Prima di cominciare, c’è qualche intuizione filosofica che vorresti offrire ai lettori in modo tale che possano dormire più tranquilli la notte?
Be’, mi limito a dire una cosa soltanto, che vale per gli esseri umani ovunque si trovino, siano essi registi cinematografici o altro. Rispondo alla tua domanda citando il magnate degli hotel Conrad Hilton, cui una volta è stato chiesto cosa gli sarebbe piaciuto trasmettere alla posterità. «Ogni volta che vi fate una doccia, assicuratevi che la tenda sia all’interno della vasca», ha risposto. Quindi, seduto qui, rivolgo a tutti la stessa raccomandazione. Non dimenticatevi mai e poi mai la tenda della doccia.
Quando ti sei reso conto per la prima volta che avresti dedicato la tua vita al cinema?
Dal momento in cui ho cominciato a pensare in modo autonomo ho capito che avrei girato film. Non ho mai avuto scelta riguardo al fatto di diventare regista o meno. Me ne sono reso conto nel corso di un paio di drammatiche settimane, quando, all’età di quattordici anni, ho cominciato a viaggiare a piedi e mi sono convertito alla fede cattolica. Dopo una lunga serie di fallimenti è bastato un piccolo passo per entrare nel mondo del cinema, anche se a tutt’oggi trovo difficile vivere ciò che faccio come una professione.
Sei noto come un regista a cui piace esplorare angoli remoti del mondo. Quando hai cominciato a viaggiare?
Già prima di aver ufficialmente finito la scuola ho vissuto a Manchester per un paio di mesi. Mi ci sono trasferito per via di una ragazza. Ho comprato una casa diroccata nei bassifondi della città insieme a quattro bengalesi e a tre nigeriani. Si trattava di una di quelle casette a schiera ottocentesche, costruite per la classe operaia; il cortile sul retro era pieno di detriti e di immondizia, e la casa era invasa dai topi. È stato lì che ho imparato l’inglese. Poi, a diciannove anni, subito dopo aver sostenuto l’esame di licenza liceale nel 1961, ho lasciato Monaco per la Grecia, alla guida di un camion che faceva parte di un convoglio per Atene. Da lì mi sono recato sull’isola di Creta, dove ho guadagnato qualche soldo, e poi ho preso una nave per Alessandria d’Egitto con l’intenzione di proseguire fino al Congo Belga. Poco dopo aver ottenuto l’indipendenza il Congo era precipitato nella più profonda anarchia e nella più cupa violenza. Sono affascinato dall’idea che la nostra civiltà sia come un sottile strato di ghiaccio sopra un oceano profondo di caos e tenebre. In Congo erano venuti a galla proprio gli elementi più terrificanti. Solo in seguito sono venuto a sapere che quasi tutti i viaggiatori che all’epoca erano riusciti a raggiungere le province più a rischio del Congo orientale erano morti.
E allora dopo Alessandria dove sei andato?
In pratica ho disceso il Nilo fino al Sudan e ora ringrazio Dio di essermi gravemente ammalato sulla strada per Juba, non lontano dal Congo orientale. Mi sono subito reso conto che per sopravvivere sarei dovuto tornare indietro il prima possibile, e per fortuna sono riuscito a raggiungere Assuan. In quel periodo la diga non era ancora finita. I russi avevano costruito le fondamenta di cemento e c’erano numerosi ingegneri tedeschi che lavoravano all’impianto elettrico interno. Uno di loro mi ha trovato nella baracca degli attrezzi in cui mi ero rifugiato. Avevo una febbre altissima e non sapevo neppure da quanto tempo fossi lì dentro. Dell’intera vicenda ho solo ricordi nebulosi. I topi mi avevano morso sul gomito e sull’ascella, ed evidentemente volevano usare la lana del mio maglione per costruirsi il nido, visto che quando mi sono stiracchiato ho scoperto un grosso buco. Mi ricordo di essere stato svegliato da un topo che si era arrampicato su di me, mi aveva morsicato la guancia e poi era scappato via in un angolo. Ci sono volute parecchie settimane perché la ferita si rimarginasse e ne porto ancora la cicatrice.
