Da domenica mattina, la notizia rimbalza in rete: sarà Eva Neklyaeva la nuova direttrice del Festival di Santarcangelo. Una giovane donna bielorussa, che raccoglie idealmente il testimone dalle figure femminili che l’hanno preceduta nella scorsa decade: Ermanna Montanari, Chiara Guidi e, naturalmente, la direttrice uscente Silvia Bottiroli.
Il curriculum della Neklyaeva – tutto orientato alla multidisciplinarietà, all’incrocio tra le arti, all’indagine dello spazio pubblico – sembra, almeno a un primo sguardo, segnare una forte linea di continuità con l’operato degli ultimi anni. L’eredità del quinquennio Bottiroli, con la sua decisa impronta curatoriale, è del resto emersa con particolare chiarezza in questa quarantaseiesima edizione, che è parsa quasi una coerente summa del lavoro svolto. Slancio verso l’internazionalità, dispositivi artistici atti a catalizzare la partecipazione del pubblico, centralità della ricerca sul corpo, ripensamento e rifunzionalizzazione degli spazi non teatrali: queste le istanze che hanno caratterizzato il programma e in particolare il secondo fine settimana di festival.
A confermare l’interlocuzione attiva con personalità di spicco della scena mondiale, è tornato in Romagna l’iraniano Amir Reza Koohestani, che aveva già fatto innamorare gli spettatori di Santarcangelo con il suo Timeloss. In Hearing si ritrova una costruzione drammaturgica altrettanto complessa ed efficace, e lo stesso scoperto disinteresse per l’‘effetto’ teatrale fine a se stesso. Sotto i riflettori, un episodio ambientato in un dormitorio femminile studentesco in Iran: qualcuno ha udito un ragazzo introdursi furtivamente nell’edificio, ha sentito risate soffocate, ha immaginato ciò che avveniva al di là del muro. Ma è accaduto davvero, o è frutto di fantasia? L’accusata è vittima di una diffamazione o è stata tradita? Abbiamo il potere di tenere sotto controllo la parola e i suoi effetti, una volta che l’abbiamo pronunciata? Il titolo scelto – il bellissimo Hearing – pare quasi un omaggio all’immagine virgiliana della Fama, orrendo mostro dalle mille orecchie, occhi, lingue. Del fatto in questione lo spettatore non saprà nulla di certo: dalla drammaturgia vengono offerte solo rifrazioni, in un infinito gioco di specchi. La capacità di estrapolare i fatti, di analizzare ed estorcere le testimonianze, di rendere labili i confini tra vittima e carnefice sono, naturalmente, prerogative del potere.
Koohestani ci consegna dunque uno spettacolo dalla vigorosa valenza politica, capace di oltrepassare però i confini della cronaca per diventare parabola umana. Il contesto è l’Iran, ma la storia non perderebbe la sua forza se fosse ambientata (con poche modifiche) in un college americano, e le figure femminili mostrano la caratura di personaggi da tragedia. Le due coetanee coinvolte nell’indagine – la fonte e l’imputata – vengono immortalate proprio nell’attimo che cambierà le loro vite, in quell’incubatore di accelerazioni impreviste e inconsapevoli che è l’adolescenza. I piani temporali della narrazione, sapientemente confusi e intrecciati come in Timeloss, si schiacciano fino ad annullarsi, e il racconto diventa eterno come il mito.
Se Koohestani rappresenta una gradita conferma, la sorpresa di questa edizione di Santarcangelo
è senza dubbio L’uomo che cammina di Compagnia Dom. Sulla carta, una camminata teatrale site specific non è nulla di nuovo: da Remote Milano dei Rimini Protokoll, a The Walk di Cuocolo-Bosetti fino ad Agoraphobia di Lotte van den Berg (Santarcangelo 2013), non sono mancati esperimenti analoghi. Ma ci si accorge presto, in questo caso, di essere di fronte a un prodotto diverso. In gioco non ci sono solo la trasformazione dei luoghi del quotidiano in un palcoscenico aperto e illimitato, o i confini sfuggenti tra le categorie di ‘spettacolare’ e di ‘vero’; Delogu ha piuttosto sviluppato una drammaturgia complessa e polifonica, capace di assorbire al suo interno senza gerarchia la luce del giorno, gli spazi, la musica, i corpi degli attori, i rumori della città, la parola detta e quella scritta.
Maurizio Lupinelli – un po’ rassicurante Virgilio e un po’ ambiguo Pifferaio di Hamelin – guida gli spettatori per quattro ore attraverso una inedita mappa del riminese: il paesaggio che si dispiega oltre le sue spalle, come in una soggettiva cinematografica, si trasforma piano piano in una storia da decodificare. I personaggi senza nome che costellano il cammino, irreali e sgranati come in un sogno, deflagrano sullo sfondo di fiumi e spiagge, case e piazze; la potenza visiva di alcune immagini si imprime negli occhi del pubblico itinerante come su una pellicola. Allo spettatore il compito di ricomporre i tasselli e creare un proprio montaggio ex post, lasciandosi guidare dalla imprevedibile regia della memoria.
La ricerca di un rapporto personale con il territorio è del resto al centro di molti lavori del festival, che paiono declinarsi come una vera e propria domanda aperta ai cittadini. Oltre al Fondo Speculativo di Provvidenza di Luigi Coppola e Christophe Meierhans – che per il secondo anno chiedono a chiunque abbia pagato un biglietto di fare proposte e di votare sull’impiego di un cospicuo fondo finanziario – anche il gruppo Muta Imago ha proseguito un percorso di interrogazione della cittadinanza.
Riccardo Fazi, uno dei fondatori della compagnia, ha presentato in questa edizione la terza tappa di un lavoro interamente pensato con e per la città: alla ricerca di una ragazza santarcangiolese conosciuta vent’anni prima, l’autore ha coinvolto i cittadini nella propria indagine, dispiegando giornali locali, attraversando le storie dei coetanei, sollecitando la memoria collettiva.
Dopo l’installazione presentata in occasione della scorsa edizione, oggi Riccardo Fazi restituisce a Santarcangelo gli esiti della ricerca sotto forma di radiodramma, restando delicatamente in equilibrio tra fiction, autobiografia e arte politica. Le cinque puntate sono state trasmesse in giorni diversi presso il Ristorante Zaghini, chiamando gli spettatori a tornare come per un romanzo a puntate; una versione di 40 minuti è stata invece presentata in teatro, con luci accese nella platea, in una condivisione dell’immaginario – geografico, generazionale, privato – degli spettatori.
Le storie, le opinioni, gli interventi del pubblico – raccolti da molte delle proposte del festival – restano come un’eredità per il futuro del festival. Starà alla prossima direzione valorizzarle e metterle in campo.