“Sono supposte di oppio, ideali per il tuo scopo. Ad azione lenta, ti fanno scalare gradualmente… Fatte apposta per i tuoi bisogni”. Una stanza lurida e spoglia, un materasso, un candelabro e lo spacciatore di ripiego, Mickey Forrester, che consegna a Mark Renton/Ewan McGregor un palliativo per sopravvivere alla notte e alla voglia di un ultimo schizzo.
Col personaggio di Forrester fa capolino il cameo dell’autore del romanzo da cui Danny Boyle ha liberamente tratto la sua pietra miliare; Irvine Welsh è perfettamente calato nei panni dello spacciatore strafatto e senza scrupoli e indossa una maglietta degli scozzesi ultra punk Exploited – scelta forse troppo ai margini pure per Trainspotting, ma che ben si inserisce nel congegno a incastro perfetto di una pellicola che in 90 minuti ha fotografato con disincanto le gioie e i dolori di un manipolo di tossicodipendenti di Edimburgo, appartenenti a quella che a tutti gli effetti potremmo definire una sottocultura, imprimendola nella popular culture, ben oltre i confini di una generazione e di un unico paese.
Non sono passati neanche dieci minuti dall’inizio del film e già abbiamo ascoltato quel monologo anti-capitalista, il celebre “Choose life”, così impresso nella memoria collettiva da essere stato decontestualizzato e preso in prestito addirittura dai Conservatori per un discorso di George Osborne (!) nel 2014; abbiamo visto da vicino, con la telecamera ad altezza pavimento, l’accogliente salotto della Madre Superiora tutto aghi e cucchiai, il suo interno degradato e iper realista riempito di colori simbolici e svuotato di qualsivoglia giudizio moralista ogni volta che Mark, Sick Boy o Spud si iniettano eroina sprofondando in uno stato di estasi; in poche, efficaci battute, abbiamo capito i tratti distintivi dei protagonisti e lo squallore che attraversa tutta la classe media – pure quella che ha scelto “la vita, un lavoro, una carriera”, ritrovandosi a guardare la tv in una stanza grigia e a prendere valium in quanto drogati “socialmente accettabili”.
Mentre Iggy Pop, il junkie del rock’n’roll, continua a scandire il tempo in sottofondo con Lust For Life, è già chiaro come Trainspotting non sia solo un film sulla dipendenza dalle droghe pesanti di una parte della workingclass, in particolare nel sobborgo di Leith a Edimburgo e in particolare nei primi Novanta (anche se il libro, invero, è ambientato nella metà degli Ottanta). Ma un’istantanea del proprio tempo, di quelle senza filtro, data in pasto al grande pubblico grazie a un uso acuto e innovativo dei linguaggi pop. Come nella migliore tradizione britannica.
Gli ambienti malsani in cui si muovono i personaggi, l’onestà del loro disincanto e del loro egoismo, i più o meno vani tentativi di rinunciare alla roba, ma pure l’ironia prossima al sarcasmo della voce narrante di Rent o la caricatura dell’uomo grottesco, sociopatico e violento impersonato da Begbie, incrociati alla vitalità di alcune (parecchie) scene, rappresentano uno dei volti dell’estetica rivoluzionaria di Danny Bolye: i protagonisti fanno parte di una sottocultura, sono ai lati della società, ma il loro punto di vista non è quello delle vittime passive – almeno non sempre, almeno non tutti – della dipendenza. E ciò che eleva ulteriormente l’elemento reale è la sua compresenza a quello surreale.
Abbiamo lasciato Mark uscire dal loculo di Forrester con due supposte ficcate nel sedere mentre sotto scorre “musica distensiva” (la Carmen di Bizet) ed eccolo alla ricerca disperata di un gabinetto, raggiungere la scena più iconica e visionaria di Trainspotting e, probabilmente, di tutto il cinema albionico degli anni Novanta. Dentro “il peggior bagno della Scozia”, quella che è una realtà disgustosa e aberrante si trasforma – attraverso il punto di vista del tossicodipendente – in un’immersione nella sfera onirica e immaginaria di Rent; il Brian Eno di Deep Blue Day accompagna il passaggio dalla disperazione alla meravigliosa allucinazione, che scompiglia ogni piano, genera empatia da parte dell’osservatore, conducendo dritto alla vittoria: l’immaginazione, o forse l’istinto di sopravvivenza, trasformano una ignobile latrina in fondale marino e due supposte di oppio in gemme sbrilluccicanti.
Al decimo minuto, Mark Renton è già il nostro (anti) eroe. E ancora: l’espediente surreale è quello che segna la dimensione altra in cui si trova Rent durante l’overdose, mentre l’empatia generale è mossa dal cantore dell’eroina, Lou Reed con A Perfect Day. Nella sua sintesi perfetta dove non c’è posto per il vittimismo, Trainspotting fa centro anche quando i fantasmi di Mark tornano durante le pene dell’astinenza: le allucinazioni più violente si confondono con una realtà grottesca e l’imperitura assenza di giudizio moralizzante della regia rende quelle ossessioni molto più universali, e molto meno distanti dalla quotidianità di ognuno, rispetto a quanto si potrebbe credere.