Alla fine sono riuscito a tornare in Germania, dove poi ho girato i miei primissimi film. Ogni tanto facevo una capatina all’università di Monaco. Mi ero iscritto a storia e letteratura, ma non posso certo sostenere di essere stato uno studente molto serio. A scuola odiavo la letteratura, ma all’università ho trovato una professoressa che ascoltavo con piacere. Era molto intelligente ed esigente. Mi rendo conto che grazie a lei ho capito molte cose che mi sono tuttora utili.
Come hanno reagito i tuoi genitori ai tuoi propositi di diventare un regista?
Non dovremmo parlare di «genitori» al plurale, dal momento che mio padre non ha mai avuto un ruolo nella mia vita. Però nell’agosto del 1961 mia madre Elizabeth mi ha spedito nel giro di un paio di giorni due lettere, che ho ricevuto mentre ero a Creta. Mi scriveva che mio padre Dietrich non vedeva l’ora di dissuadermi dal diventare regista. Prima di lasciare Monaco, a quanto pare, avevo solennemente dichiarato che al mio ritorno mi sarei dedicato al cinema. Scrivevo sceneggiature da quando avevo quattordici o quindici anni e all’epoca avevo già presentato varie proposte a produttori e stazioni televisive. Ma mio padre era abbastanza convinto che non avrei mai raggiunto il mio obiettivo e che il mio idealismo si sarebbe infranto nel giro di qualche anno. Secondo lui non disponevo di quelle doti – energia, perseveranza e fiuto per gli affari – necessarie per sopravvivere nello spietato mondo del cinema.
Che tipo di atteggiamento aveva tua madre?
Mia madre ha adottato un approccio più ragionevole. Non si sforzava di dissuadermi come mio padre; piuttosto tentava di fornirmi un’idea realistica di ciò in cui mi stavo imbarcando e di indicarmi quale sarebbe stata la mossa più saggia. Nelle sue lettere mi spiegava cosa stava accadendo allora a livello economico in Germania Ovest e mi esortava a pensare molto attentamente al mio futuro. «È un peccato che non si sia mai presentata l’occasione di parlarne in maniera approfondita», mi ha scritto a un certo punto. Ma mia madre mi sosteneva sempre. Io scappavo di frequente da scuola, scomparivo per intere settimane e lei non sapeva dov’ero. Intuendo che sarei rimasto fuori per un po’, scriveva immediatamente una lettera alla scuola dicendo che avevo la polmonite. Si rendeva conto che ero uno di quei ragazzi che non dovrebbero essere tenuti a scuola troppo a lungo. Spesso mi dirigevo a piedi o in autostop verso la Germania settentrionale, fermandomi in case abbandonate o in villette isolate. Ero diventato molto bravo a intrufolarmi negli edifici senza lasciare traccia.
Nelle sue lettere lei tentava di convincermi a tornare in Germania e a cominciare un tirocinio. Mi aveva già trovato un posto presso il laboratorio di un fotografo. Mi diceva di rimpatriare entro settembre per non perdere un altro anno e che bisognava sbrigarsi. L’impiegato di un’agenzia di collocamento le aveva spiegato che sarebbe stato difficile per me affermarmi nel mondo del cinema e le aveva suggerito di farmi cominciare in un laboratorio di fotografia, dal momento che avevo solo il diploma delle superiori. Poi sarei potuto entrare in un laboratorio cinematografico per maturare quell’esperienza che secondo lui dovevo avere per diventare aiuto-regista in una casa di produzione. Ma io avevo altro in mente e non c’è stato modo di convincermi.
Sei nato nel 1942 a Monaco, la più grande città della Baviera. Com’è stato crescere negli anni immediatamente successivi alla fine della guerra?
