Venticinque anni fa moriva John Cassavetes. Lo ricordiamo con un estratto da John Cassavetes. Un’autobiografia postuma di Ray Carney appena uscito per minimum fax. Traduzione di Silvia Castoldi.
Nei brani che seguono, parla della filosofia registica che emerse da Ombre:
Avevo lavorato in film molto commerciali, e non riuscivo a adattarmi al mezzo. Mi resi conto che non ero libero quanto avrei potuto esserlo in uno spettacolo televisivo dal vivo o su un palcoscenico. Quindi fare Ombre mi servì soprattutto per capire perché non ero libero: perché non mi piaceva particolarmente lavorare nel cinema, pur apprezzando il mezzo. I registi possono azzerare un attore. Persino quando sono attori di medio livello, che hanno un ruolo importante nella trama, spesso li trattano proprio come se non ci fossero. Ma l’attore è l’unica persona nel film che lavora a partire da un’emozione, in cui risiede la verità emotiva di una situazione. Se uccidete quella, uccidete anche il film. Se avessimo fatto Ombre a Hollywood, nessuno dei partecipanti avrebbe potuto dare prova della sua bravura. Probabilmente dal punto di vista tecnico è più facile fare un film a Hollywood, ma sarebbe stato difficile essere avventurosi, per il semplice fatto che ci sono certe regole e prassi che hanno il preciso scopo di distruggere l’attore e farlo sentire a disagio – di rendere la produzione così importante da fargli pensare che se sbaglierà una sola battuta le conseguenze saranno terribili, e potrebbe anche non lavorare mai più. E questo è particolarmente vero non tanto per le star, ma per gli attori di medio livello, che non lo sono ancora ma potrebbero diventarlo, oppure per gli attori minori, che hanno solo una battuta ma potrebbero affermarsi. Nel nostro mestiere c’è una crudeltà davvero incredibile. Non capisco come sia possibile fare film sulle persone e poi non avere alcun riguardo per le persone con cui si lavora.
Nessuno difende l’attore che deve portare il personaggio sullo schermo. Io non lo difendo perché lo amo, lo difendo perché senza di lui sembrerei un idiota, mentre lui mi fa sembrare un genio. Io voglio restituire la verità emotiva, e questo è possibile solo dando all’attore l’autonomia di vivere la propria parte e crearla sul momento.
Il principale vantaggio del fare un film come l’abbiamo fatto noi è che abbiamo avuto piena libertà. Probabilmente non è mai stato realizzato un film più libero. Ho dato assoluta libertà all’attore. Gli ho permesso di esprimere esattamente ciò che provava. L’entusiasmo degli attori ha avuto libero sfogo, perché abbiamo avuto un buon produttore e un operatore che non stava tra i piedi e si limitava a seguire l’azione invece che dire: «Qui voglio solarizzare», o «Questo sarà un fantastico montaggio di azione, parole e voci».
Pur essendo riluttante a dare istruzioni specifiche su come recitare una parte, per tutta la sua carriera Cassavetes fu disponibile a parlare in generale agli attori dei loro personaggi, per ispirarli e incoraggiarli a riflettere. Si è generato un mito secondo il quale il regista non avrebbe mai discusso dei personaggi. Non è vero. Quando un attore ne aveva bisogno, Cassavetes era più che disposto a parlare con lui (in privato, lontano dagli altri). Parlava dei sentimenti o dei bisogni del personaggio, del suo rapporto con gli altri, del suo passato o del suo futuro. Quello che non faceva, se non di rado o quando era assolutamente necessario, era dare all’attore indicazioni su come utilizzare quelle informazioni. Non gli diceva come interpretare la parte, quali pensieri e sentimenti doveva esprimere in un dato momento in scena, che toni di voce assumere, che gesti utilizzare.
Posso stare ore a parlare con gli attori. In Ombre è stato importante. Nell’improvvisazione vengono fuori i sogni, non solo gli aspetti esteriori. Inoltre l’attore è preoccupato della propria dignità come persona, e vuole che questo si veda nella caratterizzazione. Il regista deve essere al suo servizio in questo senso.
Quando insorgevano problemi Cassavetes riteneva che dovesse essere l’attore stesso a trovare la soluzione.
