Sotto l’antica città di Teotihuacan, a pochi chilometri da Città del Messico e nel parco archeologico perimetrato dalle giganti Piramide del Sol e della Luna, gli archeologi dell’INAH (Istituto Nacional de Antropologia e Historia) hanno appena rivelato un tesoro strabiliante. Come un cimitero subacqueo, uno scrigno abissale che si apra all’improvviso, è emerso dalla terra un tunnel sotterraneo contenente oggetti votivi, ninnoli precolombiani, maschere di giaguaro, incensari teriomorfi, gioielli d’ossidiana, statuette di pietra e metallo, idoletti. Una galleria magica che possiamo usare per divinare il presente attraverso il magnetismo di oggetti e facce di un passato che torniamo a toccare nella tenebra, insospettiti o impauriti dal poterne essere sedotti. Gli archeologi l’hanno definito, questo ricettacolo di straordinarie offerte alla divinità, una rappresentazione dell’inframondo teotihuacano, passaggio per l’aldilà di una civiltà scomparsa di cui conosciamo poco o niente, sbranata dalla Storia e scavalcata molti anni dopo dagli imperialisti aztechi.
Ma cosa significa infra-mondo, qualcosa che non è terminale come l’inferno cristiano, né cristianamente purgatoriale, ma che sta semplicemente più in là, e allo stesso tempo tra, infra, forse tra i vivi e morti? A seguire molte delle civiltà precolombiane, e non qualche invasata saga fantasy o serie di licantropi dandy, l’Inframondo è sì il regno della Morte, ma non il regno del Diavolo, dell’ambiguità, è un regno che riflette al contrario quello della Terra. Ed anzi è chiamato spesso un ventre generativo: qualcosa che condanna all’analogia delle proprie colpe, e ne nutre di nuove.
In quel tunnel appena dissotterrato, ciò che più impressiona è quella ricostruita volta celeste fatta di pietre levigate e riflettenti al passaggio delle torce degli archeologi. Ed anche che il tunnel stesso si trovi costruito al fianco di torrenti sotterranei per meticolosa replica del fluire sovrastante. Nemmeno il più ardito scrittore latinoamericano avrebbe osato cotanto teatro, con questo specchio al contrario di stelle e fiumi, quest’emisfero nero nel quale i messicani possono leggere la loro storia recentissima: quella delle fosse comuni di questi mesi, e anni.
Anni, dico. Non è infatti d’un tratto, che sappiamo dell’arcaica violenza di questa nazione. Non ci svegliamo solo oggi, a seguito dei fatti di Iguala, dove 43 studenti di una Scuola rurale di preparazione per insegnanti di Ayotzinapa sono stati fatti sparire il 26 settembre sotto gli occhi di tutti. Studenti probabilmente trucidati e riversati nelle miriadi di fosse che piagano il Messico peggio dell’ex-Jugoslavia. Non è adesso che sappiamo del legame inscindibile tra società rigidamente piramidale, istituzioni offuscate e deportazione programmata. Della connivenza tra politici, cittadini e narcotrafficanti sempre più iperbolicamente sanguinari. I pezzi del puzzle sono noti. La politica messicana è solo meno abile di quella statunitense o brasiliana nell’essere propagandistica, cosmetica, delle sue problematiche. Poco abile ad esportarle e impacchettarle, a negarle in uno spazio neutro, ben sotterrato altrove.
Anche se molte sono le cose che è possibile costruire sopra una fossa comune, per occultarla sotto le fondamenta della propria casa e non pensarci più. Stavolta però pare che il rimorso da occultare in quelle stesse fondamenta-scantinato sopra le quali vive sovente la società messicana, sia caduto di mano, abbia pesato troppo: gli studenti, no, adesso è troppo!
Si sente questa bizzarra e dolente litania levarsi in questi giorni nelle manifestazioni finalmente multicolori, trasversali, non più appannaggio di una corporazione sindacale, di una comunità in estinzione o di un nucleo esiguo di ragioni e interessi. Il Messico si sveglia terra di fosse anonime da dissotterrare. Quante cose i messicani vi hanno costruito sopra? Magari un quartiere di Monterrey fatto di grattacieli dell’alta finanza scintillanti. O un appezzamento di case popolari, di viviendas tutte uniformi una all’altra, come batterie di auto sbeccate dopo pochi giorni d’inaugurazione istituzionale. Un notorio chiringuito sulla spiaggia, ci si potrebbe trovare sopra una fossa, gestito da un calabrese arrivato qui con le Tute Bianche italiane.
