Quando leggo Salinger, indipendentemente dalla pagina che sto leggendo, da quelle che di volta in volta sono le peculiarità della scena narrata, dal fatto che si descrivano le vicende di Holden Caulfield, di Seymour, Buddy o Franny Glass, e al di là di trovarsi a New York, in Florida oppure a Hapworth Lake nel Maine, dopo poco mi scopro a visualizzare un’immagine, qualcosa che con scene personaggi luoghi non c’entra nulla, nel senso che non corrisponde alla loro letteralità, ma che allo stesso tempo ne è una conseguenza, proiezione e sedimento, un nucleo ricorrente che di colpo, leggendo, assume una forma fisica.
Una radura: arbusti che sbucano neri dal suolo, la terra umida; al centro, un mucchio di foglie secche che somiglia a un omino vegetale.
Credo che quanto sto descrivendo sia un fenomeno che appartiene alla fisiologia della lettura: oltre a visualizzare ciò che la narrazione poco a poco fa accadere, leggendo si genera un’ulteriore visione trasversale alle visualizzazioni specifiche, una specie di loro denominatore comune, una sostanza affettiva che scaturisce dal narrato e che può assumere morfologie diverse: nel mio caso, leggendo Salinger, di una radura.
Questa visione, fra l’altro, non è statica. Mentre la lettura procede, un uomo – non so chi, lo vedo di spalle – penetra nella radura e con un rastrello scuote il mucchio di foglie, le sparpaglia, le dispone ordinatamente a ricoprire lo spazio concentrandosi sui piccoli crateri da cui affiorano gli arbusti, così che neppure un centimetro quadrato di terreno resti nudo.
Appena ha terminato – e a quel punto è terminata anche la lettura – si ferma, si guarda intorno e poi, sempre dandomi le spalle, va via, e io me ne resto da solo a contemplare la radura, gli arbusti neri, lo strato di foglie che ricopre tutto, il loro moto inerte e sottile, il fruscio leggero che sembra un respiro, avvertendo un senso di sgomento e un’incontenibile leggerezza, qualcosa di attivo, di fertile e di febbrile.
Mi sono interrogato su questa visione. Ho riletto Il giovane Holden e i Nove racconti, ho ricomposto la storia della famiglia Glass attraverso Alzate l’architrave, carpentieri, Seymour. Introduzione e Franny e Zooey, ho recuperato e letto Hapworth 16, 1924. Mi sono un po’ chiarito le idee, ma a rendere davvero nitido il nesso tra la scrittura di Salinger e la visione della radura sono stati i tre racconti di I giovani.
In ognuno, i personaggi non fanno altro che conversare. Nel primo, quello eponimo, la conversazione ha luogo durante un party, più esattamente durante il tentativo tragicomico di innescare un flirt tramite uno small talk che fa risaltare l’ostinazione disperata di Edna, la sua euforia derelitta mentre cerca di mantenere vivo il contatto con Bobby; in Va’ da Eddie, il dialogo coinvolge fratello e sorella nella camera da letto di lei, Helen che galleggia tra bagno specchio spazzola e limetta, Bobby che prova a modificarne l’orbita sollecitandola invano ad andarsi a cercare un posto da ballerina – il tono secco di lui al quale corrisponde la voce infantile di lei, il bamboleggiare come strumento per permanere a tempo indeterminato nella stasi; e infine la conversazione innerva le due scene di Una volta alla settimana non ti ammazzerà, dove Dickie preparandosi a partire per il fronte – è il 1944 – discute prima con sua moglie Virginia – chiosatrice di gran vaglia che alterna postille a sbadigli – e poi con la zia Rena, memoria puntuale e svagata delle origini del nipote – le scarpe da ginnastica sporche, la collezione di francobolli, il cartello Si prega di non disturbare appeso alla porta della camera; ma soprattutto, anche lei, una notevole inclinazione esclamativa.
Perché per i personaggi di Salinger conversare significa più di ogni altra cosa accentuare, caricare, ribadire. La lingua, nella sua nuda referenzialità, è troppo fragile e inadeguata; inoltre l’interlocutore sta sempre per svanire e dunque per trattenerlo (ovvero per riuscire a percepirlo, ovvero per farsi da lui percepire) è necessario che le parole si trascendano marcando e alludendo, in una sistematica esondazione del senso (l’«esse est percipi» berkeleyano è per questi personaggi angoscia e movente).
