Nelle ultime settimane mi è capitato di leggere due articoli che parlano dell’abitare nell’est parigino. Il primo, scritto da Jean-Michel Normand per il magazine di Le Monde, si intitola «Paris, si les bobos votaient à droite» e analizza le contraddizioni della vita nella boboland, il regno dei bohémiens-bourgeois convenzionalmente situato nel triangolo del decimo arrondissement intorno al canal St Martin.
Il secondo è «Paris sans le peuple» di Valeria Nicoletti per Doppiozero, dal titolo dello studio della sociologa Anne Clerval sulla gentrificazione, di Parigi in generale e dell’area orientale della rive droite in particolare, che ho sfogliato con molto interesse. Fra le varie dichiarazioni raccolte dalla Clerval durante quattro anni di inchiesta, mi ha colpita la frequenza con la quale ricorrevano affermazioni del tipo: «Voglio trasferirmi nell’est perché ormai tutti i miei amici abitano lì», rilasciate perlopiù da abitanti della rive gauche in fuga, gli stessi dei quali parla anche Normand.
L’affermazione mi è parsa singolare perché in questi casi di solito le preoccupazioni, o priorità, sono altre: abitare vicino al luogo di lavoro, o non lontani dal centro cittadino, o nei pressi delle zone più animate di sera, ad esempio. Mai, in tutte le occasioni in cui ho cercato casa, in numerose città, mi ha sfiorata il desiderio di abitare non lontana da dove risiedevano i miei amici, e non certo per mancanza d’affetto; in una città come Parigi, poi, in cui in trenta minuti di metro si va quasi ovunque, la cosa suona particolarmente eccentrica.
Quello che un’affermazione del genere cela non è particolarmente misterioso e credo sia sintetizzato nella brillante formula del «residenzialmente corretto» coniata dai sociologi Michel e Monique Pinçon. Associato alla media borghesia dell’est parigino, tendenzialmente impegnata in professioni cultural-intellettuali, il concetto indica «un habitat non troppo omogeneo in cui le classi popolari sono ben presenti» e in cui la varietà, in senso ampio, è il valore aggiunto; gli articoli sopracitati forniscono poi vari esempi, sottolineando come la circolazione a piedi o in bici (da cui il neologismo Vélibobo), la vicinanza agli spazi verdi, la presenza di caffè alla moda e centri culturali impreziosiscano l’habitat in questione fino a farlo corrispondere alla definizione dei Pinçon.
Ma “non troppo omogenea” è una litote da non sottovalutare: non si sta dicendo “eterogenea”. Difatti uno dei punti ricorrenti dell’analisi di Clerval è la questione della mescolanza etnica, apparentemente benvenuta ma in realtà tenacemente sorvegliata, misurata; tanto che la maggior parte degli abitanti della Boboland, nuovo punto in comune tra i due articoli, finisce col mandare i propri figli in scuole “non troppo eterogenee”, in altri quartieri. Le dichiarazioni raccolte dalla sociologa su chi si professa contento della mescolanza razziale nel proprio quartiere sono spesso aberranti: «Quando al mattino mi sveglio e sento che ascoltano il muezzin, fumando il narghilé, è così poetico, è magico… quest’immaginario arabo non è quello che cerco di solito quando faccio un viaggio, ma mi piace comunque»; oppure «Sono vent’anni che abito a Belleville e alla fine il mio piacere più grande è vedere il sorriso di un’africana vestita col kaftan, o di una turca che si vede che è analfabeta…». Il dato estetico, superficialmente esotico, sembra essere l’unico rilevato, ma soprattutto si sente, negli intervistati, quanto è piacevole questa sensazione di avere il mondo intero a portata di mano, al di fuori della porta di casa – a patto di tenerla ben chiusa.
La tesi di fondo della Clerval è che a Parigi l’essere favorevoli alla mescolanza razziale nel luogo in cui si risiede sia per i bobos un titolo di distinzione sociale, per dirla con Bourdieu, che li differenzia sia dalla ricca borghesia cittadina tout court, sia dalla piccola borghesia conformista migrata in banlieue. Tanto promossa dai governi di sinistra, finisce per diventare uno specchietto per le allodole: è una mescolanza che rima con l’inglobare, con l’omologare, perché ciò che è diverso non ha smesso di spaventare e perché, come brutalmente ma di nuovo efficacemente sintetizzano i Pinçon, «Quando si ha la possibilità di scegliere, è un nostro simile che vogliamo come vicino di casa»; mon semblable, mon frère.
