A distanza di quasi un anno dalla sua premiere allo scorso Sundance Film Festival, arriva anche in Italia Boyhood, il nuovo film di Richard Linklater. Sono stati mesi in cui questo film non solo ha raccolto un consenso abbastanza stupefacente da parte della critica (il sito metacritic che fa una media ponderata delle recensioni della stampa americana gli ha dato 100/100) ma è stato anche protagonista di un continuo passaparola sui social network che l’ha già circondato di un’aura mitica. È come se Boyhood arrivasse in sala con già lo status di un classico prossimo venturo. E questa volta possiamo dirlo, davvero non a torto.
Che questo film nascondesse qualcosa di speciale lo si capiva già da come il progetto fosse stato pensato sin dall’inizio. Linklater inizia a girare Boyhood nel luglio del 2002 con quattro attori principali: Ethan Hawke e Patricia Arquette; e due giovanissimi esordienti, Ellar Coltrane, di sei anni, e la figlia del regista, Lorelei Linklater, di poco più grande di lui. Ogni anno, per dodici anni, la crew del film si troverà qualche settimana in Texas per girare un nuovo pezzetto del film seguendo la crescita dei due giovanissimi che da bambini diventeranno ragazzi e poi adolescenti, e quella degli adulti, che invece invecchieranno attorno a loro. Si tratta dunque di un progetto mai compiuto prima e che si è concluso soltanto alla fine dell’anno scorso, poche settimane prima che il film venisse presentato al circuito dei festival (al Festival di Berlino, dove l’abbiamo visto per la prima volta lo scorso febbraio non aveva nemmeno i titoli di coda).
Dodici anni sono infatti quelli che negli Stati Uniti separano l’inizio della scuola dell’obbligo, fino alla graduation al termine delle scuole superiori. Come ha detto ironicamente Linklater in una conferenza stampa: è la sentenza alla «carcerazione casalinga» alla quale tutti siamo condannati. E dodici sono gli anni che vedremo srotolarsi di fronte a noi nel film seguendo la boyhood di Mason, un ragazzo come tanti, al quale non accadrà nulla di particolare, o sensazionale, o straordinario. Semplicemente vivrà e crescerà. E così farà la famiglia (o le famiglie) che staranno attorno a lui: una sorella, quasi coetanea; due genitori che si sono amati, hanno fatto due figli e poi hanno divorziato; e una serie di figure più o meno paterne con cui la madre condividerà la propria vita e con cui Mason dovrà avere a che fare. Con più o meno successo. Con più o meno sofferenza. Come è la vita.
Nonostante la pulizia della regia e l’apparente understatement della scrittura Boyhood è però soprattutto una riflessione complessa e consapevole sul tempo. Perché di solito al cinema il tempo viene scandito seguendo gli snodi simbolici fondamentali di una vita: il primo giorno di scuola, il primo amore, il primo bacio, la prima volta in cui si scopre la sessualità; o tramite i momenti più duri: la solitudine, la prima volta in cui qualcuno di vicino muore, l’esclusione dei pari etc. Il tempo viene insomma visto tramite una serie di «punti» isolati, mentre tutto ciò che accade attorno viene ridotto ad aneddoto di poca importanza. Linklater invece decide di non guardare ai momenti platealmente topici ma di soffermarsi su alcuni dettagli della vita di tutti i giorni: quel weekend dove il padre va a prendere Mason e la sorella Samantha e li porta a una partita di baseball; quella mattina in cui Mason fa finta di essere malato perché non vuole che i compagni lo vedano con i capelli corti; quella serata passata con gli amici a quindici anni in cui si beve una birra e si fuma uno spinello ma non succede niente di particolare; quel giorno in cui Samantha si veste da Harry Potter per la festa per l’uscita del libro in libreria.
L’effetto prodotto è davvero straordinario e assomiglia alle sensazioni che si provano durante un trasloco (e Boyhood è non a caso pieno di traslochi), in cui si fa passare le proprie cose e ci si ricorda dei vari dettagli di cui è composto il nostro passato e che immediatamente ci danno l’esperienza del tempo. Perché il tempo passa così: indipendentemente dalla nostra volontà o dal nostro controllo, e a volte – come diceva Freud – si attacca a cose apparentemente marginali. Ecco che allora vediamo susseguirsi le diverse canzoni che si sentivano durante gli anni, i modelli di videogiochi che cambiano e si evolvono, le partite di baseball degli Houston Astros o i pomeriggi che si passano col proprio padre nel weekend, che a volte sono fatti di conversazioni interrotte, di comunicazioni insoddisfacenti, di rapporti che forse immaginavamo diversi ma che il tempo ci consegna invece per quelli che sono. In una loro bellezza che Linklater è capace di vedere al di là del bene e del male.
