“Wer der Dichter vill verstehen
Mus in dichters lande gehenn”
(Chi vuol capire il poeta
deve recarsi nel suo paese)
W. GOETHE
Autore di quaranta film e di quasi altrettante regie teatrali ANDRZEJ WAJDA (Suwałki, 6 marzo 1926–Varsavia, 10 Ottobre 2016) è un artista difficilmente comprensibile senza conoscere la Polonia e la sua drammatica storia. Questo è il motivo per cui i suoi capolavori (come I dannati di Varsavia, 1957; Ceneri e diamanti, 1958; Tutto in vendita, 1968; Il bosco di betulle, 1970; Le nozze, 1970; Paesaggio dopo la battaglia, 1970; La terra della grande promessa, 1974; Le signorine di Wilko, 1974; L’uomo di marmo, 1976; Senza anestesia, 1978; Korczak, 1990; Katyn, 2007) sono stati apprezzati nel mondo soltanto per i loro valori formali e per la denuncia politica, ma non hanno mai avuto il successo di pubblico che avrebbero meritato.
I film di Wajda attendono ancora di essere considerati nella loro complessa trama culturale, anzitutto letteraria. La metà dei suoi film infatti sono tratti da romanzi o racconti della letteratura polacca o russa e sono un’efficace fusione della storia con i romantici drammi nazionali e personali, la pittura e le immagini dell’arte polacca.
Wajda ha forse incarnato e interpretato, come nessun altro intellettuale polacco, l’autocoscienza del suo paese. Le sue opere sono sempre sorte da una personale riflessione e denuncia di un particolare momento della storia della Polonia e hanno puntualmente suscitato accese discussioni e polemiche. È stato certamente uno dei più grandi registi del dopoguerra. Un regista molto letterario.
Ricordo una delle nostre chiacchierate quando, alla fine di maggio del 1988, l’Università di Bologna, tra sbuffi di ermellino, mantelle color menta e cilindri appartenenti a teste assai più larghe, conferì al cinquantanovenne Wajda la laurea honoris causa in Lettere. Nel discorso di ringraziamento il regista polacco accusò l’Occidente di dimenticare che l’Europa non si ferma al muro di Berlino “dove si ergono barriere di filo spinato e Cerberi al guinzaglio abbaiano spaventosamente a ogni alba, quando si spengono I riflettori che sorvegliano la cosiddetta frontiera della pace”. Togliendosi gli occhiali e dando alla sua voce un tono di fierezza, ribadì che “l’Europa, nella nostra coscienza polacca, esiste come unità spirituale che, attraverso i secoli, è stata creata e cementata dai suoi grandi scienziati, scrittori e artisti”. Disse che Dostoevskij aveva pronosticato l’arrivo di un tempo in cui l’inizio sarebbe stato la totale derisione di tutto e concluse citando una frase di Antonio Labriola: “La libertà di parola non consiste nella libertà di tacere”.
Oltre al discorso di ringraziamento, Wajda si era preparato anche una lezione sul suo autore preferito: Fëdor M. Dostoevskij. Ma non gliela fecero tenere, sostenendo che quello che aveva detto era più che sufficiente. Così lo scrittore russo divenne il protagonista di un suo monologo mentre passeggiavamo sotto i portici di Bologna, tra scrosci d’acqua da una parte e file di manifesti annuncianti la visita del Papa, ritoccati nei modi più volgari, dall’altra. Ogni tanto ci fermavamo per dar modo a Wajda di cavar di tasca il suo inseparabile quadernetto e disegnare le cose più svariate: statue, variopinte biciclette, volti, file di prosciutti appesi. E io ne approfittavo per trascrivere il più velocemente possibile, sul mio bloc-notes a quadretti, quello che lui aveva detto.
Come tutti i polacchi, Wajda aveva un rapporto controverso con Dostoevskij: “Anzitutto perché è russo. Ho molti amici laggiù, ma non posso dimenticare, ad esempio, che mio padre, ufficiale di carriera, fu assassinato nella primavera del 1940, a Katyn, assieme ad altri quattromila prigionieri polacchi, dalle forze di sicurezza sovietiche. Poi, perché parla sempre male e con disprezzo dei polacchi (e i polacchi sono suscettibili!)”.
Nello scontro tra i polacchi e i russi, come nel caso dell’ultima tragica insurrezione del 1863, Dostoevskij vedeva infatti “la guerra tra due cristianesimi, l’inizio della futura guerra tra l’ortodossia e il cattolicesimo o, in altre parole, tra il genio slavo e la civiltà europea”. Ci è lontano, diceva Wajda, perché non è legato all’Europa come noi polacchi. Non a caso Milan Kundera, quando, a Praga, gli proposero di scrivere sotto pseudonimo un adattamento dell’Idiota, disse che avrebbe preferito morire di fame piuttosto che mettere mano a quest’opera di gesti eccessivi, di profondità putride, di una sentimentalità aggressiva, dove i sentimenti acquistano un valore assoluto. E per protesta si rimise a leggere Jacques le fataliste di Diderot. Però Wajda riteneva che la grandezza di Dostoevskij consisteva proprio nel non lasciare indifferenti: o lo si ama o lo si deve odiare. E, tutto sommato, lui lo amava molto. Glielo fece conoscere, negli anni cinquanta, un “giovane scrittore arrabbiato” polacco: Marek Hłasko – autore, tra l’altro, della bella raccolta di racconti L’ottavo giorno della settimana (Einaudi 1959), che morì suicida in Germania nel 1969.