Un paio di giorni dopo la mia nascita, la casa accanto a quella in cui abitavamo noi a Monaco è stata distrutta da una bomba e la nostra è stata danneggiata. Siamo stati fortunati a uscirne vivi – la mia culla è stata ricoperta da una pioggia di schegge di vetro – così mia madre ha deciso di portare me e mio fratello fuori dalla città, a Sachrang, un piccolo paese di montagna al confine tra la Germania e l’Austria. Le montagne del Kaisergebirge nel Tirolo austriaco e intorno a Sachrang sono state una delle ultime sacche di resistenza in Germania alla fine della guerra, uno degli ultimi posti raggiunti dall’avanzata degli americani. In quel momento le ss e i Lupi Mannari erano in fuga e sono passati per il villaggio, nascondendo le armi e le uniformi sotto il fieno dei contadini prima di rifugiarsi tra le montagne. Da bambino conoscevo molto bene la frontiera tra Germania e Austria perché mia madre portava spesso me e mio fratello maggiore oltre confine, a Wildbichl, in Austria. La aiutavamo a introdurre in Germania vari beni di contrabbando, prodotti che non si trovavano dalla nostra parte della frontiera. Nel periodo postbellico il contrabbando era una pratica abbastanza tollerata; anche la polizia era coinvolta.
La mia infanzia è stata totalmente separata dal mondo esterno. Da piccolo non sapevo niente del cinema e per me non esistevano neanche i telefoni. Un’automobile era una cosa assolutamente straordinaria. All’epoca Sachrang, pur trovandosi solo a un’ora e mezza di macchina da Monaco, era un posto talmente isolato che ho visto per la prima volta una banana all’età di dodici anni e ho fatto la mia prima telefonata a diciassette. La nostra casa non aveva il water con lo scarico; anzi, non c’era proprio l’acqua corrente. Non avevamo materassi: mia madre riempiva sacchi di lino con felci seccate. D’inverno faceva così freddo che l’alito si congelava e la mattina quando mi svegliavo trovavo uno strato di ghiaccio sulla coperta. Ma è stato meraviglioso crescere così. Dovevamo inventarci gli svaghi, eravamo pieni di immaginazione, e le pistole e le armi che trovavamo – resti del passaggio dei soldati delle ss – diventavano giocattoli come altri. Da ragazzo ero membro della gang locale di teppistelli e ho ideato una sorta di freccia piatta volante che si lanciava con un movimento simile a una frustata e poteva arrivare a quasi duecento metri di distanza. Un’invenzione meravigliosa. Era molto difficile prendere la mira, ma non smetteva mai di volare. Riuscivamo a crearci intorno un mondo intero. A tutt’oggi, una parte di me non si è ancora adattata alle cose che mi circondano. Per esempio, ho ancora difficoltà col telefono. Sobbalzo ogni volta che squilla.
Potrebbe sembrare bizzarro alla gente di oggi, ma cose come il ritrovamento della scorta di armi ci hanno garantito un’infanzia meravigliosa. Tutti pensano che crescere in mezzo alle rovine delle città sia stata un’esperienza terribile. Non ho dubbi che lo fu per la generazione dei nostri genitori, che ha perso assolutamente tutto; ma per i bambini si è trattato di un periodo davvero stupendo. I bambini di città occupavano interi quartieri distrutti dalle bombe e si appropriavano dei resti degli edifici, andandoci a giocare e trasformandoli in teatri di grandi avventure. Questi bambini non vanno affatto commiserati. Tutte le persone che conosco e che hanno passato l’infanzia tra le rovine della Germania postbellica vanno in estasi per quel periodo. Era anarchia nel senso migliore della parola. Non c’erano in giro padri a dettar legge e non c’erano leggi da seguire. Dovevamo inventarci tutto da zero.
Quali sono i tuoi primissimi ricordi?
