Eduardo Viveiros De Castro l’antropologo, in Italia, fuori dagli addetti ai lavori, è poco o per nulla conosciuto. Si tratta di uno dei pensatori più prolifici per l’antropologia, ma, come accade ad altri autori di grande rilievo, i suoi meriti vanno ben oltre gli studi antropologici. Per questa ragione mi permetto di scriverne, sperando di non urtare troppo la sensibilità disciplinare degli antropologi d’accademia.
C’è un libro mai scritto che si mostra come un’ombra attraverso le pagine della sua opera, un libro che Viveiros De Castro ci mostra come un progetto mai realizzato, l’Anti-Narciso, continuazione, riproposizione, derivazione dell’AntiEdipo, ripensamento e ripresa, in chiave antropologica, di quell’intreccio di pensiero tra psicoanalisi, filosofia e letteratura che è l’opera di Gilles Deleuze e Felix Guattari.
Brasiliano di origine, ha insegnato per anni in Europa, sopratutto a Cambridge in Inghilterra, per rientrare da alcuni anni a Rio de Janeiro, dove insegna al Museu Nacional. Scrittore prolifico, le sue opere si trovano in Portoghese, Francese, Inglese, Spagnolo e altre lingue; due tra le più importanti sono Métaphisiques Cannibales, Puf, 2009 e A incostância da alma selvagem, per Cosac Naify di San Paolo, volume di cinquecento pagine, del quale si è tradotto in inglese il terzo capitolo nel 2011. Il titolo originale di quel capitolo è: “O mármore e a murta: sobre a incostância da alma selvagem”, il marmo e il mirto, un tipo d’infiorescenza.
Il testo inizia con una lunga citazione dal Sermone dello Spirito Santo (1657), opera del Gesuita Antonio Vieira (1608-1697), un confronto tra l’anima di alcune nazioni e altre. Alcune nazioni sono difficili da evangelizzare, ostiche, quando convertite però mantengono la fede, come le statue di marmo, difficili da scolpire, ma poi eternamente formate in quel modo. Altre nazioni, così Vieira, sono come statue di mirto: facili da evangelizzare, così come per un giardiniere è facile tagliare un arbusto e dargli una qualche forma, ma costantemente in cambiamento, poiché dal mirto emerge sempre una nuova infiorescenza o un nuovo ramo. Costoro sono gli indiani del Brasile, hanno l’anima inconsistente. Facile vedere da quest’opera del Seicento un’anticipazione – ribaltata nelle intenzioni di Vieira – di Millepiani, forme che evocano linee di fuga, plateau continui d’intensità, rizomi, variazioni deleuzeguattariane, ma anche Spinoza, Leibniz, Nietzsche, Bateson.
La via che prende Viveiros Da Castro si sviluppa nell’idea del prospettivismo amerindi e del multinaturalismo. Definizione del modo di pensare indio (ontologia? epistemologia?). Come se questi anticipassero “certi programmi filosofici contemporanei, che si sviluppano intorno alla teoria dei mondi possibili, o che s’installano immediatamente dentro i dizionari infernali della modernità, oppure che, forti della costatazione della fine dell’egemonia critica […] definiscono, lentamente, nuove linee di fuga del pensiero […]” (Metaphisiques cannibales, p.13 trad. mia).
Mettere a confronto europei e indigeni significa mettere a confronto due mondi differenti: un mondo stabile e uno in continua trasformazione. Statue di arbusti, che accolgono facilmente le forme loro proposte, ma che sottopongono queste nuove forme a continui cambiamenti, versus statue di marmo, dure da ottenere, ma stabilmente e solidamente collocate in un dominio di verità assoluta.
Tuttavia è proprio qui che assistiamo al paradosso della trasformazione dell’Occidente a partire dalle grandi navigazioni. Questo paradosso, per essere compreso, ha bisogno di fare i conti con alcune premesse riguardo alle idee coloniali di progresso che caratterizzano l’epoca moderna: navigazioni, riforme religiose, caratteri di stampa, nascita dell’opinione pubblica, ecc. È il paradosso della Nave dei folli di Brandt, di cui ho scritto nel febbraio 2013 su doppiozero. Il tema della nave esprime le tensioni legate alle grandi scoperte oceaniche, quando la cultura europea comincia a mettere in dubbio i modelli della tradizione. Immaginate che significa per la gente, a quel tempo, rendersi conto che il mondo non è solo ciò che ruota attorno al Mediterraneo, ma qualcosa di assai più vasto, che la terra non è una piattaforma, ma una sfera. Una sfera, se fessurata, può inghiottire, come nell’Ulisse dantesco.