“Marek sapeva quasi tutti I demoni a memoria. Mi propose di farne una riduzione, magari per il teatro. Ma non riuscivo a raccapezzarmi tra tutti quei personaggi. Per fortuna mi capitò tra le mani una lettera di Dostoevskij a una certa signora Obelonskaja che voleva fare un adattamento de I fratelli Karmazov, dove egli le consigliava di scegliere qualche frammento, qualche idea, qualche personaggio, e su questi costruire una nuova opera. Questa è l’unica strada che può aver successo. Non ce n’è un’altra. E l’adattamento di Camus mi sembrò esser fatto secondo questo spirito. C’è inoltre un altro aspetto che autorizza il suo trasferimento sulle scene: Doestoevskij è il teatro. Per lui, infatti, l’essenza dell’uomo è la menzogna. E il mestiere dell’attore è una continua menzogna. Inoltre Dostoevskij è dialogo, discussione. Il teatro è ormai l’ultimo luogo dove la gente ascolta i dialoghi e attraverso il dialogo con gli attori crea un magico senso di comunità”.
Di Dostoevskij, Wajda mise in scena, a varie riprese, per il Teatr Stary di Cracovia: I demoni, Delitto e castigo (“di tutte le regie che avevo visto mi era sembrato che i registi si fossero sempre concentrati sul delitto e non avessero lasciato alcun spazio al castigo. Il castigo, invece, inizia nello stesso momento del delitto”), e L’idiota.
Quest’ultimo spettacolo, secondo me il suo capolavoro, si intitolava in realtà Nastazja Filipowna (1977) e si concentrava soltanto su dall’ultimo capitolo dell’ Idiota. Andrzej Wajda (che poi lo traspose anche per il cinema con l’attore giapponese Tamasaburo Bando: Nastazja, 1994) allestì una semplice scena dove i due protagonisti, il principe Myškin e Parfen Rogožin si incontrano sul cadavere di Nastas’ja/Nastazja. Due attori soltanto (i bravissimi Nowicki e Radziwiłowicz), una candela, un’icona, una vecchia scrivania, due sedie. Il miracolo del teatro e della parola di Dostoevskij erano tutti lì. Gli attori recitavano, improvvisando varie parti del romanzo, assemblando le frasi come sotto l’effetto di una scossa elettrica, rischiarati soltanto dalla candela davanti a un’icona: un piccolo segno luminoso che stava a ricordare l’esistenza di una, seppur flebile, speranza, un’alternativa al male e, allo stesso tempo, mostrava la sua buia potenza.
Infervorato a parlare di Dostoevskij e dei suoi spettacoli teatrali (del film I demoni, uscito allora a Parigi, e accolto assai freddamente, non volle dire niente), Wajda disse una cosa che sembrava contraddire quanto aveva sostenuto in precedenza e dimostrava la complessità del suo rapporto con lo scrittore russo: “Nel suo libro su Dostoevskij, Mackiewicz si chiede perché egli sia uno scrittore più europeo degli altri, pur essendo il più russo. Sono d’accordo con la sua risposta, credo che questa sia la chiave: perché i suoi romanzi, molti dei quali cominciano con un motto evangelico, in quei casi rappresentano il tentativo di costruire storie di quell’idea tratta dai Vangeli. Questo legame di Dostoevskij con i Vangeli ce lo rende attuale”…
Un tema che stava molto a cuore a Wajda era quello della Decadenza. Come molti altri intellettuali polacchi viveva la tragica cadenza della storia del proprio paese come il segno di un lento scivolare dell’Occidente verso l’Abisso. Un abisso però senza clamori, del quale a mala pena ci accorgeremo. Come nella poesia del Premio Nobel Czesław Miłosz Canzone sulla fine del mondo: “Il giorno della fine del mondo/ L’ape gira sul fiore del nasturzio,/Il pescatore ripara la rete luccicante./nel mare saltano allegri delfini/(…) E chi si aspettava folgori e lampi./ Rimane deluso./E chi si aspettava segni e trombe di arcangeli,/Non crede che già stia avvenendo…/”.
