Il primo di gennaio del 1989 è una domenica. Ed è forse il giorno giusto per iniziare un diario. Derek Jarman si trova nella zona costiera del Kent, a Dungeness. Lì, nel 1986, ha acquistato una casa in legno, notata durante i sopralluoghi per The Last Of England. Prospect Cottage. Amore a prima vista. Gli basta poco più di una pagina, quella che apre Modern Nature. Diario 1989-1990 (Ubulibri, 1992), per circoscrivere il luogo, fargli prendere vita su carta, descrivere i ciottoli appiattiti, levigati dal sole e dal vento del mare, il faro, le travi nere della costruzione, gli basta poco per ricordare le tempeste marine che, in passato, hanno rischiato di portarsi via la casa. Lo sguardo di Jarman ruota sugli assi cardinali. Ad est alcune capanne di pescatori, qualche barca, costruzioni in rovina, abbandonate da tempo. Luoghi antichi, come le usanze di chi vi abitava («Lì, molti anni fa, le reti dei pescatori venivano bollite nell’ambra, per conservarle»). Sul retro della casa, la finestra della cucina getta sulla centrale nucleare. Il suo reattore somiglia ad una scultura postmoderna. Questo blocco verticale grigio acciaio viene addolcito dal verde della ginestra che lo incornicia, insieme a un gruppo di salici e frassini provati dalle tempeste.
Bastano insomma pochi tratti per gettare le fondamenta, disegnare lo spazio, quello spazio che sì è deciso di abitare: il rumore del mare, i gabbiani, il vento, il ciottolato desertico, la luce violenta del sole, i resti delle mareggiate. E un giardino da inventare, curare, accostando specie, piante e fiori, i loro colori. E il fish and chips del Pilot Inn, il migliore di tutta l’Inghilterra. Sarà l’effetto della centrale nucleare?
Durante la vernice in una galleria, un’amica lo sfotte dicendogli che ha finalmente scoperto la natura. Eppure, le cose non stanno proprio così. Per Jarman la natura è un ricordo d’infanzia. Nel 1946 vola con la famiglia in Italia, sul Lago Maggiore. La famiglia alloggia a Villa Zuassa*. Il padre di Derek è comandante del campo di aviazione di Roma e testimone nei processi di guerra a Venezia. Giardini rigogliosi costeggiano la sponda del lago. Il piccolo Derek, che ha da poco compiuto quattro anni, sfoglia Beautiful Flowers and how to Grow Them, un trattato di botanica che i genitori gli regalano. Cammina lungo i sentieri del giardino: «Il giardino di Zuassa correva per un miglio intorno alle sponde del Lago Maggiore. Sconfinava sui pendii pietrosi – una cornucopia di cascate di fiori». E a proposito del libro: «Chi può guardare un’illustrazione di un magnifico giardino senza provare l’impulso di coltivare fiori, e quali risultati se ne possono trarre!».
E’ dunque un “ricordo d’infanzia” a spingere Jarman verso Prospect Cottage? Forse. Non solo. Il giardino che Derek Jarman cura amorevolmente non è solo il sintomo di un ricordo d’infanzia che preme e riaffiora, ma è insieme una mossa, una sorta di posizionamento. E’ il giardino di un poeta, e sembra rimandare a un dettato orientale, a quei giardini cinesi del “poeta-scolaro” che funzionavano come luogo di ritiro dalle pressioni del mondo ufficiale e insieme come appropriazione poetica dell’universo. Per quanto l’esperienza dei giardini orientali sia unica e irripetibile, uno studioso come Stephen Bann (si veda “The Poet’s Garden: Notes on British Tradition”, Rivista di Estetica, XXI, n. 8, Rosenberg & Sellier, 1981) sospetta che si trovi proprio lì la fonte d’ispirazione, il germe di quella serie di “poet’s garden” rintracciabili in Inghilterra a partire dal diciassettesimo diciottesimo secolo. Nessun parallelismo. Il giardino inglese si configura piuttosto come la loro contro-immagine frammentaria, di cui trattiene almeno un elemento legato a quella tradizione: un luogo isolato, appartato e insieme un’appropriazione poetica. Il giardino e la villa di Alexander Pope, Twickenham, o di Ian Hamilton Finlay, Stonypath, ne sono due esempi.
