L’antro basso e buio dà accesso a una sala col soffitto a cupola, come se penetrassimo in una grotta piuttosto che nelle sale di Van Gogh/Artaud. Le suicidé de la société (al musée d’Orsay fino al 6 luglio). Sulle pareti e sul pavimento di questo interregno tra museo e mostra sono proiettate brevi concatenazioni di parole in cui riconosciamo presto il testo che Antonin Artaud scrisse su Van Gogh.
Forse un clin d’œil al visitatore: sì, siamo consapevoli che un’esposizione attorno a un solo testo è una trappola, che si rischia di riempire le pareti di citazioni, di rendere troppo letterali i richiami tra pittura e scrittura. Il testo di Artaud poi mal si presta a far da pannello esplicativo a una sala di quadri. Rompendo con il bellelettrisme della critica d’arte francese, è invece una scorribanda sciagurata, la reazione sclerata di un uomo che dai quadri di van Gogh si sente minacciato.
Pagine senza sviluppo narrativo che girano vorticosamente in tondo a un’unica ossessione: van Gogh “pazzo autentico”, “un uomo che ha preferito diventar pazzo, nel senso in cui la società lo intende, piuttosto che venir meno ad una certa idea superiore della dignità umana”; “un uomo che la società non ha voluto ascoltare e a cui ha voluto impedire di pronunciare delle insostenibili verità”. Un uomo che si è schierato contro la società che ha inventato la psichiatria “per difendersi dalle lucide indagini di certe menti superiori le cui facoltà di divinazione la infastidivano” (cito la traduzione di Alberto Castoldi, in A. Artaud, G. Bataille, Il mito Van Gogh, Bergamo 1987, comparso un anno prima dell’edizione adelphiana)
Artaud non spiega i quadri di van Gogh. Come ricordava Deleuze, Artaud non scriveva per (à l’attention de) ma al posto dei (à la place de) suoi lettori. Come ha fatto con Paolo Uccello nel 1924 (L’Ombilic des Limbes), s’identifica con van Gogh : “Sono anch’io come il povero van Gogh, non penso più, ma gestisco ogni giorno sempre più da vicino formidabili ebollizioni interne”. Ma, in finale, “siamo tutti, proprio come il povero van Gogh, dei suicidati dalla società”.
Van Gogh/Artaud: lo slash del titolo della mostra fa ben sperare. Fa pensare a S/Z, a Sarrasine e Zambinella, le due protagoniste del racconto di Balzac – scrittore mancino che scrive con la destra – analizzato da Roland Barthes. Nel corso della visita dovrò tuttavia correggere il tiro: Van Gogh e Artaud non funzionano come S/Z, non sono affatto due figure enantiomorfiche, ovvero simili e uguali in ogni parte ma incongrue, non coincidenti, non sovrapponibili, come due figure allo specchio, un guanto destro e un guanto sinistro, due orecchie, un’elica destrorsa e sinistrorsa. Nessun paradosso degli oggetti simmetrici con van Gogh e Artaud. Cosa allora? Dove far passare la sezione sagittale tra i due?
Infanzia di Artaud-Mômo
Una mostra con van Gogh e Artaud assieme è una pentola a pressione pronta a scoppiare, e anziché spiegare i quadri Artaud li esaspera, ne alza la temperatura. Fortuna che i suoi estratti puntellano discretamente i quarantacinque dipinti, in parte gli stessi che Artaud osservò all’Orangerie nel 1947. Riveniamo su questo momento.
25 maggio 1946: Artaud esce dall’ospedale psichiatrico dopo nove anni, di cui gli ultimi tre a Rodez. Qui si salva dalla carestia, ma quei quattro chili in più che prende gli fanno purtroppo raggiungere il peso minimo necessario per sottoporsi agli elettroshock. In tre anni ne subisce cinquantuno. Per combattere il dolore consuma oppio, eroina o laudano e idrato di cloralio. Così si conclude la parabola del rapporto di Artaud con la medicina, cominciato a soli cinque anni, quando il padre gli cura la meningite con l’elettroterapia.