Un esempio interessante, anche linguisticamente, citato dalla Clerval è la politica del désenclavement (da enclave), termine che di solito si riferisce al rendere accessibili zone particolarmente problematiche da un punto di vista geomorfologico e che oggi è usato in senso urbanistico anche, ad esempio, per il quartiere di Château Rouge, nel 18esimo: come se quest’area popolare ed etnicamente molto varia dovesse prima essere resa nuovamente accessibile al resto della popolazione cittadina attraverso un processo atto a ridurre la varietà etnica a una minoranza, e successivamente “normalizzata” dalla piccola borghesia intellettuale pronta a colonizzarla; Droit au calme è d’altra parte il nome di un’associazione della zona che desidera «un quartiere normale». E, a proposito dell’immagine dei “pionieri” urbani, Neil Smith (sempre citato da Clerval) sottolineava la scorrettezza dell’espressione fin dai tempi della conquista dell’Ovest: il pioniere, «chi comincia a sfruttare territori vergini», «chi apre la via al progresso», è qualcuno che agisce laddove prima non c’era niente – o niente di rilevante.
Per tornare però al desiderio iniziale degli intervistati di risiedere non lontani dalle persone che frequentano, credo che il discorso vada al di là dello status symbol, o della distinzione sociale che il quartiere in cui si vive procura: l’opinione sempre più diffusa è che l’est sia il vero centro cittadino, dove si concentrano le varie forme di interesse, e che ciò che succede al di fuori di esso sia di poco conto, tant’è che chi vi abita sente sempre meno il desiderio si spostarsi altrove in città. È questo che giustifica l’ansia di appartenenza. Il tipo di gentrificazione qui considerata fa dell’area interessata una specie di luogo delle meraviglie: la mescolanza etnica provvede a fornire l’esotico in giusta misura ma tutto quel che caratterizza una zona prima schiettamente popolare è tenuto sotto controllo; nascono i locali alla moda; gli esterni si ripuliscono, come in numerosi casi citati nei due articoli, dalla place Sainte-Marthe, alle vecchie botteghe sostituite da bar e negozi di vestiti di marca, fino alle macellerie che si adattano alla nuova clientela proponendo salsicce senza grassi. Il guscio si abbellisce e dà un senso di protezione, e questo al di là delle tensioni e contraddizioni che un processo del genere comporta: al di là dei senzatetto lungo il canale, dei più o meno occasionali episodi di delinquenza, dei prezzi del mercato immobiliare che schizzano alle stelle.
Durante un incontro della campagna elettorale di un candidato sindaco di sinistra, tenutosi proprio nella zona interessata, non una parola è stata spesa sui problemi della città: tutto era elogio dell’iperattività culturale di una metropoli così ricca e sempre affascinante (e d’altronde a Parigi quella della cultura mi sembra sempre di più un’ossessione, tanto che ormai nella maggior parte degli annunci di stanze in affitto si esplicita la preferenza per un coinquilino con un qualche interesse culturale).
La sensazione è che questo tipo di gentrificazione, il caso di Parigi ne è solo un esempio, porti alla creazione di un habitat sempre più kitsch, in cui la regola estetica s’impone e la nostalgia del vieux Paris viene frullata con l’immagine folkloristica ed edulcorata della città popolare e multietnica, con vecchi simboli annacquati della contestazione del potere e infine con un surrogato di solidarietà popolare, fino a ottenere un perfetto fondale che serve ai nuovi abitanti a mo’ di prova della loro apertura di spirito, come afferma anche Clerval. Al tempo stesso, le separazioni permangono e anzi si radicano, come quella tra bar di vecchia e nuova generazione, e la caccia all’ “autentico” diventa sempre più agguerrita; l’uso del termine, del resto, è già in sé il segno della dilagante presenza dell’inautentico, del kitsch, del finto originale.