Seppur isolati dal mondo, questi luoghi non devono essere considerati come il buen retiro degli sconfitti. Sono piuttosto una mossa ardita, inattesa. Derek Jarman potrebbe fare sua questa frase di Ian Hamilton Finlay: «Alcuni giardini vengono descritti come luoghi di ritiro quando invece sono vere aggressioni». Sono gesti politici. (Bussy-Rabutin, congiunto di Mme de Sévigné – ricorda Stephen Bann – forzato all’esilio dal Re Sole nel suo castello in Borgogna, lavorò per diversi anni ad un notevole schema di decorazione di interni che ritraevano la sua brutta situazione attraverso gli emblemi – una reminiscenza del culto delle imprese –, dichiarando, nello stesso tempo, la sua personale rivalità rispetto al monarca assoluto che l’aveva espulso.) I giardini di Pope, Hamilton Finlay o di Jarman sono di dimensioni più raccolte, in opposizione a quelli dei magnati Whig. Sono gesti di contrapposizione. E rispecchiano totalmente la loro opera poetica. Compresa l’eccentricità come marchio distintivo. Compreso, a volte, il cattivo gusto.
Contrasti cromatici, metallo recuperato dal mare, detriti, pietre: il giardino di Jarman è un luogo in perenne metamorfosi, e rispecchia colui che ha realizzato film per tutta una vita, in maniera libera: «Deborah al Working Title mi ha domandato perché appaio sempre così felice. Perché sono il cineasta più fortunato della mia generazione, ho fatto sempre solo quello che ho voluto. Ora che filmo semplicemente la mia vita sono un megalomane felice, ho aggiunto. Realizzare film a modo nostro fa apparire prefabbricati tutti gli altri; la maggior parte dei registi non è nemmeno capace di prendere in mano una macchina da presa, una volta posata la penna. E la pretenziosità!» Opposizione rispetto al mondo ufficiale del cinema, aggiungiamo. The Garden è il film che Jarman gira lì, a Prospect Cottage, Dungeness, con le persone a lui care.
Tutto, nel Diario, mette in luce questa ambivalenza: il mondo, la città, gli affari, le riunioni, le vernici, la socialità insomma, e dall’altra il Cottage, il giardino, la lotta contro gli agenti atmosferici, gli innesti di piante e fiori, come fossero rime a verso libero, o semplice materia cromatica naturale per un dipinto senza tela e cavalletto. Eppure ogni cosa viene alterata, erosa dal vento, dalle nuvole rigonfie di pioggia, e il sole battente: impossibile armonia, perenne stato di metamorfosi. Quella di Jarman è in fondo un’impresa folle, in pura perdita: far crescere un giardino tra i ciottoli della spiaggia. C’è tutto Jarman in questa immagine.
«A Dungeness non puoi dare per scontata la vita: ogni fiore che sboccia attraverso i ciottoli è un miracolo della natura. Derek lo sapeva più di ogni altro», ricorda Howard Sooley, che ha conosciuto Jarman sul set di Edoardo II. A volte i fiori emanano un odore forte, colto nelle sue diverse gradazioni, compreso quello della decomposizione. Ci sono erbe mediche, dal potere quasi magico. Howard Sooley ha fotografato il giardino di Prospect Cottage. Ne ha fatto un libro, intitolato Derek Jarman’s Garden (Thames & Hudson). Derek Jarman è morto per complicazioni dovute all’Aids, nel 1994. Il giardino e il cottage sono ancora lì. In perenne lotta contro gli agenti atmosferici.
* Un amico, Alberto Saibene, mi segnala che Villa Zuassa dovrebbe in realtà essere Villa Quassa, vicino a Ispra (Jarman ricorda forse male il nome?). Ora è un luogo di matrimoni. Lo ringrazio.