L’inverno del ’43, a Ferrara, in Italia: una città livida, nebbiosa, in cui tutti i personaggi dall’inizio alla fine sentono freddo anche in casa – perché il freddo è dentro di loro. È dentro le persone. Il freddo è quello di un’atmosfera di totale insicurezza e precarietà, di minaccia indefinita che costantemente è presente e insieme lontana, tenuta a distanza di sicurezza (“bombardano Bologna…”). Il gelo è quello del trauma che sta avvenendo, lacerando il tessuto già fragile di una comunità cittadina e nazionale: le sicurezze piccolo-borghesi, il posto, l’attività professionale.

In questo quadro estremamente deteriorato di relazioni e di civiltà, in cui gli esseri umani appaiono tutti concentrati a conservare i gusci delle loro esistenze precedenti, e pochissimo a immaginare il tempo che verrà; in questo momento di attesa indefinita, di sospensione nel tempo della Storia e della propria esistenza (Ferrara era stata, non a caso, la culla della Metafisica), la coppia protagonista – Franco Villani (Gabriele Ferzetti) e Anna Barilari (Belinda Lee) – appare sin dall’inizio impossibilmente tesa a perpetuare e far rivivere l’amore passato, le emozioni di una vita precedente. Questa operazione nostalgica di un film che parla di nostalgia e che è intessuto di nostalgia (realizzato da un coraggiosissimo esordiente come Florestano Vancini e co-sceneggiato da Pier Paolo Pasolini, sulla base di un racconto tratto dalle Cinque storie ferraresi di Giorgio Bassani), segna la rimozione del contesto tragico che si sviluppa attorno ai due, e che si concentrerà nel nucleo narrativo e visivo della fucilazione che è l’oggetto – l’evento della “lunga notte”, dopo la quale nulla sarà come prima.

Ferrara, Italia, 1943: tutti i personaggi che ci scorrono davanti agli occhi e che impariamo man mano a conoscere sono bloccati, come congelati in una singola versione di sé. Il paradigma di questo blocco è la paralisi fisica, dovuta a una malattia venerea contratta durante la marcia su Roma, del marito di Anna, Pino (Enrico Maria Salerno): è il carattere più complesso, sfuggente, ambiguo del racconto. La sua impotenza fisica si riflette in quella morale e politica: nonostante sia l’unico testimone oculare della strage, il suo ‘stare alla finestra’ coincide con quello di un intero Paese, che tranne nel caso delle rare eccezioni decide di non decidere e si fa travolgere dagli eventi, da altre volontà più brutali e immediate. Come quella del cattivissimo gerarca Carlo Aretusi (Gino Cervi), soprannominato “Sciagura”: si può dire anzi che la sua psicologia, proprio per l’assenza totale di introspezione, sia l’unica veramente dinamica all’interno della narrazione. In grado di adattarsi mostruosamente all’ambiente circostante, e di determinare gli eventi e il loro corso. Anche, in definitiva, la loro percezione futura, la dimensione della memoria e quella dell’oblìo collettivi: nel comizio della penultima scena, lo sentiamo affermare con voce stentorea che “il passato sarà cancellato, le colpe saranno redente!”.

Laddove si istituisce un parallelo significativo tra rimozione del passato e redenzione delle colpe che non solo costituisce l’argomento stesso di riflessione del film, ma che dovrebbe essere uno dei temi centrali di discussione pubblica anche oggi: il tipo di relazione che l’Italia costruisce e intrattiene con il proprio passato, lontano e recente, era ed è un terreno importante e scivolosissimo. Ritroveremo poi “Sciagura” nella preziosa scena finale, nel presente del film, completamente cambiato ma identico a se stesso, nella prepotenza e nella caparbia irresponsabilità. Franco, Pino e Aretusi sono in definitiva tre volti dell’Italia – l’acquiescenza, la fragilità morale e la violenza – che, dopo il Ventennio, si appresta a mutare pelle e a soccombere per trasformarsi nella nazione post-bellica, una nazione sconfitta che rifiuta di sentirsi tale e dunque di elaborare questa sconfitta.

È lui che costruisce lo “spettacolo” dei cadaveri davanti al muretto del Castello Estense, spettacolo a cui assistono i cittadini come davanti a un prisma vetrificato e malefico che sta orientando la loro stessa vita al di là della paralisi e dell’attesa, oltrepassate con un colpo di coda drammatico. Ad assistere c’è anche Anna, che con il suo paragonare i morti a un “mucchio di stracci vuoti” rispecchia Berta, la fidanzata di Enne 2 e co-protagonista di Uomini e no (1945) di Elio Vittorini, capostipite della letteratura resistenziale. Come Berta, anche per Anna questa scoperta dolorosa coincide con la consapevolezza e la scelta morale.

Questo pezzo è uscito sul n. 22 di “Artribune”. 

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