Ho due ricordi particolarmente nitidi. Uno è il bombardamento di Rosenheim. Una notte mia madre ci ha tirati giù dal letto, ci ha avvolti in una coperta e ci ha portati entrambi – un bimbo per braccio – su per il pendio dietro casa nostra. In lontananza si vedeva l’intero cielo tingersi di arancione e rosso. Lei ci ha detto: «Ragazzi, vi ho fatti alzare apposta. Dovete vedere questa cosa. La città di Rosenheim sta bruciando». Per noi Rosenheim era la grande città all’estremo confine del mondo. C’era una valle, e a dodici chilometri di distanza, alla fine della valle, si trovava Aschau, dove c’erano l’ospedale e la stazione ferroviaria, e ancora oltre c’era Rosenheim, che costituiva il limite del mio universo di allora. Da piccolo non ero ovviamente mai andato fino a Rosenheim. Con ogni probabilità i caccia avevano sorvolato l’Italia ma non erano riusciti a sganciare le bombe a causa della scarsa visibilità e così, mentre superavano le Alpi durante il viaggio di ritorno, le hanno sganciate sul primo posto che sono riusciti a vedere distintamente, per non rientrare carichi.
Il mio secondo ricordo vividissimo è l’apparizione di Nostro Signore in persona. Era il giorno di San Nicola, il 6 dicembre, quando Santa Claus, accompagnato da una figura simile a un demonio, Krampus, appare con un libro in cui sono elencate tutte le cattive azioni che uno ha commesso durante l’anno. A un tratto la porta di casa si è aperta ed è comparso un uomo che se ne stava fermo lì, in piedi. Io avevo circa tre anni. Sono corso sotto il divano e mi sono pisciato addosso. L’uomo indossava una tuta da lavoro marrone, non portava i calzini e aveva le mani sporche di grasso. Mi guardava in modo molto tenero ed era veramente gentile. Ho subito capito che era il Signore in persona! Più tardi ho scoperto che si trattava di un tizio di una compagnia elettrica che era passato di lì per caso.
Una volta mia madre mi ha raccontato che quando avevo cinque o sei anni mi sono ammalato abbastanza gravemente. Non abbiamo potuto chiamare l’ambulanza perché, anche se ne avessimo trovata una disponibile, eravamo bloccati dalla neve. Così mia madre mi ha avvolto nelle coperte, mi ha legato a una slitta e mi ha trainato tutta la notte fino ad Aschau, dove sono stato ricoverato in ospedale. È tornata a farmi visita otto giorni dopo, venendo a piedi nella neve alta. Io non ho ricordi molto nitidi; mia madre però mi ha raccontato di essere rimasta stupita perché non mi sono lagnato di niente con lei. A quanto pare, avevo strappato un filo dalla coperta del letto e ci avevo giocato per otto giorni senza annoiarmi. Per me il filo era pieno di storie e fantasie.
La Baviera era nella zona di occupazione americana. Ricordi i soldati statunitensi?
Certo. Ricordo le jeep che arrivavano e io che pensavo che fossero venuti da noi tutti gli americani del mondo, anche se in realtà erano solo una sessantina o giù di lì. I soldati viaggiavano sempre con una gamba che ciondolava fuori dalla fiancata e avevano tutti del chewing-gum. Ho visto per la prima volta un uomo di colore. Ero totalmente ipnotizzato perché avevo sentito parlare di uomini neri solo nelle favole. Era un uomo grande e meraviglioso, con una voce eccezionale. Mi pare di sentirla ancora oggi. Restavo a parlarci per ore. Un giorno mia madre mi ha chiesto come facessi a comunicare con lui. Pare che io abbia risposto: «Parliamo in americano». Una volta mi ha dato del chewing-gum: l’ho conservato per un anno intero, masticandolo di continuo. Naturalmente eravamo sempre affamati e in cerca di cibo. Proprio per questa ragione molti anni più tardi ho sentito un profondo legame con Dieter Dengler. In Little Dieter Needs to Fly lui racconta di quando andava a staccare la carta da parati dai muri delle case distrutte dai bombardamenti. Sua madre la cucinava perché nella colla c’erano sostanze nutrienti. Noi non siamo mai stati costretti a tanto: la nostra situazione non era così disperata. Un giorno ho incrociato un gruppetto di operai che avevano sparato a un corvo e lo stavano cucinando in una pentola sul bordo della strada. Per la prima volta nella mia vita ho visto un grumo di grasso che galleggiava sulla superficie dell’acqua. Non avevo mai visto prima il grasso in quella forma; è stata davvero una cosa sensazionale. Con una delle mitragliatrici che avevamo trovato nella foresta ho provato anch’io a sparare a un corvo, ma non ho avuto successo. Il rinculo mi ha scaraventato al suolo e mia madre – che sapeva usare le armi – stranamente non si è arrabbiata e non mi ha punito. Al contrario ha preso l’arma e ha detto: «Ti faccio vedere io come si usa». Mi ha insegnato a metterle la sicura e a scaricarla; mi ha portato perfino nel bosco e ha sparato una sola raffica di proiettili contro un robusto tronco di faggio. Le pallottole l’hanno trapassato da parte a parte; mi ricordo le schegge di legno schizzare via dall’altro lato. Lei mi ha detto: «È questo che ti devi aspettare da un’arma, per cui non devi mai puntarne una contro qualcuno, anche se è di legno o di plastica». Sono stato talmente sbalordito dalla violenza dei colpi che ho perso immediatamente ogni interesse per le armi e da quel giorno non ho più puntato neppure il dito contro qualcuno.
