notaio molto…

Sembra che stia parlando di un paesino, sembra che ci siano trecento persone che si conoscono tutte… E dove si abitava? Quali erano i quartieri in cui abitavate?

Dunque… io ho abitato per i primi tempi, per un paio d’anni in via Mario dei Fiori all’angolo con via Frattina ed era un ultimo piano dove avevano abitato nei vari periodi Zeffirelli, Bolognini… E allora la cosa che si usava normalmente e tranquillamente era che si pranzava in trattoria prendendo un’hachée, uno spaghetto, qualche cosa così, alla trattoria romana di via Frattina che non esiste più… e invece la sera Cesaretto, via della Croce, dove c’erano appunto Flaiano, Comisso, Giovanni Rodani, Sandro Viola che era il più giovane di tutti e insomma si era in parecchi… io di solito andavo a colazione, cioè pranzo alla romana, con un gruppo tutto di spettacolo perché c’erano appunto Bolognini, Tosi, Zeffirelli, Laura Betti, Adriana Asti… che poi Laura Betti era simpaticissima, non quella strega che viene diffamata da Emanuele Trevi [in Qualcosa di scritto]… Io l’ho conosciuta quando scrivevamo le canzoni per lei… le scrivevano Moravia, Pasolini, Soldati, Calvino, Fortini… che poi sapeva anche trovare degli ottimi compositori… era veramente, ripensandoci, una specie di paesino perché per esempio per il fatto di essere… l’impressione di paesino è inevitabile, perché la mattina l’università, lì fa meno paesino già…

A piazza Aldo Moro?

Sì, piazza Aldo Moro, con Aldo Moro che era ancora vivo e non era ancora piazza Aldo Moro… stava lì a Scienze Politiche…

E con questa abbiamo detto tutto…

Però colazione-pranzo lì con Zeffirelli, Bolognini, Tosi…

Questa è proprio fantascienza, tutti che abitavano lì…

Dunque io prima son stato in questa casetta che è ancora tale e quale… un cinque piani da salire a piedi ma non ci si pensava, via Mario dei Fiori angolo via Frattina… Dopo sono andato invece a stare in via del Consolato che è l’ultima traversa di via Giulia davanti alla Chiesa dei Fiorentini e lì c’è Palazzo Malvezzi dove io stavo… Io avevo un appartamentino nelle scuderie e lì c’era un insieme che era abbastanza interessante perché all’ultimo piano ci stava prima gli Aldobrandini, poi ci son venuti a stare Audrey Hepburn e il marito Dotti… A metà scala c’era Milo Mendez il poeta brasiliano che era anche diplomatico… Poi erano ambienti diversi veramente… perché c’era l’ambiente della trattoria romana di via Frattina era appunto gente di teatro, la Asti, la Betti…

Ma non c’erano altre duecento persone che volevano entrare nel locale?

No…

C’era questa battuta di Vaime: Vaime da Rosati, a piazza del Popolo, con Flaiano, e Flaiano indica un po’ di gente intorno e dice «Guarda, credono di essere noi!». Che fa molto ridere e la collego al discorso della fine della dolce vita…

Poi bisogna pensare anche – per le differenze di epoche e di costume – che quando si andava a teatro poi si andava a cena, quindi si andava a cena che era mezzanotte e mezza dopo di che si andava a via Veneto… Via Veneto si animava dopo l’una, l’una e mezza, erano orari che dicevamo spagnoli. Io mi svegliavo la mattina per andare in università.

Lei quando scriveva? Aveva due lavori.

Quando potevo.

Poi ha smesso la carriera diplomatica?

Ho smesso l’altra cosa perché era tutt’altra faccenda, perché se si pensa per esempio che a Londra oltre ad andare a teatro tutte le sere e a fare le interviste con i grandi maestri io facevo delle ricerche a Chatham House che era il cosiddetto Royal Institute of International Affairs, e io a Milano ero borsista cioè impiegato stipendiato all’Ispi, Istituto studi politica internazionale…

E Fellini come vide questa fine della dolce vita dopo il suo film? Qual era la sua…

Be’, Fellini in realtà aveva fatto ricostruire via Veneto a Cinecittà allora, ed era tale e quale…

Lei la vide? La andò a vedere?

No, l’ho vista dopo, quando è uscito il film, perché un aiuto di Fellini, che era direttore di produzione, che era Guidarino Guidi, invitava spesso i protagonisti della dolce vita, cioè De Feo e gli altri… ad andare, a partecipare al giraggio de La dolce vita a Cinecittà. Naturalmente ci siamo sempre ben guardati dall’andare…

Perché sarebbe stata una caduta di stile?

Era sbagliato apparire.

Poi passiamo a parlare degli anni Sessanta.

Gli anni Sessanta hanno portato l’inizio del Gruppo 63… era una piattaforma generazionale di personaggi diversissimi… Eco, Sanguineti, Manganelli… allora si pensava di utilizzare il boom economico, che sembrava molto più solido e a lunga portata, per cercare di migliorare la qualità letteraria, elevare la qualità perché l’altra strada era approfittare del boom economico per produrre bestseller.

Approfittare dei soldi per fare progetti.

E allora i casi, le prospettive erano fondamentalmente queste due: usare il boom economico per produrre bestseller per il mercato, era quella che si chiamava “letteratura da aeroporti” allora, perché negli aeroporti si facevano le ore lunghe e c’erano i romanzi di Moravia in tutte le lingue… Allora l’altra ipotesi era non produrre bestseller ma, dal momento che avevamo tutti quanti uno status economico abbastanza normale, soddisfacente in qualche caso, allora cercare di elevare la qualità media della letteratura, che poi la qualità media della letteratura…

Concetto pericoloso.