Hermann Broch, e Milan Kundera sulla sua scia, hanno fornito elementi che, sebbene spesso cristallizzati in formule a effetto apparentemente isolate tra loro, si ricollegano l’uno all’altro in una teoria del kitsch niente affatto estranea al discorso sull’est parigino, o su molti centri e aree metropolitane in generale: il kitsch è quella dimensione altamente estetizzata dalla quale è espulsa qualsiasi forma di disaccordo categorico con l’essere, nelle parole di Kundera. Detta altrimenti: è un guscio che lascia fuori tutto ciò che non soddisfa determinati standard di bellezza, confort, sicurezza e intimità, intesa nel senso di appartenenza a una comunità di privilegiati. O ancora, per dirla con Eva Le Grand, uno dei maggiori critici dell’opera di Kundera: il kitsch è l’espressione dell’affascinante e inestirpabile capacità umana di sostituire alla realtà il sogno di un mondo migliore, di travestirla in una visione idillica ed estatica del mondo alla quale sacrifichiamo ogni scrupolo etico o critico.
In questo «sistema di invarianti» che è il Kitsch (Adorno), il cui obiettivo è di abbassare il livello di complessità del mondo, semplificarlo e mettere in testa alla gente che nulla può cambiare (ancora Adorno), «una domanda è come un coltello che squarcia la tela di un fondale dipinto per permetterci di dare un’occhiata a ciò che si nasconde dietro» (Kundera), domanda che naturalmente il kitsch evita di porsi, tendendo così ad appiattire ogni contraddizione, e a raggiungere un livellamento generale. Se questo è il suo spazio, il suo tempo è quello della fine dell’esperienza e dell’inizio dell’individualità vissuta come uno spot pubblicitario (di quella che io chiamo utopia kitsch parlo più dettagliatamente qui, l’articolo per ora è solo in francese). Le affinità col discorso condotto finora mi sembrano chiare: il contenimento o la riduzione delle mescolanze etniche (potenziali minacce, estetiche e non), l’attenzione all’involucro, la tendenza ad abbracciare un gusto dominante e la convinzione sempre più forte di vivere in the place to be possono essere viste come conseguenze della messa in pratica dei “valori” kitsch sopra elencati.
In questo senso, l’anti-kitsch è naturalmente la periferia: «La banlieue? No [risata], mai e poi mai. Non è Parigi», afferma un intervistato nel volume della Clerval. La periferia rappresenta «una località senza pace, come qualsiasi luogo del bando» che «serve a delimitare uno spazio frequentabile, quello della città normale, di contro a uno infrequentabile», come ha scritto Pierandrea Amato nel suo lavoro La rivolta e come, a proposito della sempre più manichea opposizione tra centro e periferia, ho ricordato anche qui.
Ora, questa visione delle cose può apparire eccessiva: il canal Saint-Martin è oggettivamente un bel posto, i bar di Belleville sono particolarmente piacevoli e la rive gauche in confronto sembra sempre più addormentata. Quelle qui incriminate sono anche le mie zone preferite e in uno dei locali che Clerval indica come raccaforti bobo ci ho festeggiato il mio compleanno. Però, rispetto ad alcuni anni fa, l’impressione di omologazione e di crescente immobilità è palpabile, nonostante ci siano ancora delle differenze da zona a zona, da strada a strada. Qualche giorno fa un’amica che da una decina d’anni ha casa nel 18esimo mi ha detto che vorrebbe vendere e comprare altrove per sfuggire all’imborghesimento, all’appiattimento dilagante – e il paradosso è che a quel punto la scelta ricadrebbe forse su quartieri più borghesi, cioè “autenticamente” borghesi.
Del vivere a Parigi ho sempre pensato in maniera confusa che richiedesse un adeguamento estetico in senso ampio, esistenziale, come se la città ti domandasse di essere all’altezza; che comportasse un certo tipo “incasellamento” sociale in seguito al quale ritagliarsi un proprio piccolo spazio e non muoversi più. Ho anche pensato in forma grezza quello che Aleksandar Hemon dice meravigliosamente nel racconto Le vite degli altri (in Il libro delle mie vite, Einaudi 2013, trad. di M. Balmelli) a proposito della condizione di immigrato, e cioè che il vivere in un altro paese ti costringe a contrattare, a negoziare la tua individualità in vista di una nuova individualità da acquisire, in un processo di auto-alterizzazione – fino a farti sentire, a volte, come nel caso dei suoi genitori, “ontologicamente incerto”. Adesso sono meno catastrofica, pur continuando a pensare sostanzialmente le stesse cose, e credo si possa star bene anche a Parigi. Si potrebbe: ma il desiderio di autentico di cui ho detto finora parla da solo di una mancanza – mancanza che il processo di gentrificazione rende via via più profonda. La boboland in fondo è una piccola bolla all’interno della bolla più grande che è Parigi; e credo che quello di Parigi non sia che un esempio.