Che tipo di bambino eri?
Ero molto solitario. Ho imparato a concentrarmi per necessità, visto che a Monaco la mia intera famiglia viveva in un’unica stanza. In quello spazio ristretto abitavamo in quattro, ognuno intento alle sue faccende. Io mi sdraiavo supino sul pavimento e leggevo per ore, incurante di tutto il parlare e trafficare intorno a me. Spesso leggevo per l’intera giornata e quando finivo alzavo lo sguardo e scoprivo che tutti se ne erano ormai andati da ore.
Quando ci siamo trasferiti a Monaco è stato mio fratello maggiore Tilbert a prendersi cura della famiglia. Non gli piaceva la scuola ed è stato espulso dopo un paio d’anni. Si è subito dato agli affari, facendo rapidamente carriera. All’età di sedici anni era già quello che garantiva i maggiori introiti alla famiglia e, per quanto io stesso tentassi di racimolare qualche soldo appena mi era possibile, solo grazie a lui ho potuto continuare ad andare a scuola. Gli devo molto. Con il mio fratello minore Lucki ho lavorato a stretto contatto nel corso degli anni. Abbiamo padri diversi, ma per me non è un fratellastro: è un fratello a tutti gli effetti. Da ragazzo aveva un grande talento musicale, ma ben presto si è reso conto che non sarebbe diventato abbastanza bravo per competere con tutti gli altri pianisti che c’erano in giro e decise di dedicarsi agli affari, raggiungendo anch’egli il successo in un batter d’occhio. Credo che questo l’abbia spaventato: infatti non molto tempo dopo se n’è andato in Asia per un po’, visitando l’India, la Birmania, il Nepal e l’Indonesia. Gli ho scritto una lettera chiedendogli aiuto per la realizzazione di Aguirre e lui ha attraversato il Pacifico e ci ha raggiunti in Perù per darci un indispensabile aiuto. Alla fine ha cominciato a lavorare con me a tempo pieno, guidando la mia casa di produzione.
Herzog è il tuo vero cognome?
Dopo il divorzio dei miei genitori il mio vero cognome è diventato Stipetić, che era il cognome di mia madre da nubile. Herzog significa «duca» in tedesco e io pensavo che a fare cinema ci dovesse essere qualcuno come Count Basie o Duke Ellington. Tutto ciò che mi difende dall’immane malvagità dell’universo va bene.
Quali sono i primi film che hai visto?