La prima premessa riguarda una supposta evoluzione del pensiero filosofico, dalla quale siamo, spero, da tempo vaccinati. Nietzsche per esempio ritiene che la tragedia di Eschilo e Sofocle (La nascita della tragedia) e il modo di pensare originario (La genealogia della morale) debbano essere riabilitati in contrasto all’episteme che s’installa dentro la filosofia occidentale da Socrate fino alla sua epoca. Dunque non si tratta di novità, benché la posizione di Nietzsche sia tuttora controversa e contrastata.
La seconda premessa, ben più malamente radicata, è quella che il sapere sia progredito durante la modernità in occidente, tanto da rendere la cultura e la scienza occidentale, nel loro complesso, in qualche modo superiori alle culture altre, e anche qui con gradienti di progresso distribuiti per area. Che in qualche modo, cioè, i Tupinambà, per esempio, rappresentino una sorta di grado zero della cultura.
Qualcuno potrà obiettare che no, che non è più così, che sul piano storico le grandi navigazioni hanno cambiato il mondo e il modo di pensare europeo, che la scienza antropologica ci ha spiegato che…
Che abbiano cambiato nessuno lo può negare, ma forse il problema consiste proprio in questo, che nell’avere cambiato il mondo, non si è cambiato il nucleo essenziale del modo di pensare dominante in Europa, questo modo di pensare sembra congiungere progressismo e colonialismo, devastante esperienza svolta in nome del progresso. La parola “progresso”, in quanto tale, sembra essere costitutiva del discorso coloniale.
A queste concezioni Viveiros De Castro, sulla scorta del Movimento Antropofago di Oswald De Andrade e Tarsilia Amaral, ripresenta l’idea di un cannibalismo culturale basato sull’osservazione che il Brasile, le Americhe, l’Africa, l’Asia, l’Australia, ecc., hanno cannibalizzato la cultura europea e l’hanno trasformata in una nuova cultura la cui espressione letteraria passa attraverso, nel caso brasiliano e solo per fare un esempio tra i molti – che Viveiros De Castro ha segnalato durante una conferenza presso lo Stanford Humanities Center intitolata “Through the Looking Glass of Language” – l’opera di Clarice Lispector (1920-1977), scrittrice ebrea, nata in Ucraina, che ha trascorso l’infanzia a Recife, e ha terminato la sua prolifica esistenza a Rio de Janeiro. La sua opera, avvicinata per lo stile e lo spessore a quella Joyce, è un limpido esempio di letteratura policulturale che connette mondi assai diversi come l’ebraismo askenazita, lingua e cultura yiddish, con il nordeste brasiliano e il mondo carioca.
Viveiros De Castro propone un modo di pensare l’antropologia differente sia dal classico essenzialismo (basato sull’idea di sostanza e identità) che dall’idea di opposizione/integrazione. La concezione da lui proposta è invece tratta dalle opere di Deleuze e Guattari: differenza e molteplicità, l’idea che la relazione sia, in primo luogo, sintesi disgiuntiva. Il capitolo sette di Metaphisiques cannibales sviluppa in modo coraggioso questo ragionamento. Non resta che perorare la maggiore presenza di Viveiros De Castro nel panorama culturale italiano. Ben di là dall’essere solo un antropologo, com’ebbe a dire Thomas Mann del romanzo l’Uomo senza qualità: “questo scintillante libro, che sta in audace equilibrio tra il saggio e la commedia, grazie a Dio non è un romanzo: non lo è più nel senso in cui Goethe disse che tutto ciò che nel suo genere è compiuto deve necessariamente uscire dal suo genere e diventare qualcosa di non paragonabile”. Valgano queste parole per l’antropologo Eduardo Viveiros De Castro.