Il Gruppo 63 è entrato in crisi col ’68 perché di fronte all’ipotesi di usare le pubblicazioni del Gruppo 63 per pubblicare integralmente le risoluzioni delle assemblee extraparlamentari, allora si diceva «Se le pubblichino da sé»…

E chi stava dalla parte di pubblicare le risoluzioni?

Mah… Balestrini e altri così… mentre Giuliani e altri…

E Manganelli?

Manganelli ha sempre fatto letteratura…

(Breve parentesi in cui Arbasino invece di raccontare di tutto parla del suo libro più importante, Fratelli d’Italia, che esiste in tre versioni molto diverse fra loro, una del ’63, una del ’67, una del ’91.)

Per me quello che conta non è la fase intermedia, è la prima edizione e l’ultima… tutte e due partivano da uno stesso presupposto in fondo, cioè dare l’impressione di una struttura franante perché fatta di frammenti e di lunghe conversazioni, ma conversazioni dove scompaiono gli interlocutori, non contano molto, e in fondo forse è quella un’idea che veniva da Joyce ma non lo so…

(Ma parliamo piuttosto di epoche, e arrivando agli Anni 70 Arbasino sembra all’improvviso scordare i dettagli.)

È stata un’età un po’ vuota tutto sommato. Infatti facevo libri politici in quegli anni lì.

E non andava più a pranzo con tutti? E l’atmosfera del cinema italiano per esempio com’era?

Crisi… perché ormai erano finiti i maestri…

Soldi ce ne erano ancora?

Non credo molti… cominciava un po’ di certa crisi… comunque però non c’erano più i soldi per fare i film di Visconti o di Fellini come c’erano stati prima, perché se si pensa al costo dei film di Visconti e di Fellini sono cose che fanno paura…

Fellini di che umore era in quel periodo? Lo vedeva ancora o non lo vedeva più?

Lo vedevo tristissimo, e poi era cupo perché non riusciva più a fare film: perché i produttori non lo volevano più.

Nella scena letteraria qual era l’umore?

Non saprei, perché francamente non mi viene in mente… cioè so che io facevo molto giornalismo, facevo dei libri di politica tipo quello sul caso Moro, Questo Stato, Fantasmi Italiani

(Così magicamente si torna indietro, a parlare di anni Cinquanta, e assurdamente di Henry Kissinger).

… Kissinger che dirigeva l’International Seminar… faceva delle bellissime colazioni del sabato… sul pratino, che poi era estate, sul pratino dietro casa… colazioni buffet che ci si andava a servire… come si usa in America insomma… e dove c’erano personaggi anche molto notevoli come per esempio Schlesinger e c’era addirittura… io ho conosciuto Eleanor Roosevelt che viveva ancora: andiamo molto indietro nei decenni. Allora poi siccome alla fine di ogni corso, anzi all’inizio dell’estate la segretaria di Kissinger mandava ai vari ex alunni del seminario nelle varie capitali europee un messaggio dicendo «Il professor Kissinger sarà a Roma», per esempio, oppure Parigi… dal… al… sarebbe felice di incontrarla. Allora a questo punto si cercava di ricambiare in qualche modo la sua ospitalità con personaggi illustri e mi ricordo che per esempio io facevo dei pranzetti con Pannunzio, De Feo, La Malfa, personaggi abbastanza rappresentativi con cui lui si intratteneva molto piacevolmente col suo accento gutturale bavarese che aveva sempre tenuto da tutta la vita e che ha ancora adesso da vecchissimo novantenne. E quindi cosa è successo poi: che quando Kissinger è diventato segretario di Stato, da qualunque parte andasse incontrava delle persone con cui era stato a pranzo poco tempo prima e quindi dal punto di vista dei contatti umani oltre che diplomatici lui era in confidenza perché ci aveva pranzato insieme, nelle diverse capitali…

(Succede qualcosa di strano: anche degli anni Ottanta non ha ricordi. Mi telefona qualche giorno dopo, per dirmi: «Ah sì, negli anni Ottanta sono stato in Parlamento». Ci diamo appuntamento telefonico per l’unico pomeriggio in cui è possibile, prima che parta per Parigi. Gli telefono poco meno di dieci volte, lasciando diversi messaggi in segreteria. Del Parlamento dunque niente, non una parte interessante, quindi? Degli anni Ottanta solo questo aveva ricordato, a casa sua: «A parte la riscrittura dei Fratelli d’Italia che mi ha portato via un bel po’ di tempo e di fatica, ma che cosa ho fatto?». Così gli chiedo, rispetto a quella vita di articoli discussi con il gatto e la volpe Pannunzio e De Feo, da lui continuamente citati…) Quando lei ha iniziato a scrivere sui giornali quello che scriveva immagino veniva poi discusso tra gli amici, alla fine eravate tutti collegati, adesso invece quando scrive su Repubblica che impressione ha, che interesse ha?

Non ho nessuna impressione, in realtà, perché mi dà la sensazione di essere in un certo senso sopravvissuto a una certa epoca, a un certo linguaggio, un certo tipo di interessi: perché, faccio un esempio in concreto, se si pensa che c’era una volta un pubblico di livello che si definiva “liceale” cioè se in una rivista, alla prima con i commendatori in cammello con le mogli ingioiellate alla ultima col pubblico in piedi, standing, in una rivista così, con Totò, c’erano delle citazioni dantesche, Elena di Troia, un po’ di Iliade, Promessi Sposi, Renzo e Lucia, la monaca di Monza… Qualunque pubblico, fino dalle prime a quelli delle ultime, li coglievano al volo. Oggi, mi domando, se ci fosse nelle comiche televisive qualche allusione alla Divina Commedia o ai Promessi Sposi non lo so se sarebbe colta immediatamente come succedeva ai tempi di Totò e della Wanda Osiris…

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