Non mi permetto né di mostrare come va interpretata l’azione, né di comunicare agli attori un’idea capace di aiutarli a chiarire o a districare una situazione ingarbugliata. E non potrei nemmeno interrompere una scena che si sta afflosciando. Uno dei momenti più difficili è quando ti rendi conto che c’è qualcosa che non va, e sai cosa ci vorrebbe per rimettere in sesto la situazione, ma non puoi dirlo, perché toglierebbe fiducia agli attori e introdurrebbe una reazione falsa. La mia è una reazione esterna – come regista devo essere obiettivo – ma la loro è una reazione interna e quindi vera, giusta o sbagliata che sia dal punto di vista di ciò che voglio trasmettere. La cosa importante è non comunicare con precisione agli attori qual è in definitiva il punto di ciò che stanno facendo; non appena lo sanno, tentano di esprimerlo consciamente invece di lasciarlo emergere, come succede nella vita, e così lo falsificano.
Amavo il mio rapporto con gli attori, e il loro rapporto con me. Se sentivano di aver fretta di recitare una scena, mi dicevano: «Togliti di mezzo, John! Lasciaci in pace e la faremo giusta». Io mi sedevo e aspettavo con ansia, e avevo voglia di gridare quando il risultato non andava bene per niente; però stavo zitto, ed erano loro a dirmi: «Va bene, va bene, l’abbiamo sbagliata. Ora riproviamo».
Cassavetes riteneva che lavorare con una troupe ridotta all’osso non fosse un problema ma un vantaggio. La troupe di Ombre raramente superò le cinque o sei persone: il regista, Kollmar, Jay Crecco (un elettricista e attore principiante che si occupava del suono e delle luci), David Simon (che si occupava dell’alimentazione elettrica), Maurice McEndree, Seymour Cassel e Cliff Carnell (produttori/facchini che recitavano anche in piccole parti).
Normalmente per girare a Broadway ci sarebbero stati dieci o dodici gaffer [addetti alle luci], nonché altri cinque o sei macchinisti per spostare le cineprese e i cavi, e inoltre tutti i produttori e i registi. Non avrebbero accettato approssimazioni; tutto avrebbe dovuto essere preciso al millimetro. In un film hollywoodiano ci sono segni per terra da rispettare, e l’addetto ti prepara sempre le luci in corrispondenza di un determinato segno. Ci si aspetta che l’attore esegua un’intera scena drammatica rimanendo all’interno della zona dove ci sono le luci. Se esce dalla luce anche solo di un centimetro, allora si taglia la scena e la si rifà. Così l’attore comincia a pensare alle luci, invece che alla persona con cui dovrebbe discutere o fare l’amore.
Il metodo di Cassavetes era costringere le luci e la fotografia a adattarsi agli attori, e non viceversa. Il «registratore a nastro» cui fa riferimento era un sistema sincronizzato RCA con nastro da ¼”, che aveva sostituito la precedente tecnologia del «registratore a filo». La recente invenzione della pellicola Tri-X di Kodak rese possibili le riprese notturne.
Usavamo un registratore a nastro, una giraffa a mano e una cinepresa da 16 mm, in parte perché costava meno e in parte perché ci permetteva di fare più riprese con la camera a mano, ed era più facile da gestire per le strade. Raramente facevamo prove per la cinepresa, anche se a Erich Kollmar, l’operatore, piacevano. Lo incoraggiai a trovare la posizione giusta alla prima ripresa, come veniva. Erich scoprì che illuminare e fotografare questi attori, che si muovevano secondo l’impulso invece che secondo delle istruzioni, gli impediva di usare la cinepresa in modo convenzionale. Fu costretto a fotografare il film con semplicità. A illuminare un’area generica e poi sperare per il meglio.
Perciò improvvisammo non solo in termini di parole, ma anche in termini di movimenti. Anche l’operatore improvvisava. Doveva seguire gli attori in modo che potessero muoversi quando e dove preferivano. La prima settimana di girato si rivelò praticamente inutilizzabile. Ci stavamo abituando gli uni agli altri e alle attrezzature, ma non fu per i movimenti della cinepresa che dovemmo scartare le riprese. In realtà, se ci provi, scopri che il movimento naturale è più facile da seguire del movimento provato, proprio perché ha un ritmo naturale. Mentre quando si prova qualcosa seguendo i segni tecnici, gli attori cominciano a muoversi a scatti, e per quanto talento possano avere, la cinepresa fa fatica a seguirli.
Penso che il contributo importante che Ombre può dare alla cinematografia è che il pubblico va al cinema a vedere le persone; empatizza con le persone, non con il virtuosismo tecnico. La maggior parte della gente non sa cosa siano un taglio o i vari tipi di dissolvenza, e sono sicuro che non se ne preoccupa. E non è veramente interessata a quella che noi del mestiere possiamo considerare una ripresa brillante, perché guarda invece le persone, e io penso che diventi fondamentale per l’artista rendersi conto che l’unica cosa importante è un bravo attore.