«Erano passati tre anni e non aveva ancora smesso di parlargli in corsivo», precisa la voce narrante di Una volta alla settimana non ti ammazzerà quando per l’ennesima volta Virginia si rivolge a Dickie sottolineando un termine della battuta. L’enfasi – una coazione più che un desiderio governabile – come parte integrante del legame.
Viene in mente la Winnie di Giorni felici e il flusso ilare di parole – nonché di bamboleggiamenti gestuali che passano per la continua manipolazione di pettine rossetto limetta spazzolino – a cui Samuel Beckett la condanna. «Un altro giorno divino» esclama la donna sepolta fino alla vita nel cumulo di sabbia dal quale durante il secondo atto affiorerà solo la testa, felice e spensierata, ancora il tempo smisurato di una giornata da riempire di linguaggio. Vale a dire di una corrente linguistica che scaturisce dalla sua bocca articolandosi in fiotti spruzzi e zampilli e che se all’apparenza – procedendo per scrupoli e raccomandazioni, per appelli e proponimenti – aderisce a un senso logico, in realtà non fa che fingere e fingersi dando suono a qualcosa che è soltanto silenzio.
Ma non c’è niente da fare, Winnie deve parlare, e come lei devono parlare Virginia ed Edna e, in un modo meno linguistico e più mimico, anche Helen, ognuna procedendo metodicamente a casaccio, la lingua in folle, sempre garrule, querule, mobili, nervose, corsive, sempre attente a non smettere mai di dire e di dirsi perché – ancora Beckett, L’Innominabile – «bisogna dire delle parole, sin che ce ne sono, bisogna dirle, sino a quando esse mi trovino, sino a quando mi dicano, curiosa pena, curiosa colpa, bisogna continuare».
Smaltito il rumore di fondo, ciò che resiste è proprio questa necessità di far scaturire parole dalla bocca, di processare linguaggio, ininterrottamente e tenacemente, ignorando a forza (dove ignorare a forza è un modo di sapere) che – sempre L’Innominabile – le parole-formiche non recano nulla, non portano via nulla, sono «troppo deboli per creare un solco».
È utile a questo punto domandarsi perché i personaggi di I giovani usino il linguaggio a partire da qualcosa, istinto e strategia, che appare la declinazione concreta del principio: «Loquor, ergo sum, ergo percipior».
Prendiamo Edna Phillips nel racconto che dà il titolo alla raccolta.
Prima di tutto Salinger rende chiara la fenomenologia di un party a cavallo tra anni Trenta e Quaranta elencando protocolli, costumi, tic e una serie di minime inesorabili mistificazioni. Vale la pena confrontare il racconto con la prima scena di Conoscenza carnale, il film di Mike Nichols del 1971, quando Sandy, il personaggio interpretato da Art Garfunkel, durante un party di studenti del college tenta un approccio con Susan (Candice Bergen): oggetto della loro conversazione l’inevitabilità, in quello come in altri contesti, dell’impostura.
Nel procedere della narrazione Salinger fa di Edna una Penelope che, senza neppure l’ombra di Ulisse, se ne sta nell’Itaca della sua poltrona rossa a guardarsi intorno radiosa, una sigaretta accesa via l’altra a tessere volute di fumo nell’aria, cenere immaginaria a colmarle il grembo. Da lì a poco, il dialogo lutulento con William varrà – unico malinconico diversivo – come una piccola pausa dinamica che, se per qualche minuto la conduce fino alla terrazza, la farà poi ripiegare, penosamente fallita la liaison, di nuovo verso la poltrona.
Quando Lucille la informa che William, dopo aver più volte ripetuto che deve tornare a casa, è invece andato a sedersi sul pavimento in compagnia della biondina/biondastra, Edna da un lato rovescia di segno ciò che è appena accaduto («Un filino focoso» è la descrizione che fa all’amica del ragazzo, in realtà del tutto malmostoso) e dall’altro, prese le scale, si rifugia al piano superiore («Rimase di sopra quasi venti minuti» è l’informazione lapidaria con cui Salinger dà conto del tempo che serve al suo personaggio per contenere la mortificazione subita).