C’era un proiezionista itinerante che si recava presso le scuole di provincia più distanti portando con sé una selezione di film in 16mm. È stato così che, a undici anni, ho visto i miei primi due film. Sebbene io sia rimasto abbastanza colpito dal fatto che un simile prodigio fosse possibile, il primo film, con degli eschimesi impegnati nella costruzione di un igloo, non mi ha coinvolto. Aveva un commento molto pesante ed era noiosissimo; inoltre, intuivo che gli eschimesi non stavano facendo un lavoro a regola d’arte. Il secondo film, che mostrava dei pigmei intenti a realizzare un ponte di liane su un fiume nella giungla del Camerun, era un po’ meglio. I pigmei lavoravano davvero bene e mi aveva impressionato molto il fatto che riuscissero a costruire un ponte pienamente efficiente senza avere a disposizione dei veri attrezzi. Si vedeva uno dei pigmei che si dondolava da una parte all’altra del fiume su una liana, come Tarzan; altri erano appesi al ponte in sospensione come ragni. È stata un’esperienza fantastica per me e ancora oggi apprezzo i pigmei per come lavoravano in quella circostanza.
Poi abbiamo visto Zorro, Tarzan, Il dottor Fu Manchu e cose del genere. Perlopiù si trattava di film americani di serie b a basso budget. Ciononostante, la visione di uno dei film della serie del Dottor Fu Manchu è stata per me una rivelazione. In questo film un uomo viene colpito da una pallottola e cade per diciotto metri da una roccia, fa una capriola a mezz’aria e poi sferra una specie di calcetto con la gamba. Dieci minuti dopo lo stesso identico spezzone ricompariva in un altro scontro a fuoco e io l’ho riconosciuto proprio per il calcetto. Il regista l’aveva riciclato pensando che nessuno se ne sarebbe accorto. Ne ho parlato con i miei amici e gli ho chiesto come fosse possibile che la stessa ripresa fosse riutilizzata due volte. Prima di allora pensavo che sullo schermo venisse presentata una qualche forma di realtà e che i film fossero delle specie di documentari. Tutt’a un tratto mi sono reso conto di come il film venisse raccontato e montato, di come venissero create la tensione e la suspense. Da quel giorno il cinema si è trasformato ai miei occhi.
Hai spesso parlato della tua ammirazione per le opere di Murnau. Quando hai visto per la prima volta i film espressionisti tedeschi realizzati negli anni Venti durante la Repubblica di Weimar?
Non li ho visti da piccolo, ma solo molto più tardi, dopo aver ascoltato una conferenza di Lotte Eisner a Berlino.
Hai avuto l’occasione di vedere le opere d’avanguardia che venivano realizzate all’epoca?
In effetti mi ricordo che, quando avevo all’incirca ventun anni, un giovanotto di nome P. Adams Sitney è venuto in Germania portando con sé moltissimi rulli di pellicola, cose tipo Stan Brakhage e Kenneth Anger. Sono rimasto molto impressionato dall’esistenza di film così diversi da quelli che ero abituato a vedere al cinema. Già allora intuivo che non si trattava del tipo di immagini con cui volevo lavorare. Ma il discorso era un altro. Il fatto che ci fossero persone coraggiosissime, pronte a far cose imprevedibilmente diverse, mi intrigava al punto che ho scritto un articolo su di loro e sul cinema visionario in generale. In seguito l’ho proposto a una rivista di cinema che lo ha pubblicato nel 1964.
Ti ho mostrato una lista, stilata da un critico inglese, dei cento migliori film di tutti i tempi e mi sono stupito di quanti non ne hai mai visti o sentiti nominare.
Non possiedo una particolare cultura cinematografica, perlomeno rispetto a molti registi. Vedo all’incirca un film al mese e di solito raggiungo questa media grazie a un qualche festival in cui mi sorbisco tutti i film in un colpo solo. A volte ricordo un film visto anni prima e mi vengono ancora i brividi per quanto era bello. Quando guardo un grande film, rimango sbalordito; è un mistero per me. Non so dare un nome a ciò che rende poetica, profonda, visionaria e illuminante un’esperienza cinematografica. Sono i pessimi film che mi hanno davvero insegnato qualcosa riguardo al cinema, perché consentono una definizione negativa: per carità divina, non fare le cose in quel modo. È facilissimo dare un nome agli errori.