Un chiringuito dove ricordo ancora con orrore l’apologo di un canadese che si era recato a Huatulco, nello stato di Oaxaca, a cercare una ex moglie scomparsa: l’aveva ritrovata dopo molte indagini, a brani, sotterrata in una spiaggetta in voga tra i surfisti europei. Sopra una fossa, nell’intreccio delle oggi impotenti e farfallone diplomazie internazionali – Cosa fanno? Che pensano del Messico odierno? Quali e quanti rimorsi spostano? – ci puoi edificare la sede di un’ambasciata nel Paseo de Las Palmas a Città del Messico, con le loro belle convention di prodotti DOCG, le fiere della caciotta, della moda francese, del nigiri giapponese, del ventaglio spagnolo.
Oppure ancora, puoi edificarci un’università privata che niente ha da invidiare per installazioni a Princeton, come ad esempio l’Universidad Iberoamericana. Quell’università che due anni fa c’ha donato altri numeri, oltre a quel 43 scomparsi: i 131 studenti del movimento studentesco YoSoy132, nato nelle aule della Ibero per contestare l’imbarazzato-imbarazzante presidente Peña Nieto, e che oggi si riattivano in picchetti in tutto il Paese. Tanti sono così gli slanci e le macchinazioni di una nazione rampante e imprenditrice, su fondamenta però tetrissime.
O piene di migliaia di corpi ai quali ci sarebbe da aggiungere lo spazio doloroso conquistato da quei 22.322 desaparecidos, numero che ci è giunto aggiornato ad agosto 2014.
Penso alla multiforme realtà messicana, a quel primo inframondo segreto teotihuacano che ci replica, alle fosse dei narcos, ai desaparecidos tra i vivi e i morti come offerte mancate ad una divinità a cui non so dare nome (Ignavia? Odio? Disamore? Cupio dissolvi?), e mi tremano le fondamenta del rimorso.
Tutto il culto festoso della morte messicana non mi è più sufficiente, le sue dame scheletriche catrinas hanno veramente la cassa toracica sfondata dalla malattia. Non c’è più festa e colore nella morte messicana quest’anno, perché non c’è più morte che libera e trasforma, ma piuttosto oblio, fossa scura, apocalisse per deportazione del quotidiano: io stesso ho e ho avuto una fossa comune che mi spezza lo stomaco, me lo svasa, da ex-residente.
Quel rimorso nei confronti delle persone che ho incrociato nelle stazioni sgangherate degli autobus, spossate dalla povertà e dai campi inarabili, i campesinos che ho sfiorato senza retorica e senza disprezzo, in loro l’eleganza del santo e del più dignitoso animale. Oppure, perché oggi è importante fare un discorso finalmente trasversale e interclassista sul Messico: lo sguardo perso di un conoscente al ristorante, che mi racconta del sequestro di un parente vicino, la moglie di quello spezzata dalla paura, i figli già pronti a fuggire al gabacho (così chiamano gli Stati Uniti), un investigatore privato che dorme accucciato con loro da mesi per origliare le telefonate dei sequestratori e impegnarsi in nuovi calcolati riscatti.
Così i fatti relativi a quei 43 studenti desaparecidos a Iguala, sono solo il neon sfrigolante che accendo scendendo nel mio personale scantinato, dove per troppo tempo ho ammassato l’oblio necessario dei tempi messicani: i tempi moderni, delle agevolazioni, delle falcate voraci di un paese giovanissimo e a tratti spensierato – che è poi quello energico, esaltato delle manifestazioni studentesche di questi giorni.
Ed i tempi altrettanto moderni di totale assedio del quotidiano, negato ma che sempre riemerge, in cifre tonde, enumerazioni, conti alla rovescia e differenze. In quella ragioneria dei morti e dei vivi che da più di dieci anni minaccia questa nazione, portando alla ribalta città e pueblos prima di adesso sconosciuti internazionalmente. Acteal come Iguala come Ciudad Juarez, e per qualcuno come la Santa Teresa di Bolaño: visto che la più fedele indagine sociale degli ultimi anni in Messico per me rimane ancora, a conti fatti, l’anestetica Parte de los crímenes del suo romanzo 2666.
Niente di nuovo sotto il sole: cosa abbiamo, di nuovo, infatti, attorno alla ridda di quei 43 studenti scomparsi a Iguala? Un sindaco, José Luis Abarca, el alcalde corrotto, una faccia volpina e un nomen omen (abarcar significa in spagnolo comprendere, controllare, occuparsi di molte cose allo stesso tempo), l’emissario di killer drammaticamente ancora ipotetici contro i manifestanti studenti: già contemplato in molta letteratura latinoamericana classica, e in Daniel Sada recentemente. Una moglie, l’alcaldesa, Maria de Los Angeles Pineda, altrettanto potente e forse ancor di più del marito, ricca in budget, botox e parentele nel clan Beltrán Leyva, che si maschera dietro azioni caritevoli come fosse una Michelle Obama, e poi chiama la polizia a sgomberare con la violenza la scena di un meeting politico: già successo.
