Una volta la notte era il tempo della mala, delle prostitute, dei giornalisti di nera, dei poliziotti e degli spazzini. Oggi la notte è di tutti. O almeno di un numero sempre maggiore di persone. E’ la notte degli studenti, che si prendono il tempo per sperimentare. E’ la notte dei migranti, che cercano di tirare sempre un po’ in là per chiamare a casa con tariffe telefoniche agevolate. E’ la notte dei ricercatori, dei programmatori, degli interaction designer. Di molti di quelli che scrivono per doppiozero e di molti di quelli che lo leggono. Di tutti quei “miscellanea” del terziario avanzato che producono il valore immateriale ad alto contenuto cognitivo che, in teoria, dovrebbe permettere al paese di restare a galla.
Nel Web gira da qualche anno un manifesto virale che recita: “smettetela di suonare le campane la domenica mattina. La gente è appena tornata da ballare e ha bisogno di riposare”. E’ la prima cosa che mi viene in mente al rientro dalle (ormai rare) notti di danze a Milano. La sintesi perfetta dell’esasperazione dei trenta-quarantenni nei confronti della Movida dei Vecchietti.
Si dà il caso che io abiti in un quartiere abbastanza popolare nella zona sud di Milano, appena fuori da quello che è ormai il centro espanso della città, a una decina di minuti a piedi da una delle aree dove i bagordi notturni dei giovani turbano, pare, i sonni di alcuni. In termini sociologici, è quella che si definisce “un’area a basso tasso di segregazione socio-spaziale”: eterogenea, abitata da gente di tutte le età e di tutti i tipi, dagli studenti che frequentano le università vicine, alle giovani coppie di professionisti o impiegati, passando per le famiglie di immigrati dal Nord Africa e dall’Asia. Quello che turba i miei sonni, però, sono i Vecchietti.
Casa mia è al primo piano. Ogni giorno della settimana, dal lunedì al venerdì, mi sveglio la mattina alle otto con la fila degli anziani usciti dalla messa che cianciano in coda per il fornaio, con i decibel che lievitano per le protesi acustiche, il ronzio delle motocarrozzette. La Movida si rifornisce fin dal primo mattino inanellando cicchetti di bianco al bar a fianco e accalcandosi al bancone della farmacia dove si smerciano quantità industriali di anestetici, antidepressivi, narcotici.
La ciliegina sulla torta è lo studio medico specializzato in cose di geriatria e gerontologia, a qualche metro dal mio portone. Inevitabilmente, ogni mattina poco dopo l’alba, vengo svegliato da squilli disperati al citofono che mi trascinano giù dal soppalco per mettermi in contatto con un vecchietto confuso che cerca il dottor XY. Ignoro se sia un probema che affligge anche il resto del condominio, oppure se il cognome tedesco sul campanello riconduca ad un oscuro immaginario medico-ospedaliero.
Negli ultimi dieci anni ho lavorato in una pletora di contesti diversi tra ricerca e terziario avanzato. Le condizioni di lavoro sono state le più diverse ma una cosa è sempre rimasta uguale: gli orari di lavoro schizofrenici. Se devo scrivere un report di ricerca (o editare una serie di articoli, correggere una pila da centocinquanta compiti di studenti universitari disgrafici, smanacciare su del software, o una qualsiasi delle altre cose vagamente esoteriche che fa chi lavora nei settori di sviluppo di un’economia complessa) è probabile che vada avanti per un buon pezzo della notte.
La mia vita lavorativa è sempre stata intervallata da periodi più o meno lunghi nei quali sto alzato fino a notte fonda e mi prendo una parte della mattina per dormire e recuperare. Giusto o sbagliato, è l’esperienza di quasi tutti i miei amici e conoscenti.
La società postfordista è una società policronica, dove esistono molti ritmi di vita diversi che devono trovare il modo di incastrarsi e convivere. Milano non è più la città delle fabbriche che sfiancava Bianciardi ne La Vita Agra, con le orde di operai dai piedi gonfi e le “segretarie dalle guance ballonzolanti” che si riversavano nelle strade ogni mattina all’alba, in sincrono, per tornare poi al tardo pomeriggio verso la casa, la spesa, la cena e il Carosello. E’ qualcosa di talmente ovvio che non ci sarebbe neanche bisogno di scriverlo, ma la diatriba mediatica sulle regole della movida (dei locali supposti per “giovani”) sembra non riuscire a quietarsi, quindi tocca tornarci sopra.
Ovviamente non ce l’ho veramente con i vecchietti. Fanno decisamente troppo rumore nei momenti sbagliati, ma sono il mio vicinato. Allo stesso modo non ce l’ho con i ventenni che popolano a centinaia il marciapiede dell’altro lato della strada quattro giorni a settimana, con qualsiasi stagione, cianciando e bevendo a oltranza anche nelle notti che preludono le levatacce mattutine per sedici ore di lavoro non-stop. In quei casi li maledico, poi metto i tappi per le orecchie e porto pazienza. Se volessi vivere in un posto silenzioso, nelle campagne dove ho speso i primi vent’anni della mia vita, ho avuto modo di collezionare una bella lista di posti in cui dopo il tramonto sei disturbato solo dal grufolio dei cinghiali. Ma ho scelto di vivere in una metropoli, e mi adeguo.