Originariamente Malinteso a Mosca avrebbe dovuto far parte di Una donna spezzata, raccolta di novelle che Simone De Beauvoir pubblica nel 1967 per Gallimard. Il racconto, scritto nel ’65, non compare però nella redazione definitiva dell’edizione francese, scartato, o meglio fatto a pezzi e poi ricomposto, modificato, rimaneggiato fino a diventare un testo del tutto diverso – anche se numerosi passaggi resteranno pressoché immutati – a cui la De Beauvoir dà il nuovo titolo di L’età della discrezione. Nella sua stesura originaria, Malinteso a Mosca rimane così un racconto del tutto sconosciuto, un’opera muta, confinata in qualche cassetto dell’appartamento-studio di Rue Victor-Schoelcher, fino a quando, nel 1992, sei anni dopo la morte della scrittrice, non apparirà per la prima volta sulla rivista universitaria “Roman 20-50”. Il carattere spurio di Malinteso a Mosca, il suo destino di figlio illegittimo, di opera non riconosciuta dal proprio autore, ne fanno quindi un elemento estremamente significativo all’interno della costellazione-De Beauvoir. L’idea che non sia stato scelto, che Simone De Beauvoir abbia sentito la necessità di riscriverlo sotto altra forma – e di pubblicarlo sotto altro nome – lo rende una sorta di indizio rovesciato. La sua specificità di impronta, di presenza assente, ne fa un sintomo privilegiato attraverso cui leggere alcune ossessioni tematiche di Simone De Beauvoir in quegli anni sempre più orientata verso la scrittura autobiografica.
Tra il ’65 e il ’67, De Beauvoir passa da Malinteso a Mosca all’Età della discrezione. Tra un testo e l’altro il malinteso è scomparso. Anche Mosca è scomparsa. Resta soltanto l’età al tramonto dei due protagonisti, André e Nicole, elemento fortemente presente in entrambi i testi e ora diventato tempo della discrezione.
Nel passaggio dalla prima alla seconda novella gli interventi più evidenti sembrano essere la totale eliminazione del fattore politico internazionale dal racconto e il passaggio da un gioco-incrocio di due voci narranti a un unico narratore femminile. Del viaggio a Mosca di André e Nicole, in cui è giocoforza leggere in filigrana i numerosi viaggi in URSS che la coppia Sartre-De Beauvoir aveva fatto in particolare tra il ’62 e il ’66, non rimane alcuna traccia. Così come la forte presenza maschile, la voce di André, che in Malinteso a Mosca si divide equamente lo spazio narrativo con la moglie, sembra aver abdicato del tutto, nell’Età della discrezione, in favore di Nicole.
Molto probabilmente una scelta di questo genere, l’eliminazione di una doppia focalizzazione maschile-femminile, nasce soprattutto da un problema di omogeneità. I tre racconti che compongono Una donna spezzata (l’omonimo Una donna spezzata, L’età della discrezione, e il Monologo finale) sono tutti testi alla prima persona, centrati su un io femminile onnipresente, rappresentazione e messa in intreccio di una femminilità borghese nell’atto di prendere coscienza della crisi radicale che sembra attraversare il proprio mondo. Malinteso a Mosca è costruito invece su una simmetria esatta, su uno sdoppiamento perfetto dei punti di vista. André e Nicole, coppia di professori in pensione, si alternano in una divisione nettissima, matematica, delle pagine. Il “malinteso” che nasce tra loro non è altro infatti che uno scarto, l’inserzione di un vuoto, di un granello di sabbia nell’ingranaggio perfetto di un sistema binario. Il lettore non può scegliere tra i due personaggi, non sa a chi dare torto o ragione, perché non esiste la possibilità di una immedesimazione univoca, ma solo un perpetuo spostarsi di tensioni e di contrappesi.