Boyhood è infatti anche un bellissimo film sul fallimento e l’inadeguatezza. Innanzitutto quella dei genitori che, come tutti, sbagliano, fanno delle scelte avventate, si mettono dentro a relazioni che sono piene di problemi. E che sono confusi tanto quanto i figli, e spesso non si accorgono nemmeno di quanto accade attorno a loro. E poi anche delle situazioni stesse, che non sono mai quello che vorremmo o che ci immaginavamo. Il giorno della graduation, Mason non voleva nemmeno fare una festa perché era appena stato lasciato dalla ragazza e quello che vien fuori è un evento un po’ così, imperfetto, dove i discorsi dei brindisi non usano le parole magniloquenti dei rito di passaggio che si vedono in molti film, ma quelle un po’ awkward, fuori posto, di chi non è mai fino in fondo al livello della situazione che sta vivendo.
«Qual è il senso di tutto questo?», si chiede Mason verso la fine del film. Infatti, qual è il senso dello scorrere del tempo che, come dice Olivia (la madre meravigliosamente interpretata da Patricia Arquette), fa sì che semplicemente e crudelmente, i momenti scorrano uno dopo l’altro e letteralmente muoiano uno dopo l’altro di fronte ai nostri occhi? Il senso, semplicemente non c’è, perché sarebbe soltanto un modo per opporre una resistenza al fatto che le cose attorno a noi, compresa la nostra stessa vita, vanno verso un’inesorabile deperimento. Non si tratta di dover cogliere l’attimo del tempo che scorre per piegarlo alla nostra volontà: è semmai il tempo stesso che coglie noi di sorpresa. E che ci lascia così, senza alcun insegnamento da trarre se non quello di aver vissuto, sempre un passo indietro o uno troppo avanti rispetto all’ideale di quello che avremmo voluto.
Ma la cosa forse più stupefacente di questo film è il modo in cui Linklater dà una rappresentazione riuscita delle relazioni famigliari e della loro forma sempre e strutturalmente incompiuta. Perché se è vero che il cinema spesso per poter «mostrare» sullo schermo la significatività di un rapporto tra due persone deve poterlo verbalizzare esplicitamente e dargli una forma compiuta (il padre e il figlio che si dicono che si vogliono bene etc.), nella vita raramente accade così. Più spesso i rapporti sono fatti di mezze frasi, di cose non dette, di un amore che non viene «espresso» e «mostrato» ma che è fatto semplicemente della condivisione del tempo che scorre. Nessuno dirà al padre Mason Sr. (Ethan Hawke) che nonostante non abbia mai avuto un lavoro vero e proprio e fantastichi ancora di diventare un musicista a più di quarant’anni è stato un buon padre. Come Samantha non dirà mai al fratello più piccolo che gli vuole bene. L’amore spesso non è una dichiarazione d’intenti. È una parte della nostra vita che rimane fuori dai confini stretti del riconoscimento reciproco.
E tuttavia Boyhood non può essere ridotto a un semplice cantico di affermazione della vita nella sua forma più «vera» o «autentica», come invece è stato visto da molti. Come sempre nel cinema di Linklater parlare di vita e parlare del tempo vuol dire anche inevitabilmente parlare della morte. Lo si vede già da quando Mason bambino si ferma a guardare con aria perplessa quell’uccellino morto dietro casa sua, come a chiedersi il senso dell’inesorabile finire delle cose. Perché non si può negare che Boyhood sia anche popolato da un incombente senso di finitudine: di quello che ci sta attorno, del mondo che abitiamo e che a poco a poco scompare. E infine anche di noi stessi che piano piano ci avviciniamo sempre di più alla morte. La vitalità dei due ragazzi che crescono e diventano adulti è infatti «raddoppiata» dall’invecchiamento dei genitori (e dei loro corpi) che vedono il mondo sfuggirgli dalle mani. Linklater sembra infatti quasi ossessionato a voler sottolineare tutti i momenti dove le cose finiscono, come quando vediamo Mason imbiancare la propria camera prima di abbandonarla cancellando le tacche sul muro dove veniva marcato il suo diventare grande. O quando il suo amico d’infanzia il giorno del trasloco prova a ricorrerlo in bicicletta per dirgli addio. Ma arriva troppo tardi, e quel momento di riconoscimento tra i due, semplicemente non avverrà mai più.
Quando dopo quasi tre ore di film, al termine della proiezione per il pubblico alla Berlinale di Boyhood si sono accese le luci era difficile trovare un solo spettatore tra le molte centinaia presenti che non avesse le lacrime agli occhi. Se Linklater è stato capace con questo film di arrivare così efficacemente a segno non è certo per un sentimentalismo a buon mercato, di cui il film è completamente privo, o perché la regia contrappunti sottolineandole le emozioni degli attori, ma semmai perché viene mostrato di meno, viene sottolineato di meno, viene visto di meno, nonostante l’attenzione spasmodica per i dettagli.
Boyhood è davvero il film di una vita: innanzitutto di Linklater che firma la sua opera più bella e matura; degli attori, che hanno fatto la non facile esperienza di legare la propria giovinezza a questo film (Lorelei Linklater ha ammesso che guardare il film per la prima volta è stato «doloroso» più che bello); ma infine anche di chi questo film avrà la fortuna di vederlo e che difficilmente potrà dire di aver mai vissuto un’esperienza del genere.