Era il finale del film: Christine, la protagonista, ragazza sfuggente, presuntuosa, ovviamente bellissima, simbolo di una stagione, gli anni ’70, pericolosa ed esaltante, e dai un’età, l’adolescenza, fragile e perduta, spariva nell’acqua di un fiume, e dietro di sé, al ragazzo che la amava, lasciava solo un foglio bianco, uno dei tanti oggetti che disseminano il cinema di Assayas, che concentrano e al tempo stesso disperdono il senso di un cinema che insegue l’invisibile respiro della vita.
Anche le nuvole di Sils Maria sono a loro modo un oggetto, una realtà immateriale che si fa concreta. Per un attimo restituiscono ai personaggi l’immagine di loro stessi e al film il senso del proprio racconto. Viene in mente Eliot,
E io vi mostrerò qualcosa di diverso
Dall’ombra vostra che al mattino vi segue a lunghi passi, o dall’ombra
Vostra che a sera incontro a voi si leva;
In una manciata di polvere vi mostrerò la paura.
T.S. Eliot, Terra desolata
Tutti gli oggetti del cinema di Assayas sono manciate di polvere che mostrano la paura. Non la paura, ma l’oggetto che viene prima, una specie di mediatore.
Ce n’è uno in Le destinèes sentimentales, ad esempio, ed è un albero, che in una scena d’amore straziante, ricordato dal protagonista in punto di morte e riproposto come un frammento della sua memoria, con un jump cut che spezza l’unità stilistica del film classico, racchiude la storia di due amanti.
Ce n’è un altro in Fin août debut septembre, ed è un disegno, uno schizzo di Joseph Beuys, che racchiude l’amicizia fra due giovani intellettuali di Parigi. In una delle scene più intense del film, quando Gabriel, il protagonista, vede il quadro appartenuto all’amico nelle mani della sua ultima, giovane amante – e lo vedo nel modo tipico di Assayas, da lontano, colto quasi di sorpresa, a inseguire lo scorrere incessante della realtà ostacolata da altra realtà, quasi la macchina da presa fosse una cosa fra le altre cose – in quell’immagine, nello sguardo stupito sull’oggetto, sta racchiuso il senso di un’esistenza, di un ricordo, di una vita perduta ma rimasta.
L’oggetto parla, respira. Come, ancora, i vasi decorati della famiglia in smantellamento di L’heure de l’été (filmati in una teca al D’Orsay, sempre con quello sguardo in movimento, concentrato e ammirato, che è la cifra di Assayas), o come per l’appunto le nuvole di Sils Maria, o il foglio che sarà sempre bianco per riempirsi di parole e di immagini.
E che in fondo anche le nuvole siano polvere, cioè materia labile ma concreta, non lo dice solo Assayas, ma lo conferma uno scrittore come Julian Barnes, che con Assayas non c’entra niente ma nel suo ultimo, bellissimo libro, Livelli di vita, parla anche lui di aria, e in particolare di voli in cielo, di legami fra l’uomo e il cielo. E quando racconta il racconto di un viaggiatore dell’aria di fine XIX secolo, scrive così:
«Poi tuttavia, mentre ce ne stavamo seduti là con un vento talmente fiacco da farci sentire pressoché abbonacciati, abbassammo lo sguardo – o meglio, lo fece uno di noi tre e subito ci invitò a imitarlo. Immaginate la scena. Sotto di noi, una vasta coltre di soffici nubi ci impediva la vista della terra, o dell’estuario, e, all’improvviso, un fenomeno strabiliante. Il sole – Fred sollevò una mano a indicarne la posizione – gettava su quella superficie di nuvole l’ombra perfetta del nostro pallone. Distinguevamo l’involucro, le funi, la navicella e, cosa ancora più sorprendente, il contorno preciso delle nostre teste. Pareva di guardare una gigantesca fotografia di noi stessi, della nostra escursione».
Quell’ombra, se vogliamo, è anche il cinema. È l’impronta del reale che un tempo sarebbe rimasta sulla pellicola, e che oggi si è trasformata nell’immagine materiale e insieme vacua restituita dal digitale. Uno specchio. O meglio ancora un vetro, che divide e insieme si fa attraversare dalla luce, che mette a nudo come le scenografie della messinscena teatrale su cui si chiude Sils Maria.
Perché Sils Maria è anche un film sulla messinscena della vita, sul dramma del rappresentare sempre e comunque se stessi, sulla condanna del corpo e il desiderio di sparire, come unica salvezza dalla dittatura dell’immagine. Leggeri e inesistenti come le nuvole. E tutto questo sta racchiuso in un testo teatrale, quello che la Binoche e la Stewart provano nella casa di montagna, o in un film, Das Wolkenphaenomen von Maloja di Arnold Fanck (1924), girato proprio fra le montagne dell’Engadina (le stesse dove passeggiava Nietzsche), entrambi opposti agli altri film, alle altre immagini, alle altre storie (di gossip, di tradimenti, di celebrità e di camuffamento) che si vedono e ascoltano in Sils Maria.
Il cinema di Assayas è fatto di tante cose, di tutto ciò che potrebbe stare dentro un foglio bianco, di tutto ciò che sedimenta e si blocca quando si guarda, si legge, si ascolta, si ama, si ricorda, si dimentica (e qui viene in mente Irma Vep e il feticcio cinefilo di quel film, la tuta nera in lattice di Maggie Cheug, trasformata in corpo immutabile sui tetti di Parigi).
Tutto sta insieme, in Sils Maria e nel cinema di Assayas, spesso anche in maniera inattesa: la società dello spettacolo e l’alta montagna (e da quanto tempo l’alta montagna non era così importante in un film?), la diva e la camminatrice per i sentieri, il teatro e le nuvole, i blockbuster e gli interni rustici, Hyden e i Primal Scream, Fanck e Nietzsche.
E qui, soprattutto, a illuminare il senso del film, viene ancora in aiuto Julian Barnes, che nell’incipit stupendo di Livelli di vita scrive così:
«Metti insieme due cose che insieme non sono mai state. E il mondo cambia. Sul momento è possibile che la gente non se ne accorga, ma non ha importanza. Il mondo è cambiato lo stesso».