Polizia fino al collo collusa coi narcos oggi dagli epiteti guerreschi e improbabili – un clan si fa chiamare persino I Cavalieri Templari – un’altra ics notoria alla lista delle barbarie della provincia messicana. E poi quelle fosse comuni nelle montagne dello stato di Guerrero (ma non solo là, non solo), terra intossicata dalla corruzione fin da Acapulco, e giù giù nell’entroterra, fosse magicamente scoperte solo adesso, nelle quali si fruga senza pudore per cercare i corpi degli studenti. In territori non molto distanti dall’apparentemente corrazzata Città del Messico: oggi terra ribollente più di start up, innovazione sociale, materiali biodegradabili, supermarket gourmet, festival latinoamericani di freschissimo rock alternativo, come quello visto al recente Corona Capital, ispirato a gruppi come Café Tacuba, ai Caifanes, al bardo argentino Gustavo Cerati, dioscuro morto recentemente dopo anni di coma profondo.
“Separarse de la especie / por algo superior / no es soberbia es amor”, “Separarsi dalla specie / per qualcosa di superiore / non è superbia è amore”, diceva proprio quel bardo nella sua canzone Adios. E distaccarsi da questo Messico che si rivela nauseabondo sotto i riflettori internazionali fa male, ma non è un atto di superbia, ma di amorevole denuncia. E pare scorretto che oggi si rincorrano questi corpi solo perché sono corpi di studenti futuri maestri – normalistas e poverissimi, intenti ad acciuffare una formazione scolare sempre più grottesca – e in fondo dovremmo altrettanto indignarci per i migranti centroamericani desaparecidos, per gli indios desaparecidos, per i giornalisti e militanti dei social network, sui weblog, su Twitter, desaparecidos, o uccisi in questi anni – ne ha parlato ad ottobre anche Roberto Saviano, raccontando la storia di Maria del Rosario Fuentes Rubio, esposta morta sul suo proprio account.
Ma tutto sommato, se questo capro espiatorio degli studenti-maestri – con il ricattatorio “essere studenti” che tocca ognuno, basta essere padre o madre, al di là della classe sociale – servirà a scuotere finalmente tutte, e dico tutte, le coscienze dell’addormentata e divisa società messicana, sarà in fondo un successo.
Molti dei magazine internazionali parlano di un Messico che sta esplodendo in una rivolta senza precedenti. Se non si ricorrerà alle solite contrapposizioni e risentimenti da populismo di pseudo-sinistra (non a caso, la sinistra populista ha fallito tanto quanto la destra liberista, ed il sindaco Abarca era del PRD, partito di “sinistra” messicano), forse si troverà la via d’uscita brutale, in una società fondamentale desaparecida a se stessa.
Perché il Messico sparisce e si rafforza nella sua vacuità ogni volta che sparisce un suo studente, un suo maestro, un suo attivista, un suo giornalista. Ed ogni volta che qualcuno gira il collo per far finta di non pensarci, alza un muro e una recinzione, o usa la retorica per dividere la società in se stessa: di fosse e fossati c’è ne sono molti, non solo in profondità.
Tutti adesso sono collusi, tutti vivono nell’inframondo senza saperlo, i messicani e noi che ci viviamo o abbiamo vissuto. Un inframondo privo di ricchezze arcaiche, tuttavia. Abbiamo però ora rivisto grazie alla valente archeologia messicana quell’inframondo passato che parla dal passato alla anonima fossa comune del presente. Coincidenze su coincidenze, realtà e infra-realtà, epifanie: da poco si è festeggiato per le strade il Dia de Muertos, dove tra Ognissanti e il giorno dei defunti tutti, non solo in Messico, i messicani da Parigi a Pechino, da Dublino a Canberra, celebrano i propri cari defunti con rutilanti altari votivi composti di fiori intrecciati, marzapane, frutta, foto dei cari e teschi di zucchero.
In quegli altari sparsi per il mondo, si dice che i morti ritornino in spirito a cibarsi dei loro pasti prediletti, a onorare i vivi tra sorsi di café de olla con cannella e piloncillo e spicchi di mandarino dolcissimi. Saranno tornati anche quest’anno, i cari estinti? Avranno avuto piacere nel visitare il luogo così tormentato dai non-vivi o, per richiamare il best-seller dell’italiano in Messico Federico Mastrogiovanni, dai Ni vivos ni muertos, mezzi-vivi e mezzi-morti, studenti, giornalisti, cittadini e noi stessi?
In mezzo ai miei rimorsi che oggi difficilmente posso mascherare, vorrei immaginare che quest’anno invece i morti abbiano protestato contro l’ignavia della società messicana, e non si siano affatto presentati all’appuntamento coi famigliari. Oppure che abbiano trovato chiuso il passaggio, per troppa compulsiva violenza.