Si tratta di due passaggi esemplari, ma quello che davvero ci serve avere chiaro è che, per Edna, William smette subito di essere reale e si fa presenza fittizia e strumentale, un semplicissimo chiunque, un pubblico generico fatto di qualche borbottio e di un ascolto vischioso e distratto, davanti al quale la ragazza – dicendo di sé, autodefinendosi, raccontandosi a ogni costo – allestisce una sua personalissima simulazione. Perché a Edna Phillips solo questo importa: penetrare nel suo soliloquio-vaniloquio come se quanto sta accadendo fosse in realtà un dialogo. La conversazione non è altro che implorazione, un monologo brioso che fa da involucro allo sconforto, linguaggio “in posa”, e William è solo qualcun altro, lo sparring partner con cui continuare ad allenare il racconto di sé più acrobatico, l’umano fantasma al quale ci rivolgiamo reclutandolo come nostro prossimo, colui che ci è vicino e sa di noi («Mi conosci» dice Edna, confidenziale e invereconda, pochi minuti dopo avere incontrato il ragazzo).
In un saggio del 1998, La conversazione. Di come i discorsi possano cambiarci la vita, Theodore Zeldin ragiona sullo scambio discorsivo come strumento di metamorfosi concrete. Quando una comunità condivide un’abilità dialettica che sia feconda e adeguata alla sua specifica temperie socioculturale, allora quella comunità sarà in grado di mutare in meglio. La conversazione, in sostanza, è per Zeldin non soltanto una pratica sociale ma una vera e propria avventura della conoscenza, un’occasione sempre disponibile per ridefinire i rapporti umani; e ancora, se a dare struttura alla conversazione sono le retoriche, una loro profonda trasformazione sarà funzionale a una critica rivoluzionaria del potere («I potenti sanno da sempre di essere minacciati dalla conversazione»).
Se per molti versi il punto di vista di Zeldin appare esageratamente ottimista, torna però utile fare nostra una domanda che lo studioso inglese formula alla fine del suo lavoro: «Che aspetto avrebbe una carta geografica del tuo mondo conversazionale?»
Che aspetto avrebbe una carta geografica del mondo conversazionale dei personaggi che Salinger mette in scena in I giovani?
Probabilmente somiglierebbe a uno spazio interamente liquido costellato di increspature, non una tempesta ma un succedersi di microflutti, minuscoli vortici, risucchi, gorgoglii, piccole creste chiare che si separano e poi si ricongiungono e poi si separano ancora. Vale a dire l’oceano della chiacchiera, lo shakespeariano much ado about nothing, quella lingua nebulizzata utile non a far accadere qualcosa ma a non far mai accadere nulla (perché se nel linguaggio accadesse qualcosa di diverso dalla chiacchiera sarebbe la fine, meglio allora continuare a dire, procrastinare, dissipare, impedire; non accidentalmente, è chiaro, ma perché la chiacchiera – il luogo in cui la lingua è gloria e miseria – è manutenzione ordinaria dell’esistente, dispositivo di controllo di tutto ciò che c’è: much ado about everything).
La chiacchiera, dunque, come privilegio nonché spada di Damocle che incombe sulla gola di ogni personaggio.
Alla fine delle sue peregrinazioni newyorchesi, dopo avere ascoltato chiacchiere su chiacchiere, proprio Holden Caulfield immagina un trucco per eliminarle in modo definitivo: «Ho pensato che potevo fingermi sordomuto. Così mi risparmiavo tutte le chiacchiere stupide e inutili. Se qualcuno voleva dirmi qualcosa, doveva scriverlo su un foglio e piazzarmelo davanti. Dopo un po’ si sarebbero stancati, e io avrei chiuso con le chiacchiere per il resto dei miei giorni».