Pur essendo attentissimo e partecipe delle vicende politiche della Polonia (dopo 1989 fu addirittura senatore per il raggruppamento legato a Solidarność), Wajda a volte si esprimeva davvero come il figlio di un’altra epoca. A proposito della traduzione polacca del mio libro sull’Immaturità, mi scrisse sorprendentemente: “I giovani non maturano più perché manca loro una rigida educazione militare!”. Per spiegare i problemi del suo litigioso paese, diceva spesso con rammarico: “Purtroppo sta definitivamente scomparendo la generazione di prima della guerra, che aveva fatto buone scuole, conosceva il latino, credeva nei valori, aveva il culto della verità…”.
Aveva il mito di Józef Konrad Korzeniowski. Quest’ultimo sarebbe poi Joseph Conrad che, pur non avendo scritto neppure una riga in polacco, viene considerato sulle rive delle Vistola come un campione della loro causa, un nemico della Russia e delle idee rivoluzionarie che negano la libertà individuale e sono legate a una “logica orientale” (si veda in proposito il libro di Conrad molto amato da Wajda: Sotto gli occhi dell’Occidente, del 1911).
Wajda, come tutti quelli della sua generazione, si era formato nel culto dei valori conradiani: “Nel 1966 un famoso produttore americano mi propose di girare un film tratto da Cuore di tenebra. Non se ne fece niente. Coppola ha poi girato Apocalypse now e credo che abbia trovato la formula giusta per fare un film da Conrad: soltanto allontanandosi dal modello dello scrittore si può creare una situazione nella quale si può dire ciò che Conrad aveva espresso. Io forse avevo letto troppo quel libro. Non so se sarei stato in grado di farne un buon adattamento. Però Coppola l’ha letto troppo poco, ha dimenticato di leggersi la fine. E invece Conrad aveva scritto quel romanzo proprio per la fine. È lì la cosa più importante: Marlowe (nel film mi sembra si chiami Willard) torna a Londra, va dalla fidanzata e le dice che Kurtz è un uomo a posto. Così si comporta un vero gentleman, un polacco!
Nessun altro si comporterebbe così. Se Coppola avesse fatto tornare Willard e dire al figlio di Marlon Brando che suo padre era uno perbene, avrebbe sconvolto tutta l’America! Da Conrad ho invece girato, nel 1976, La linea d’ombra, che è un libro sul passaggio all’età adulta. La linea d’ombra è quell’incerto tratto che separa l’adolescenza luminosa dell’età matura che invece è in ombra. Nel film ho cercato di descrivere quel momento, terribile e meraviglioso allo stesso tempo, un momento di grande paura in cui bisogna prendere delle decisioni da cui dipende la vita degli altri. I soggetti dei romanzi di Conrad sono molto lontani da noi, ma c’è in lui un particolare moralismo, una prospettiva esistenziale che è molto vicina a una certa tradizione spirituale polacca”.
Di un testo letterario, Wajda riusciva a scoprire la “cassa di risonanza”, il filo che esalta la vicenda e mette in luce tutto il suo valore simbolico ed emblematico. In due film in particolare Wajda è stato capace di rendere con le immagini quell’atmosfera che nei racconti, da cui sono tratti, era appena suggerita o non espressa appieno. Si tratta de Il bosco di betulle (1970) e Le signorine di Wilko (1979), tratti di due racconti del grande poeta e scrittore Jarosław Iwaszkiewicz (1894-1980) (in italiano: Le signorine di Wilko, Ponte Sisto, Roma 2010).
Così li spiegò Wajda, durante un’intervista autunnale che gli feci nel giardino della sua bella villetta nel vecchio quartiere di Żoliborz, a nord di Varsavia: “Sono due film sulla morte. Sull’impossibilità di tornare nello stesso posto, alla stessa situazione, allo stesso clima. L’unico scampo che c’è alla morte è l’amore, l’unica grande forza che possa contrapporsi all’istinto di morte. Su questa contrapposizione , che un po’ forza il discorso di Iwaszkiewicz, ho giocato tutto Il bosco di betulle. Andai a prendere in prestito al Museo Nazionale di Varsavia il quadro del pittore ‘decadente’ Jacek Malczewski, intitolato Thanatos.
Volevo che quella donna con la falce della morte stese appesa alla parete della casa della guardia forestale dove abitano i protagonisti. Mentre questo è un film primaverile, Le signorine di Wilko è un film sull’autunno della vita. Ebbi la fortuna di girarlo in uno degli autunni polacchi più belli degli ultimi decenni. Il Tempo ha nel film una grande importanza. In fondo Iwaszkiewicz ha molti punti in comune con Proust”.
Troppo preoccupato delle immagini, Wajda sosteneva di non potersi occupare delle sceneggiature. Raramente le scrisse lui. Quando in un romanzo o in un racconto trovava un’idea che lo colpiva, cercava lo stesso autore, o uno sceneggiatore di professione, e chiedeva loro di scrivergli i dialoghi. Spesso da romanzi mediocri riusciva a fare film bellissimi, come nel caso de La terra della grande promessa (tratto da La terra promessa, 1898, del Premio Nobel Władysław Reymont) o Cenere e diamanti (1948, dall’omonimo romanzo di Jerzy Andrzejewski).