Tra un io e l’altro. Tra una voce e l’altra. Tra un mondo e l’altro. Perché Nicole e André sono di fatto due universi distinti. André è l’uomo tutto-azione. Vive nell’eterno presente della praxis. Conosce solo il qui e ora del gesto politico, dell’impegno civile. Per lui vivere equivale a fare, la prospettiva del suo sguardo segue il campo circoscritto del mondo contemporaneo. A lui appartengono infatti le pagine più squisitamente descrittive della novella, le riflessioni sull’URSS del ’65, sulla crisi sino-sovietica, sulla sempre più evidente sclerotizzazione dell’apparato burocratico comunista. Sua è la continua ansia di conoscere, di imparare il russo per parlare direttamente con le persone, per chiedere, per fare cose insieme a loro, entrando così nella struttura, tra i ponteggi e le lamiere del comunismo nell’atto del suo stesso farsi.
Nicole invece è la vittoria della narrazione sull’azione. Apparentemente meno coinvolta dal presente, a lei nel testo si devono i frequenti flashback narrativi. Nicole ritorna spesso al passato. Al passato dell’URSS, così diverso appena pochi anni prima. Al suo passato di ragazza e poi di giovane donna di cui adesso fa fatica a mantenere intatta la grazia. Lo sguardo di Nicole sul mondo è sempre uno sguardo bifocale, in grado di contemplare in un unicum la realtà e il suo passato, o meglio, in grado di vedere la realtà come il prodotto di un irrimediabile e continuo processo di invecchiamento e polverizzazione. Rappresentazione di una moderna Vanitas, il suo è costantemente un linguaggio del cordoglio, della perdita.
La vecchiaia come perdita di amore legata alla bellezza fisica e al desiderio, del resto, è un tema ricorrente nella scrittura di Simone De Beauvoir. Tra i testi immediatamente confinanti con Malinteso a Mosca ci sono Una morte dolcissima del ’64, sulla morte della madre, e La terza età del ’70, il cui titolo è sufficientemente eloquente per mostrare quali siano i suoi interessi teorici e narrativi di quegli anni. Ma non solo.
Il motivo del declino fisico, la repulsione per la peau molle appartengono a Simone De Beauvoir da sempre. Nei Mandarini (all’epoca della stesura del romanzo la De Beauvoir ha 46 anni) Anne, la protagonista quarantenne, durante una festa rifiuta un invito a danzare perché “troppo vecchia” (“Gli specchi di vetro sono troppo indulgenti: era questo il vero specchio, il volto delle donne della mia età, questa pelle molle, questi tratti disfatti, questa bocca sfondata, questi corpi che si indovinano curiosamente deformi sotto le loro cinture. Non sono altro che pelle vecchia, pensai, e io ho la loro stessa età”). Nel Secondo sesso del 1949, vero e proprio testo sacro per molte generazioni di femministe, l’età sembra essere l’unico elemento costrittivo, l’unico freno a una libertà della donna teorizzata e difesa in tutte le sue possibili articolazioni private e sociali (“Dal giorno in cui la donna accetta di invecchiare, la sua situazione cambia. Diventa un essere differente, asessuato, ma anche finito: una donna anziana”).
In moltissime pagine dei suoi diari, diventare vecchia significa di fatto diventare morta, trascolorare nel nulla. La paura della morte, ma soprattutto del decadimento fisico, ossessiona Simone De Beauvoir giovanissima insegnante di filosofia in un liceo di Rouen, così come Simone De Beauvoir affermata vincitrice del Prix Goncourt.
Il “malinteso” che in Russia si insinua tra André e Nicole non è quindi solo una banale incomprensione all’interno della quotidianità di una coppia rodata, ma è uno scarto tra due dimensioni opposte dell’esistenza. O meglio tra due dimensioni opposte del tempo. Il tempo congelato di André (che infatti percepirà il proprio corpo invecchiato, e una Unione Sovietica ormai profondamente diversa dal suo ideale giovanile, come un vero e proprio shock). Il tempo della perdita, con la sua idea di declino e di morte così strutturalmente connaturate, di Nicole.
Di fronte a questi due mondi, non pare quindi inutile sottolineare come alla fine Simone de Beauvoir abbia di fatto compiuto una vera e propria scelta. Delle due versioni della novella verrà pubblicata soltanto quella in cui la voce di André tace, in cui il suo eterno presente si trova annichilito di fronte al tempus fugit di Nicole. Se il malinteso tra André e Nicole nel racconto si trova alla fine sanato, il malinteso più profondo, lo scarto tra i loro due paradigmi temporali, al di fuori del testo non sembra trovare possibile risoluzione.