Questo vale anche per i miei film. A impartirmi la lezione più immediata e radicale è stato il mio primo errore grossolano: Ercole. È stato un bene farmi le ossa con questo filmetto, anziché impegnarmi in qualcosa di molto più significativo, perché da quel momento in poi ho maturato un’idea più precisa di come dovevo procedere col mio lavoro. Imparare dai propri errori è l’unico vero modo di imparare.
Puoi parlarci più diffusamente della fase di intensa religiosità che hai vissuto?
Come ho detto prima, a quattordici anni ho avuto una drammatica crisi religiosa e mi sono convertito al cattolicesimo. Anche se adesso non faccio più parte della chiesa cattolica, nelle mie opere sembra persistere una vaga eco religiosa. A quattordici anni ho cominciato anche a viaggiare a piedi. Volevo raggiungere l’Albania, un paese misterioso, all’epoca completamente chiuso al resto del mondo; ma mi è stato proibito. Perciò ho raggiunto l’Adriatico e poi ho camminato sempre vicino al confine tra l’Albania e la Iugoslavia. Al massimo rimanevo a cinquanta metri di distanza. Tuttavia, non ho osato entrare in Albania. Quella è stata la mia prima fuga dalla vita domestica.
Hai fondato una tua casa di produzione quando eri ancora molto giovane. In effetti, tutti i tuoi film, compresi i primissimi, sono stati prodotti dalla Werner Herzog Filmproduktion. Cosa ti ha indotto ad assumerti così direttamente il ruolo di produttore?
A circa diciassette anni ho ricevuto una chiamata da alcuni produttori interessati a un progetto che gli avevo sottoposto. In precedenza avevo sempre evitato di incontrare persone del genere, perché ero molto giovane e temevo di non essere preso sul serio. Le reazioni abituali dei produttori al momento dei nostri incontri dipendevano forse dal fatto che ho avuto una pubertà tardiva e fino a sedici-diciassette anni ho mantenuto l’aspetto di un bambino delle elementari. Preferivo avere contatti indiretti con loro, per lettera o per telefono. Tra l’altro, quelle sono state alcune delle mie prime telefonate. Dopo le conversazioni telefoniche, i produttori di cui dicevo sembravano disposti ad accettarmi come regista esordiente.
Alla fine, quando sono entrato nel loro ufficio, ho visto due uomini seduti dietro una scrivania di quercia. Mi ricordo ogni singolo istante alla perfezione. Sono rimasto lì, completamente umiliato, mentre loro guardavano dietro di me, in attesa che si presentasse la persona che aspettavano e di cui io non potevo essere altri che il figlio. Il primo ha detto una cosa talmente offensiva che l’ho rimossa; il secondo si è dato una pacca sulla coscia, è scoppiato a ridere e ha strillato: «Ah, ah! Anche all’asilo si mettono a fare film oggigiorno». L’incontro è durato in tutto quindici secondi, dopo i quali ho fatto dietrofront e sono uscito dall’ufficio pienamente consapevole del fatto che sarei dovuto diventare io il produttore di me stesso. Quel colloquio è stato il culmine di molte disfatte e umiliazioni e si è rivelato un punto di svolta per me. In quel momento ho capito una volta per tutte che mi sarei sempre scontrato con un simile atteggiamento qualora mi fossi rivolto ad altri per produrre i miei film.
Una delle migliori amiche di mia madre era sposata con un ricco industriale che aveva un enorme palazzo e così mia madre mi ha organizzato un incontro con quest’uomo, perché mi spiegasse lui come mettere in piedi una casa di produzione. Lui ha cominciato a parlare a voce ridicolmente alta e non ha fatto altro che urlarmi contro per un’ora circa: «Questa cosa è una pazzia totale! Idiota! Non hai alcuna esperienza nel mondo degli affari! Non sai cosa stai facendo!» Due giorni dopo ho fondato la Werner Herzog Filmproduktion.
Ma non rientri per niente nello stereotipo del magnate hollywoodiano, giusto?