Tra agosto 1946 e gennaio 1947 compie per cinque volte il tragitto da Ivry alla rue des Grands Augustins dove abita Picasso, che non si fa mai trovare in casa, come Artaud gli scrive seccato. Nel frattempo, il gallerista Pierre Loeb – che conosce Artaud sin dalla mostra di Balthus nella sua galleria nel 1934 – gli suggerisce di occuparsi di Van Gogh, su cui stava per aprire (gennaio 1947) una retrospettiva all’Orangerie, la seconda in Francia dopo quella del 1937, l’anno in cui Artaud entra in cura a Rouen. Col suo trascorso clinico, Artaud era ben attrezzato per scrivere sul pittore; tra alienati ci s’intende, cogita Loeb. Ma l’amico ha altro per la testa, con Gallimard pronta a pubblicare le sue opere complete in quattro volumi. Ne usciranno ventisei.
Lunedì 13 gennaio 1947, alle nove di sera Artaud sale alla ribalta del Théâtre du Vieux-Colombier. Qui aveva recitato per La vita è sogno di Calderón de la Barca (1922), qui aveva messo in scena la sua pièce Les Cenci (1935). Ha in mano tre cahiers con l’Histoire vécue d’Artaud-Mômo, ovvero il battesimo del nuovo Artaud che ha seppellito il vecchio Antonin, di un Artaud che si riappropria del suo nome prima rinnegato, che fa esperienza della morte – e risorge – in vita. “Personalità doppia”, si legge nel certificato medico del 1 aprile 1938 redatto all’ospedale Sainte-Anne, “conosce a mala pena e per sentito dire la personalità che porta il suo nome, Artaud; conosce molto meglio, attraverso ricordi di famiglia, un’altra personalità che porta un altro nome”. Secondo alcune testimonianze abbandonò la sala a metà lettura – è la sua ultima apparizione pubblica.
Pochi giorni dopo Artaud s’imbatte in un estratto di Du démon de Van Gogh (uscito sulla rivista Art il 31 gennaio) dello psichiatra François-Joachim Beer. È l’ennesimo capitolo dell’ormai secolare analisi clinica dell’artista – banco di prova della morsa mortale tra genio e follia – che spazia dall’epilessia alla schizofrenia, passando per l’analisi dei tratti somatici (“lineamenti scolpiti con l’accetta, lieve asimmetria facciale, leggera difformità cranica”, scrivono ad esempio Doiteau e Leroy nel 1928).
L’estratto di Beer comincia così: “Van Gogh era uno squilibrato con eccitamenti violenti dal tratto maniacale, con scatti improvvisi di attacchi collerici”. Artaud va su tutte le furie. Nelle prime pagine dei suoi appunti si legge: “Déséquilibré stérile? Merde”.
Domenica 2 febbraio 1947: visita la mostra con la giovane Paule Thévenin (futura curatrice dei suoi scritti). È il periodo in cui la ritrae con i gioielli attorno al collo che sembrano cristalli conficcati in gola, pronti a tornare allo stato organico per decapitarla. Più composto, al confronto, il ritratto in chiaroscuro di Pierre Loeb, con un’espressione intensa che, curiosamente, ricorda quella degli autoritratti di van Gogh.
Artaud attraversa le sale in fretta, prima che arrivi il pubblico della domenica. Non ha bisogno di restare a lungo davanti alle opere per cogliere l’essenziale. La stessa velocità, penso, con cui vanno letti i suoi libri, in modo da sbarazzarsene il prima possibile. Solo un incosciente può tenerli sul comodino. Persino Jean Baudrillard, non un campione di discrezione, ammetteva di parlare di Artaud con riserbo (in dialogo con Sylvère Lotringer, Oublier Artaud, 2005).
In due pomeriggi, Artaud butta giù una prima stesura su dei quaderni di scuola, un flusso torrentizio di parole con pochissime cancellature. Tuttavia, come la mostra parigina dimostra, ci lavorerà su quasi un mese (8 febbraio-3 marzo). Sulla scrivania tiene un paio di monografie (una della Phaidon e uno studio francese), nonché la copia del catalogo della mostra all’Orangerie, con le illustrazioni in bianco e nero e la copertina aniconica, così immacolata che la macchia con sprazzi di colore. Per il suo libro selezionerà sette illustrazioni.