Com’è noto, a un certo punto Jerome David Salinger ha deciso di chiudere con le chiacchiere per il resto dei suoi giorni. Non si è finto sordomuto: perentoriamente, senza troppe spiegazioni, ha tolto di mezzo tutto ciò che era e rischiava di continuare a essere chiacchiera. Se qualcuno ci teneva davvero a dirgli qualcosa, doveva scriverlo su un foglio (e in effetti, come racconta Ian Hamilton nel suo In cerca di Salinger, per anni giornalisti e curiosi hanno potuto avvicinarlo soltanto per lettera).
Dalla prospettiva di Cornish nel New Hampshire, dove si trasferì nel 1953, poco a poco il rumore di fondo si è ridotto fino a scomparire.
Proviamo però a fare un’ipotesi. Immaginiamo che la rarefazione della propria presenza fino alla scomparsa – ciò che in una sintesi giornalistica viene chiamato “ritiro dalla scena” – non sia da datare esternamente, in relazione alla vita pubblica, ma si possa misurare in un contesto come la scrittura. Immaginiamo cioè che la pagina sia per Salinger, prima e dopo il 1953, un luogo in cui si negoziano i termini di una solitudine. Quella dei propri personaggi, la propria. Lo spazio in cui chi è in scena si ritira dalla scena.
Per arginare l’impulso alla solitudine – da intendere in un’accezione per nulla eroico-romantica ma come qualcosa di aspro ed elementare – i personaggi di Salinger si affidano alla conversazione. Ciò che scoprono è che l’unica conversazione che possono permettersi, la chiacchiera, invece di collegare, separa (non solo dagli altri ma anche e soprattutto da se stessi); tutt’altro che essere il ponte di corda tramite cui provare a suturare la deriva, è semmai sabbiolina, crepitio, una cosa che scricchiola tra i denti.
Edna parla con William, Helen con Bobby, Dickie con Virginia e con zia Rena, così come in Un giorno ideale per i pescibanana Muriel parla al telefono con sua madre e in Bella bocca e occhi miei verdi Lee, sempre via cavo, parla con Arthur, e ancora Seymour Glass – l’andatura espressiva equilibratamente groggy – in quella lettera-racconto-rêverie familiare che è Hapworth 16, 1924 parla con genitori e fratelli.
I personaggi di Salinger parlano e una parola dopo l’altra il linguaggio si rivela il mezzo di certificazione delle loro inesauribili solitudini (rese ancora più maestose da quell’istante di silenzio che segue alla proliferazione linguistica, l’ammutolimento improvviso che è approdo e abbrivio naturale di ogni verbigerazione).
L’uomo penetra nella radura della pagina, la ricopre di foglie secche e poi va via. Come quell’altro certificatore di solitudini che fu Richard Yates (Eleven Kinds of Loneliness è un manifesto), illude i suoi personaggi che, non potendo venire estinta, la solitudine possa almeno essere occultata.
Quando è certo che la materia scricchiolante di ipotesi desideri ambizioni tentativi volontà e velleità che ci circonda abbia riempito ogni spiraglio, l’uomo rientra nella radura e, sempre aiutandosi col rastrello, prende a raccogliere le foglie radunandole al centro. Nel ripulire i piccoli crateri da cui spiccano gli arbusti mette una cura particolare, è meticoloso fino alla spietatezza, se anche una sola foglia sfugge ai denti di ferro del rastrello ripete il movimento, intrappola la foglia tra i rebbi, la aggiunge al resto del mucchio.
L’equivoco del legame – nient’altro che un mito residuale – è risolto. Tutto quello che si era considerato indispensabile non era che brusio. Le solitudini sono state setacciate e rese essenziali: purificate.
Osservando la terra brillare umida, l’uomo immagina quella superficie inabissarsi verticalmente in se stessa per distanze sterminate attraversando concrezioni sbriciolature falde e croste, sostanze organiche in decomposizione, minerali gas idrocarburi, in direzione del nucleo più interno, il nocciolo irriducibile, ferro e nichel, dove non si sa più niente.
A quel punto J. D. Salinger si gira, lascia cadere il rastrello e così com’era entrato esce di scena.
Pubblichiamo la postfazione di Giorgio Vasta a I giovani. Tre racconti di J.D. Salinger (il Saggiatore, traduzione di Delfina Vezzoli).