Ancor prima di essere proiettato al festival di Locarno, il film di Pippo Delbono Sangue ha ricevuto numerosi attacchi da molti giornali italiani per il solo fatto di contenere la testimonianza dell’ex brigatista Giovanni Senzani. Ma non si può liquidare così Sangue, un film estremo: estremo perché vive di una tensione estrema verso i confini di vita e morte attraverso le storie parallele della morte della madre di Delbono e di Senzani; perché è stato girato con un cellulare (dispositivo che riduce la minimo la distanza tra il soggetto e l’oggetto); perché non si basa su una sceneggiatura, ma campiona pezzi di vita, li riquadra, li mette in sequenza, li monta in una costellazione di senso.
Sangue è essenzialmente la messa in scena di un teatro interiore. La messa in scena, sia chiaro, per prima cosa di fronte a se stesso. Davanti alla mente passano come nubi le forme delle cose, la forma della vita: e si tratta, semplicemente, di osservare. Come si fa nella postura meditativa, semplicemente osservare. Osservare le cose come sono, e in questo atto conseguire il distacco.
Davanti alla mente/sguardo di Delbono passano forme di vita che lui osserva: quella di colei che ha donato la vita e va a conoscere la morte, e di colui che ha donato la morte e va a conoscere (forse) la vita. Due fedi, due sangui. Che si snodano intorno alla Cavalleria rusticana (messa sulla scena teatrale da Delbono), alla sua danza. Perché tra la vita e la morte c’è un duello senza fine, e senza vincitori.
Nei dibattiti dopo il film si è verificato che agli spettatori fa assai più problema quel mostrare la morte della madre che non la presenza di Senzani. Ma non c’è niente di morboso in quello, io credo. Anzi, può essere letto come un estremo gesto d’amore. “Pensa a qualcosa sull’amore”, dice la madre al capezzale. E Delbono la osserva col suo sguardo doppio: il suo, fisico, lacerato, sanguinante; e quello indiretto dell’occhio artificiale, che frappone il distacco dell’osservazione, la contemplazione della pura forma, la meditazione (buddhista) del dissolvimento. Ci vuole lucidità, per non farsi sopraffare dalla sofferenza. L’occhio lucido (doppiamente lucido: lucido anche di pianto), per non farsi trafiggere. E allora il “voglio vedere” pronunciato da Delbono nei riguardi del corpo morente della madre risuona con la frase in italiano pronunciata in precedenza da lei in mezzo a una appassionata professione di fede pronunciata in dialetto: “Voglio vedere la mia mamma”, aveva detto; e poi: “guardate il sole”. Le uniche due frasi della madre pronunciate in italiano hanno a che fare col vedere. Perché sia chiaro a tutti, oltre ogni dubbio, che si tratta di vedere.
La morte è ovunque, in Sangue. Nelle macerie dell’Aquila che aprono il film, e, immediatamente dopo, nelle riprese del funerale di Prospero Gallinari. E la camera/occhio si alza dalla neve e dalla teoria di persone dietro la bara agli alberi. Alla ricerca della forma, e della leggerezza. La forma che salva dalla morte, la forma che ci dona la vita. La contemplazione della forma. Gli alberi, che non sanno, e sono innocenti (e mi risuona allora una canzone di Nick Cave: Trees don’t care what a little bird sings, we go down with the dew in the morning light. And we breathe it in, there is no need to forgive: Non c’è bisogno di perdonare, mai: la vita è innocente). Lo sguardo cerca l’innocenza degli alberi: e il suo modo per farlo è riscattare la vita, trovare ancora qualcosa da riscattare. Come fa Delbono nel suo “viaggio della speranza” a Tirana, dove va a cercare un rimedio per il cancro della madre, per cercare ancora una chiave per la vita. E se poi è una grande illusione – Pharma Matrix, è il nome della farmacia dove Delbono va a comprare la miracolosa pozione taumaturgica – non importa: importa la volontà di riscatto, di perseguire l’innocenza.
Se l’illusione svanisce, l’essenziale è tenere gli occhi aperti. Delbono osserva, guarda, vede: la insegue col suo occhio doppio anche da cadavere, ancora come una meditazione buddhista tibetana, la contemplazione del cadavere, la contemplazione della forma vuota. Poi, la bara che si chiude: è il rumore dell’addio. Dopo di esso, l’occhio/camera non può che inquadrare se stesso. È il loop della vitamorte, quando si è orfani senza maschere.
E orfano è anche Senzani. Che non si libera dell’assenza che ha causato, della morte atroce che ha dato. Sta tutto in quel No di un sogno in cui rivive la morte data a Peci: un No urlato come se fosse allora, e solo allora, che le sue speranze svanissero. Il sogno parla per lui: e quella “scena ad effetto” di cui parla a proposito del luogo della morte di Peci (ne parla tenendola a distanza, come parlasse di una location cinematografica) torna nella sua verità (nella sua verità di effetto, precisamente) nel sogno, luogo di verità. La morte è reale, e anche a lui tocca, adesso, di guardarla a occhi spalancati.
“Nessuno può sfuggire alla vita, nemmeno con la morte”.