In realtà la fondazione di una mia casa di produzione non è stata altro che una misura d’emergenza resa necessaria dal fatto che nessuno voleva finanziare i miei film. Da allora li ho sempre prodotti io. Fino all’epoca di Nosferatu – Il principe della notte ho lavorato nel mio piccolo appartamento di Monaco, con un telefono e una macchina da scrivere. Mancava una chiara distinzione tra vita privata e lavoro. Al posto del soggiorno c’era una sala di montaggio in cui dormivo pure. Non avevo una segretaria o qualcuno che mi desse una mano con le tasse, con i libri contabili, con i contratti, con la stesura delle sceneggiature e con l’organizzazione. Facevo proprio tutto da solo; era un articolo di fede, una questione di semplice decenza umana occuparmi del lavoro sporco finché potevo. Per produrre un film servono solo tre cose: un telefono, una macchina da scrivere e un’automobile. Tuttavia, quando il mio lavoro ha cominciato a raggiungere platee internazionali sempre più vaste e sono aumentate in proporzione le retrospettive in programma e le persone con cui mettersi in contatto, è diventato troppo difficile condurre l’ufficio da solo.
Mi ricordo che all’inizio, quando la Twentieth Century Fox era interessata a produrre Nosferatu, i dirigenti della major mi volevano incontrare a Hollywood. Io non volevo andarci e così li ho invitati a Monaco. Li ho incontrati all’aeroporto: erano in quattro. Per salire sul mio furgoncino Volkswagen si sono dovuti stringere. Era una gelida mattinata invernale e io non avevo il riscaldamento. Li ho portati a fare un giro nella campagna bavarese. Più tardi sono rimasti allibiti quando si sono accorti che avevo previsto nel budget solo due dollari per la sceneggiatura: avevo solamente bisogno di duecento fogli di carta bianca e di una matita.
Come hai trovato i soldi per finanziare i tuoi primi film?
Durante i miei ultimi anni di scuola superiore ho messo insieme i soldi che mi occorrevano lavorando la notte come saldatore presso una fonderia, come custode di parcheggio e cose del genere. Forse il consiglio più importante che posso dare a coloro che si avviano verso il mondo del cinema è che, finché siete fisicamente integri, finché siete in grado di guadagnarvi un po’ di soldi da soli, non cercate lavori d’ufficio per pagare l’affitto. Ci andrei anche molto cauto con i lavori di segreteria infimi e tormentosamente inutili presso le case di produzione cinematografica. Andate fuori, nel mondo vero, andate a lavorare come buttafuori in un sex-club, come guardiani in un ospedale psichiatrico o in un mattatoio. Camminate a piedi, apprendete le lingue, imparate un mestiere o un’occupazione che non ha nulla a che fare con il cinema. Il cinema deve avere alla base un’esperienza di vita. Moltissimo di ciò che compare nei miei film non è mera invenzione; è la vita stessa, la mia vita. Quando leggi Conrad o Hemingway puoi renderti conto di quanta vita ci sia nei loro libri. Loro sono le persone che avrebbero girato grandi film, anche se ringrazio Dio per il fatto che siano stati scrittori.
Per il mio primo cortometraggio, Ercole, mi servivano un bel po’ di soldi, relativamente parlando, perché volevo iniziare a girare in 35mm e non in 16mm. Ero convinto che il vero cinema si facesse solo in 35mm; tutto il resto mi sembrava amatoriale. Il 35mm era in grado, più di qualsiasi altro tipo di pellicola, di dimostrare se avevo o meno qualcosa da offrire. Quando ho cominciato mi sono detto: «Se fallisco, devo fallire così rovinosamente da non poter più recuperare». Mi sono trovato a far parte di un gruppo di giovani registi. Eravamo in otto e gli altri avevano in linea di massima qualche anno più di me. Degli otto film progettati, quattro non sono mai stati prodotti e altri tre sono stati girati ma mai finiti per via di problemi col sonoro. Il fallimento dei miei colleghi è stato molto istruttivo: mi sono reso conto che per iniziare e per finire i film servono organizzazione e impegno, non soldi. In Fitzcarraldo non sono stati i soldi a issare la nave sulla cima della montagna: è stata la fede.