In un libro di Perniola, il casino creativo dell’Internazionale situazionista fondata nel 1957 e scomparsa dopo 15 anni che ancora oggi ispira tanti allievi: dal lavoro teorico e pratico di Freccero ai programmi tv ‘Striscia’, ‘Le Iene’ e ‘Blob’ fino alla calata in politica di Beppe Grillo…
C’era una volta l’Internazionale situazionista, scomparsa senza particolare clamore nell’aprile del 1972. Mentre il situazionismo è rimasto, e molto, nel mondo odierno; in particolare, se ne trova tantissimo nella nostra Italia di questi ultimi anni, dove si potrebbe sostenere che le sue tortuose metamorfosi giungano fino alla calata in politica di Beppe Grillo (il «Gabibbo barbuto», come lo ha definito Massimo Gramellini), ai programmi tv Striscia la notizia e Le Iene e, soprattutto, al lavoro teorico e pratico di Carlo Freccero.
Per conoscere bene tutti i risvolti di questa citatissima (a volte anche a sproposito) tendenza culturale, vale la pena leggerne la storia, al tempo stesso critica e «simpatizzante», scritta dall’estetologo e filosofo della comunicazione Mario Perniola, il quale, in L’avventura situazionista (Mimesis, pp. 132, € 12), ripercorre la vicenda carsica, affascinante e delirante di un manipolo di intellettuali, artisti e pensatori ribelli e sfaccendati, operanti tra gli Anni Cinquanta e Settanta, che sfornarono una serie di mirabolanti intuizioni sullo spirito dei tempi a venire.
ENRICO GHEZZI BERNARDO BERTOLUCCI
Nel luglio 1957, a Cosio d’Arroscia, minuscolo paese nell’entroterra di Imperia, venne giustappunto fondata l’Internazionale situazionista, che metteva in rete un drappello di gruppi culturali alternativi – il «Movimento per un Bauhaus immaginista», il «Comitato psico-geografico di Londra», l’Internazionale lettrista e alcuni artisti con trascorsi nel gruppo Cobra – per un totale, nell’arco del quindicennio della sua esistenza, di una settantina di persone.
L’organizzazione si richiamava, anche nella denominazione, da un lato alle avanguardie storiche con le quali polemizzava ma di cui si sentiva una filiazione (il surrealismo innanzitutto, e il dadaismo), mentre dall’altro faceva il verso ai movimenti planetari della sinistra otto-novecentesca (che contestava invocandone una rifondazione a propria immagine e somiglianza).
ENRICO GHEZZI ANTONIO PENNACCHI
Il punto di partenza era la rivendicazione del carattere rivoluzionario e sperimentale dell’arte e il rifiuto della critica (ritenuta al servizio di una visione mercantile), che si saldava alla perfezione con le istanze del Sessantotto-pensiero – di matrice situazionista, difatti, era l’opuscolo del ’66 Sulla miseria nell’ambiente studentesco francese considerata nei suoi aspetti economico, politico, psicologico, sessuale e specialmente intellettuale, e su alcuni mezzi per rimediarvi, che circolò massicciamente fino a diventare uno dei manifesti ideologici delle rivolte del Maggio transalpino.
Nel pamphlet, materialmente redatto da Mustapha Khayati, affiorava quel filone del rovesciamento carnevalesco dell’ordine delle cose e della «fantasia al potere» che costituisce una delle idee-forza (e dei lasciti principali) del situazionismo.
Insieme con nozioni come quella di détournement, consistente nell’accostamento di immagini e oggetti che vengono inseriti all’interno di un nuovo contesto totalmente differente da quello di origine, con un effetto satirico e di sovversione del senso originario (la stessa tecnica alla base della «filosofia del frammento» di Blob, la trasmissione cult di Rai 3 partorita da Angelo Guglielmi in abbinata con i post-situazionisti Enrico Ghezzi e Marco Giusti).
E a categorie come la psico-geografia (l’analisi delle conseguenze dell’ambiente sul «comportamento affettivo degli individui») e, per l’appunto, le «situazioni», momenti quotidiani di natura collettiva improntati alla sperimentazione, alla dimensione ludica, a stili di vita diversi e a eventi in grado di interrompere la routine dell’«asservimento al lavoro» («Non lavorate mai» era uno dei loro slogan più conosciuti).
Veri rabdomanti e progenitori culturali del punk, i situazionisti si inventarono la guerriglia culturale (e semiologica) e captarono l’evoluzione del neocapitalismo verso una direzione sempre più immateriale e «libidinale». Con loro la critica della civilizzazione borghese diviene così, per la prima volta, accusa caustica della società dello spettacolo e del consumismo, e lotta contro di essa utilizzando i suoi stessi strumenti innovativi e dirompenti (a partire dalla fabbricazione di situazioni).
Teorizzarono l’insurrezione, decostruirono l’ideologia tecnocratica e si scagliarono contro il diritto d’autore, risentendo pure di una malsana attrazione per il settarismo e il dogmatismo; non per nulla, dal momento che, sotto il profilo politico, si rifacevano al Kapd (il Partito comunista operaio di Germania degli anni Venti), contro i cui parossismi Lenin (il quale, come noto, non era esattamente un socialista riformista…) indirizzò il suo famoso L’estremismo malattia infantile del comunismo.
Il situazionismo finì anche perché i «situs» erano tutti dei pessimi caratteri, narcisisti e rissosi, pronti a immergersi in una quantità innumerevole di diatribe dottrinarie sfocianti in altrettante scomuniche ed espulsioni (da cui vennero coinvolti 45 dei 70 membri, un record ineguagliabile), a cominciare dalla rottura tra l’ala artistica (in primis, quella italiana della «pittura industriale» di Giuseppe «Pinot» Gallizio e Giors Melanotte) e la frazione che voleva dedicarsi soltanto alla critica sociale e al «fare la rivoluzione», per arrivare sino al litigio epico tra i due pesi massimi Guy Debord, pontefice supremo (e dittatore) del movimento, e Raoul Vaneigem.
Insomma, un gran casino decisamente creativo, destinato a lasciare semi profondi, ma anche ad avvilupparsi rapidamente nel cupio dissolvi.