Paule Thévenin gli legge le lettere di van Gogh al fratello Théo. Pubblicate in francese nel 1937, segnano un tournant nella considerazione critica dell’artista e della sua opera. Artaud continua a scrivere e a dettare a Paule parte del manoscritto. L’unico modo per sentire la scrittura orale di Van Gogh suicidato dalla società è di recitarlo a voce alta, come la mostra non manca di fare in una saletta che proietta Champs de blé aux courbeaux.
A marzo, su suggerimento di Loeb, Artaud rimette una copia quasi definitiva del manoscritto nelle mani di Frederick Kiesler, di passaggio a Parigi per l’Esposizione internazionale del Surrealismo alla galleria Maeght.
Il 1947 volge al termine. Pierre Loeb espone i disegni di Artaud nella sua galleria (4-20 luglio); ad agosto Artaud scrive un testo per la mostra dell’amico Balthus, che questi non lesse mai e fu pubblicato postumo solo nel 1983; in seguito lavora alla trasmissione radiofonica Pour en finir avec le jugement de Dieu (28 novembre) in cui dichiara guerra agli organi, compiendo il passaggio dal corpo anatomico al corpo atomico; un estratto del van Gogh esce su “Combat”, la rivista diretta da Camus; visita la mostra di van Gogh una seconda volta con Loeb, quando le bozze sono già pronte.
Finalmente K Editeur dà alle stampe tremila copie del libro, in parte finanziate da Loeb. Su uno sfondo verde olivastro, il dettaglio di un occhio di van Gogh è sovrastato dalla firma di Artaud; i piani dello scrittore e del pittore sono inclinati sin dalla copertina. 16 gennaio 1948, il libro riceve il Prix Sainte-Beuve. 4 marzo, Artaud-Mômo muore ai piedi del suo letto nella casa di cura a Ivry-sur-Seine, nella periferia parigina, con una scarpa in una mano e un flacone vuoto di cloralio nell’altra.
Poltrona
La mostra è articolata attorno ad alcuni snodi, sebbene un accrochage troppo serrato non ne faciliti sempre l’individuazione. Ne evoco quattro.
Il 23 ottobre 1888 Gauguin si trasferisce nella maison jaune a Arles dove van Gogh vive sin da febbraio. Lavorano gomito a gomito sugli Alyscamps, una necropoli romana poco fuori città. Un mese dopo i rapporti s’incrinano. Nella vigilia del natale 1888 la tensione sale alle stelle, van Gogh si taglia il lobo dell’orecchio sinistro con una lametta, lo accartoccia nel giornale e lo porta alla prostituta Rachel.
Questa perlomeno la leggenda; secondo una versione più recente, fu Gauguin a tagliare l’orecchio dell’amico nel corso di una disputa e questi preferì coprirlo inventandosi il mito della mutilazione sacrificale, ovvero quella “necessità di gettarsi o di gettare qualche cosa di se stesso fuori di sé” come scrisse bene Bataille. Castrazione procurata o subita poco importa, la tensione tra van Gogh e Gauguin è palpabile in un dipinto in mostra: una scena notturna e domestica con la poltrona di Gauguin e un lampione a gas che aleggia nello sfondo verde come una falena.
Artaud insiste sull’alone viola degli staggi della poltrona, pronto forse ad assalire la paglia verde del sedile, a far cadere la candela accesa appiccando così il fuoco nella stanza e, per esteso, alla pittura. Van Gogh, che una notte dell’inverno 1889 uscirà con dodici candele accese fissate a corona sul cappello per dipingere il paesaggio, riserva qui a Gauguin questo sostituto del sole; sulla sua poltrona sistemerà la pipa spenta e il cartoccio di tabacco.
Ospedale
8 maggio 1889, van Gogh entra all’ospedale Saint-Paul de Mausole (Saint Rémy de Province). Dipinge questo ex-monastero come un luogo di villeggiatura: tra gli alberi in primo piano si scorgono le mura paglierine baciate dal sole, le persiane verdi e gli stipiti bianchi delle finestre, le colonne porpora dell’ingresso, la facciata linda. Di tutti questi alberi bisogna però diffidare: basta osservare un altro dipinto in cui la vegetazione lussureggiante, dall’erba alle piante rampicanti sul muricciolo, si tinge di un rosso vinaccia. La figura che passeggia sul prato appare d’improvviso in pericolo, travolta da un momento all’altro da un’onda anomala.
