Sono in partenza per Singapore. Bel raduno di scrittori, traduttori, editori, si chiama Bridging Cultures, e almeno centocinquanta persone discuteranno e si affanneranno attorno a tematiche (letterarie, editoriali, linguistiche) che riguardano l’Asia dell’Est e il Pacifico.
Anni fa ho speso qualche mese a Singapore, facendo un po’ di scouting in giro per l’Asia del sud-est. Mi hanno chiesto: e perché fai base proprio lì, il posto più costoso, quello che letterariamente ti dà di meno?
Io non avevo una risposta precisa. Sapevo che da quella città stato mi sentivo attirato proprio per la sua anomalia. È il posto che più ricorda una certa fantascienza anni cinquanta-sessanta, quella più sociale che in fondo seguiva le orme di Orwell. E cosa c’è di più orwelliano di Singapore? Dove il termine grande fratello ha un senso, se non qui?
Molto sta cambiando, di recente. Alla piazza finanziaria si è sostituito il parco giochi per turisti asiatici. Ma un certo clima da patria degli androidi, degli uomini macchina, dei quadri d’azienda clonati in laboratorio c’è ancora: non guasta vedere di persona l’immaginifico sociale più temuto, capire quanto qui lo si sfiori.
Caso vuole che Gualtiero Gualtieri sul domenicale del Sole24ore della settimana scorsa recensisca un breve saggio di Rem Koolhaas, architetto, che la nostra Quodlibet ha tradotto e pubblicato di recente. Recente non è il saggio (è del 1995) Singapore Songlines, e quindici anni bastano a cambiare molti scenari, in Asia (io che non ho letto il libricino, mi limito qui a citare il recensore, e la breve introduzione dello stesso Koolhaas per Quodlibet, che invece è aggiornata): leggo affermazioni che condivido entusiasticamente, accanto ad altre che sono ormai fuori luogo.
“… (Koolhaas) descrive la Disneyland piena di divieti. Eccoli: non si può fumare, non si può bere, non si può fare l’amore. Rem racconta ciò che ogni città – anche Catanzaro – diventerà nel compimento dell’ideologicamente corretto. Una Disneyland con la pena di morte. In forza di una pena più che perfetta.”
Bello, perché sì, è Disneyland il modello: non so per Catanzaro, ma di sicuro per questo grosso pezzo d’Asia. Ma la pena di morte, a Singapore, oggi è applicata in misura sicuramente minore di quanto non lo sia negli Stati Uniti o in Giappone (era diverso nel 1995). Eppure mi piace la frase successiva di Gualtieri: “In forza di una pena più che perfetta”, e non sono sicuro di che intenda, ma io qui ci vedo il purgatorio del ceto medio: l’esistenza sempre uguale, predeterminata fin dall’infanzia, che conduce dall’asilo alla pensione senza un’apparente soluzione di continuità. Un’esistenza costruita in laboratorio. Forse, come accade in Occidente, resa sopportabile dalle terapie dell’anima o dalle droghe di sintesi a disposizione di una percentuale sempre più ampia della popolazione. Insomma siamo d’accordo: Singapore è un modello che rasenta certa fantascienza.
Disneyland, dunque. Non è vero che non si può bere (Singapore è città ad alto tasso alcolico non solo nelle sere del weekend, e questo è visibile: le strade sono piene di bar). Non è vero che non si può fumare (sono aumentate, come da noi, le zone con divieto assoluto, ma è normale che Koolhaas se ne lamentasse nel ‘95). E il ‘non si può far l’amore’ penso si riferisse alle frequenti retate che colpivano allora i bordelli della città-stato, che oggi invece produce escort per un turismo d’élite, addensato attorno ai casinò, come ai parchi giochi per bambini e adulti bambini, e a mostre d’arte tra le più importanti al mondo, che ci fanno tappa così come i musical di Broadway.

Ma che importa, se il testo di Koolhaas è datato? Nel suo breve prologo d’oggi (è online sul sito di Quodlibet), dimostra come la capacità di centrare la questione, di prevedere il futuro e scandagliare il presente, vanno oltre i dettagli caduchi. Oggi che Singapore è una democrazia i cui elementi di dittatura sono in declino (l’opposizione, benché marginalizzata, ha preso più del 40% alle ultime elezioni), Koolhaas scrive:
“Songlines suggerisce che la città-stato è una sorta di laboratorio semantico dove le sconcertanti questioni che caratterizzano la nostra epoca, come la coesistenza razziale, sono state esaminate prima che divenissero enormi impasse o crisi nel nostro continente. Gli esperimenti svolti a Singapore vent’anni fa non sono così diversi da quelli nell’Europa di oggi – nella semplificazione dell’educazione, nella medicina, nelle relazioni fra etnie. Siamo meno diversi da Singapore di quanto speravamo.
Songlines è stato il mio ultimo ritratto di una città reale esistente. È stato a Singapore che, spossato dalle minuziosità della ricerca, ho sentito improvvisamente che stavo iniziando ad afferrare l’essenza non solo di quella città, ma di ogni città nuova, ed è qui che ho scritto, spinto da un impulso febbrile, la prima stesura della Città Generica, una versione un po’ camuffata, astratta e generalizzata di Songlines.
In una certa misura (Singapore) è divenuta un modello per l’ambiente che ci circonda: molti dei suoi temi, attualmente, infestano il nostro cortile di casa.”
Bellissimo. Basterebbe così, ma ci aggiungo due pendant.
La prima è l’infinita discussione via mail con un amico, un poeta editor di “Singapore Quarterly Literary Review” (rivista letteraria online), al quale avevo inviato un breve testo. Sinteticamente dicevo: poiché la vostra città-stato ci apparecchia ambientazioni che J.G.Ballard aveva previsto in molti romanzi (SuperCannes, Cocaine Nights, Condominium, tanto per citarne alcuni), e vedendo il vostro ceto medio così simile a quello dei racconti di Carver, di Cheever, quando ci darete voi, Singaporeani al centro del mondo, il nuovo Ballard, o Carver, o Cheever? Il mio amico editor non ci stava, non capiva. Diceva, noi? Che c’entriamo noi? E perché ci vedi così? Abbiamo lasciato stare, col mio pezzo.
Il secondo pendant è una proposta al vento: che bello sarebbe, una collana nella quale architetti svegli, aperti come Koolhaas, sapessero raccontarcele, queste città asiatiche in mutazione. Forse farebbero meglio dei romanzieri.

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