Abbiamo visto “ Jersey Boys “ regia di Clint Eastwood.
Tratto dall’omonimo e fortunatissimo musical del 2006 di Marshall Brickman ( collaboratore di Woody Allen ) e Rick Elice ( consulente creativo di Walt Disney Studios ) e con le musiche di Bob Gaudio, tastierista e corista dei The Four Seasons – il musical ha ricevuto ben quattro Tony Awards e il Laurence Olivier Award –, sceneggiato da John Logan ( Ogni maledetta domenica, Il Gladiatore, Hugo Cabret ), racconta gli inizi, il successo e la decadenza del gruppo rock’n roll The Four Seasons. Ma il film pur rimanendo legato al musical ha abbandonato la struttura divisa nelle quattro stagioni ognuna raccontata da un membro della band e quindi visto da un suo punto di vista.
Jersey boys è una storia di italoamericani degli anni Cinquanta, tra vincoli di sangue, piccole mafiosità e giovani che hanno ancora dei sogni e delle speranze. Questi ragazzi, adolescenti ancora per un po’, sentono la solita appartenenza a un mondo a cavallo tra le origini italiane, quindi intrise di piccola criminalità che sfiora quella grande, dove le regole di vita sono la lealtà nei confronti degli amici e il sogno americano fatto di rock and roll, voglia di riscatto e voci in falsetto. Naturalmente nell’immaginario collettivo filmico dello spettatore aleggia nei primi minuti Martin Scorsese, e ci si meraviglia che non compaiano all’improvviso Joe Pesci ( citato nel film ), Bob De Niro o Paul Sorvino; seguendo le scene, pur rimanendo nell’alveo antropologico di Scorsese, si sente la mancanza della minaccia, della vera violenza, di quel verismo-trasfigurato anche familiare che Martin ci ha inoculato nella mente. I protagonisti sono tutti credibili e bravi ma poco oriundi, anche il bravissimo Christopher Walken, pur calatosi nell classico stile della commedia del vecchio mafioso saggio, non rende per fisicità credibile il suo ruolo. E poi, in un mondo musicale in trasformazione come quello della fine degli Anni Cinquanta, non citare mai Elvis o i Platters e accennare soltanto a Sinatra sembra una sfumatura colpevole.
Siamo nel 1959 e il mondo sta cambiando, un po’ meno in quello dei guagliuncielli del Jersey. E’ l’epoca dei gruppi musicali maschili o misti che pubblicano a volte con fatica canzoni sentimentali che diventano grandi successi e non solo tra i giovani. Tra piccoli furti audaci e stupidi, tra famiglie semplici le cui madri pretendono il bacio e l’affetto dai figli o poco di più e mafiosi pater familias crescono tre ragazzi in fondo buoni anche se pericolosamente al limite. Loro non si accontentano della vita quasi prestabilita, hanno dei sogni musicali e non vogliono uscire dal quartiere come gli altri per entrare nell’esercito o diventare dei mafiosi: loro vogliono essere famosi, o semplicemente vivere di musica. Il più talentuoso dei tre ha appena sedici anni, è un po’ sbruffone e parecchio ingenuo, si chiama Francesco Castelluccio ( diventerà famoso come Frankie Valli ), poi c’è Tommy DeVito, simpatica faccia da schiaffi, il più disgraziato tra i tre, entra ed esce dal carcere sin da ragazzo, per lui il mondo è da prendere e non importa come, infine c’è Nick, quello più grande d’età, con minore personalità e che finisce dentro per sei mesi solo per suonare di notte l’organo in una chiesa per far colpo su una ragazza e per far cantare Frankie. Ma il loro sogno non è facile da realizzare e fanno anni di gavetta suonando un po’ dappertutto, vivendo in modo randagio, a volte restando senza soldi. Ma il successo arriva, la musica innovativa e popolare di Frankie Valli e del gruppo – che prenderà il nome di Four Seasons – raggiunge le classifiche e la popolarità televisiva, diventando uno dei gruppi di maggior successo della storia della musica americana ( Big Girls don’t cry e Walk Like a Man sono solo due dei maggiori successi dell’epoca ). Nel 1991, la band ormai sciolta da decenni verrà inserita nel Rock’n’roll Hall of Fame nel 1991. Il loro successo è durato pochi anni, litigi personali e soprattutto la disonestà di Tommy DeVito che indebiterà il gruppo con gli strozzini e con l’ufficio delle tasse per un milione di dollari, li porterà a separarsi. E il povero Frankie si accollerà tutti i debiti da solo per uno strano senso dell’onore e dell’amicizia, debiti che potrà ripianare solo con anni di duro e faticoso lavoro che lo porteranno lontano dalla famiglia e alla sua dissoluzione oltre alla perdita di una figlia assai infelice. Ma Valli resiste a tutto, agli alberghi di periferia, ai sensi di colpa, ai bar con le poltrone in pelle rossa, al disfacimento del suo mondo d’affetti ma la sorte alla fine lo premia incidendo una canzone in cui nessuno crede, la famosissima Can’t take my eyes off you nel 1967, successo planetario che i più distratti conoscono perché è stata la canzone del film Il Cacciatore di Michael Cimino ( in cui Chris Walken, Bob De Niro, John Cazale e John Savage la cantavano in una delle scene mito del film ).
Eastwood a 84 anni prende questo progetto inizialmente destinato ad un altro regista e sembra condividerlo con passione e trasporto. Fa un omaggio di un epoca senza scivolare nella retorica o nel sentimentale, avvalendosi della splendida fotografia di Tom Stern che non cerca mai con il colore la facile atmosfera nostalgica né tantomeno romantica o idealistica. Per giudicarlo un ottimo film però dobbiamo dimenticarci da subito la lezione e il taglio alla Scorsese che tuttavia aleggia nella prima parte e dobbiamo dimenticare che Il grande Clint non è riuscito a focalizzare gli eventi chiave, quei piccoli o grandi episodi capaci di dare spessore all’intera vicenda.
Molto bravi tutti gli attori, soprattutto John Lloyd Young che ha incarnato Valli e il mito Chris Walken nel ruolo del capomafia. Da segnalare, Vincent Piazza nel ruolo di Tommy DeVito, delinquente, musicista e amico di Frankie ( già segnalato nel ruolo di Lucky Luciano nella serie televisiva Boardwalk Empire ).
Assai piacevole il finale, tra stile musical e Bollywood, in cui tutti gli attori ballano e cantano per strada. Per esagerazione sarebbe stato divertente vedere anche Clint e la troupe ballare e scherzare in un finale leggero come un soufflè.