Altrove i cipressi saturano lo spazio del dipinto e bloccano la vista; solo in un secondo momento si scorgono due donne, fagocitate dagli alberi. Assieme creano un impasto di colore, e di questo le due donne non sono che un epifenomeno, meri grumi di colore.
Qui l’arte di van Gogh tocca un punto critico, rilevato dall’occhio di Artaud: da una parte oltrepassa “la pittura capace soltanto di dipingere”; dall’altra, “Per dipingere non è mai andato al di là del ricorso ai mezzi che la pittura gli offriva”. La stessa tensione dei testi di Artaud che continuano a usare la lingua francese portandola al bordo della glossolalia.
Corvi
I corvi appestano Champs de blé aux courbeaux (1890), un paesaggio preso a sciabolate e installato nella prima sala della mostra all’Orangerie del 1947 visitata da Artaud. Su questa tela, “dipinta quasi nell’istante esatto in cui si liberava dell’esistenza”, come “un uomo con, nel ventre, il colpo di fucile che lo ha ucciso”, Artaud torna incessantemente. Nel nero escrementizio delle ali dei corvi vede la profezia della morte imminente. A quel punto, segni di malaugurio appaiono un po’ ovunque nella mostra, come un piccolo quadro (ma i quadri di van Gogh sono tutti così crudelmente piccoli) di un granchio sulla schiena (Arles, gennaio-febbraio 1889).
Surcouf. Roi des corsaires di Luitz-Morat (1924)
Grafemi affilati
Due sale giustamente separate sono dedicate ai disegni di van Gogh e di Artaud. I secondi, esposti alla galleria Pierre nel luglio 1947, furono realizzati nell’ospedale psichiatrico di Rodez. Tra un elettroshock e l’altro, il dottor Gaston Ferdière lo incitava a dedicarsi all’arte terapia, come Gachet aveva fatto con van Gogh. Fu così che, a dir il vero, Artaud si rimise al lavoro di buona lena.
Ecco i suoi “disegni maldestri” “che dicono MERDA a questo mondo”. Se le figure sono sortilegi, da disegnare e poi bruciare con un fiammifero, le parole sono grafemi affilati che si lanciano contro le figure come proiettili. Il logos ha smesso di essere una qualità dell’animale razionale che è l’uomo.
I disegni sono accompagnati dalle foto di Artaud prese da Denise Colomb, sorella del gallerista Pierre Loeb. Artaud è in completo, il collo avvolto da una filamentosa sciarpa nera, le maniche del maglione bianco dalla trama larga fuoriescono dalla giacca troppo stretta. La sigaretta penzola da una bocca senza denti che forse prova a sorridere, ma del sorriso non restano che i segni scarificati sul volto. Nell’unica foto della serie in cui è in piedi, Artaud tiene eretto un corpo rattoppato come il lenzuolo bianco alle sue spalle.
Denise Colombe, Artaud
I curatori del musée d’Orsay non se la sono sentita, mossi da compassione o forse, più pragmaticamente, da questioni curatoriali, di scegliere una di queste immagini – le uniche tuttavia legate alla fase redazionale del van Gogh – per l’affiche della mostra. Artaud il forsennato, l’“aliéné authentique”, lascia il posto a un intrigante ritratto di spalle col volto a tre quarti che Man Ray scattò nel 1926. Come per Chet Baker, è difficile tenere insieme il volto efebico di Artaud e quell’epidermide increspata degli ultimi anni. Quando nel 1943 l’amico Robert Desnos gli rese visita a Ville-Evrard stentò a riconoscerlo (fu lui a farlo trasferire a Rodez)
Man Ray, Artaud
Per farci dimenticare questi scatti, l’ultima sala della mostra propone un serrato traveling dei ventuno ruoli interpretati da Artaud al cinema tra il 1924 e il 1935. Accanto ai più celebri, mi colpisce la moltiplicazione del suo volto in Fait divers di Claude Autant Larz (1924). Impressionante Verdun, visions d’histoire (1927), un film di Léon Poirier sulla Grande guerra girato sugli stessi luoghi di battaglia, con scene di finzione intercalate da immagini d’archivio (su questo film consiglio Florence de Meredieu, Antonin Artaud dans la guerre. De Verdun à Hitler, Paris 2013). Attraverso la finzione cinematografica, Artaud rivive una guerra che trascorse in gran parte in casa di cura. Lo vediamo in trincea scarabocchiare sul tuo taccuino “La mort s’approche pour ceux qui la regardent en face”. Fino all’agghiacciante suicidio ripreso da una scogliera in Surcouf. Roi des corsaires di Luitz-Morat (1924).
Le sue passioni
“Vedo, mentre scrivo queste righe, il volto rosso insanguinato del pittore venire verso di me, in uno sfondo di girasoli sventrati”. Quel visionario che era Artaud vedeva però molte altre cose.
Nel 1938, dopo esser stato fermato per atti osceni in luogo pubblico in Irlanda, Artaud è ricondotto in Francia e internato undici mesi al centro psichiatrico Sainte-Anne di Parigi. Come riporta il certificato medico del 15 aprile, è affetto da paralogia delirante e megalomania sincretista, ha pretese letterarie e soffre di manie di persecuzione da parte della madre, della polizia e di Vishnu, un crescendo perfettamente artaudiano che, nel tono secco e scientifico del linguaggio medico, diventa ancor più surrealista.
Qui lavora un dottore ancora sconosciuto, tale Jacques Lacan, cinque anni più giovane di lui. Lacan trasmette all’amico di Artaud Roger Blin la seguente diagnosi: “Il est fixé. Il peut vivre jusqu’à 80 ans, il n’écrira plus une seule ligne, il est fixé”. Una cantonata clamorosa. Artaud morì a soli 52 anni; quanto all’altro presagio – “non scriverà più una riga” – l’attività febbrile tra il 1946 e il 1948 nonché i ventisei tomi di Gallimard (più cinque mai comparsi per un bieco affaire legale) la dicono lunga. Ma per Lacan, come appunta nel documento di congedo dall’ospedale, si tratta di “graphorée”, una diarrea d’inchiostro insomma!
Molti anni dopo, il 15 dicembre 1967, all’università di Roma, Lacan rivenne in un breve inciso su quella che denominò la “passione di Artaud” e che ho ripreso nel mio titolo. La passione m’intriga perché rimanda al trasporto, all’inclinazione, ma anche al travaglio, al patire, alla sofferenza fisica e, ancora, al richiamo cristologico perché, non dimentichiamolo, gli ultimi anni di Artaud sono segnati da una violenta oscillazione tra misticismo e blasfemia.
Eppure, a poco servì il comune trascorso surrealista: per Lacan la passione di Artaud andava tenuta a distanza come la peste che apre Il teatro e il suo doppio: “Si l’un de mes élèves s’enflammait en ce sens, je tenterais de le calmer”, ecco l’ingiunzione del “maestro assoluto” (Mikkel Borch-Jacobsen).
Ora, nessun Lacan poteva calmare la furia Artaud. E Artaud, ai tempi del van Gogh, era più incazzato che mai, soprattutto con chi portava un camice (“ogni conversazione con uno psichiatra, il mattino, all’ora della visita, mi faceva venire la voglia di impiccarmi, rendendomi conto che non avrei potuto strozzarlo”). Se la prende persino col dottor Gachet, “il grottesco cerbero, il marcio e purulento cerbero”. Stimato da van Gogh, secondo Artaud era colpevole di aver chiuso l’interruttore del pensiero del pittore coi suoi discorsi da psichiatra, che “lasciano sul cuore una specie di traccia di linguetta nera, la piccola lingua nera insignificante di una salamandra avvelenata”.
Nonostante i buchi di memoria causati dall’elettroshock, Artaud non aveva dimenticato. Quel dr. L. contro cui inveisce nelle pagine del van Gogh non è Jacques Latrémolière (assistente di Ferdière e autore di una tesi di cui è sufficiente il titolo: “Accidents et incidents observés au cours de 1200 électrochocs”), ma proprio Lacan, “sporco individuo schifoso”.
All’“erotomania” degli psichiatri, Artaud oppose la pittura di van Gogh, che “tornerà per sollevare in aria la polvere d’un mondo in gabbia, che il suo cuore non poteva più sopportare”, come nei campi di grano dipinti pochi giorni prima del suicidio (estate 1890). Alle “brulicanti composizioni” di Brueghel e Bosch, Artaud preferì il dipingere convulso di van Gogh, sebbene fosse una convulsione placata, come “il benessere fra due fasi transitorie di delirio”. Queste furono le sue passioni.