L’iper realismo onirico di Danny Boyle irrompe nella cultura pop perché gli alti e bassi della dipendenza – e dell’emarginazione in generale – sono trasmessi attraverso un linguaggio contemporaneo: nei dialoghi dei personaggi, asciutti, accattivanti; ma soprattutto nell’interazione con il contesto e con la musica. Se nel romanzo di Welsh la crudezza delle immagini o delle storie che compongono i numerosi episodi e la spiccata identità scozzese dei protagonisti (incluso il dialetto stretto) sono già cifra stilistica assai specifica della narrazione, nell’uso dei colori, delle location e delle vibrazioni che si sentono attraverso tutto il film, Boyle è in grado di catturare un sentimento che attraversava il Regno Unito in quegli anni: la rave culture che ormai era già esplosa – l’uso e l’abuso di droghe, ma pure il bisogno di stare insieme, di condivisione e il ruolo fondamentale della musica – da una parte; l’orizzonte di progressivo allontanamento dall’asfittico pseudo-moralismo del periodo (post) Tatcher e il potenziale ruolo che, nell’ambito di questo cambiamento in atto, potesse avere la cultura pop. Soprattutto se scossa dal basso.
Non bastasse la capacità di Boyle di interpretare e sintetizzare in maniera credibile la realtà, potente e alienata, raccontata (in maniera assai più frammentaria) da Welsh, non bastasse la naturalezza con cui storie di disagio ed emarginazione irrompono nel mainstream grazie a un uso intuitivo, moderno e visionario di linguaggi/elementi pop (dai colori all’abbigliamento, fino ai passatempi più o meno onnipresenti – calcio, club culture e, ovviamente, droga e alcol), non fosse sufficientemente innovativa la capacità di raccontare e inserirsi in un contesto – quello delle trasformazioni che investivano il Regno Unito nella prima metà dei Novanta – con un budget bassissimo e un cast che, in futuro, avrebbe fatto faville (Ewan McGregor, ma pure Begbie/Robert Carlyle e Dianne/Kelly Macdonald), Trainspotting segna per sempre il cinema di quegli anni grazie a un uso brillante e audace della musica.
Per anni, la locandina bianco, nero e arancione del film è stata onnipresente nelle camere di chi ha vissuto da adolescente i Novanta almeno quanto il cd (a volte doppio) della colonna sonora. È in primo luogo Irvine Welsh a fare della musica il perno e megafono fondamentale dei protagonisti dei suoi episodi e del loro malessere. David Bowie – che poi negò l’uso di Golden Years a Boyle e al produttore Andrew Macdonald per la scena del gabinetto – ma soprattutto Iggy Pop, onnipresente, nel romanzo come nella pellicola, nei passaggi fondamentali.
“La Scozia si droga per difesa psichica” è la frase-manifesto, “pura e semplice”, che Welsh fa dire all’Iguana in uno dei momenti topici del libro – quando Tommy (quello della gang che nel film finirà peggio) si ritrova strafatto sotto palco durante un suo concerto, mentre Lui canta Neon Forest e guarda negli occhi il protagonista dell’episodio, che ha preferito quell’esperienza a una serata romantica con la sua ragazza. Se “il mondo sta cambiando, la musica sta cambiando, le droghe stanno cambiando”, Bowie e Iggy Pop sono gli ambasciatori immarcescibili e anticonformisti che segnano uno dei fondamentali passaggi di testimone tra pagina e schermo, quello della musica come medium privilegiato tra regista, attori e spettatori. A Boyle, però, va il merito di aver intuito che l’incrocio dei pilastri di certo rock’n’roll con la musica contemporanea di quel momento storico, il “pop britannico” e l’elettronica più abrasiva della club culture, sarebbe stato strategico nell’amplificare la portata generazionale di Trainspotting.
In un’intervista dell’epoca, Iggy Pop racconta come la prima visione del film lasciò di stucco anche lui: Lust for Life non solo accompagnava la memorabile scena d’apertura ma “non si fermava più, continuava a echeggiare nella sala per parecchi minuti”. Esattamente cinque, fino alla fine. La pellicola di Boyle è il fenomeno di massa che regala una seconda vita all’Iguana, che lo reintroduce nella cultura pop (post) adolescenziale degli anni Novanta, proprio come Bowie aveva fatto in quel 1977 producendogli The Idiot e, be’, Lust For Life. Parallelo inevitabile almeno quanto Mr. Osterberg e il ritmo pieno di Joie de vivre di quel brano – allora diffuso soprattutto nei club indie e gay di Soho – appaiono perfettamente calzanti per rappresentare una cricca di disadattati (e la relativa Generazione X), con i loro saliscendi tra l’inferno delle dipendenze e l’euforia fatta anche di sesso e rock’n’roll.
Se nei Novanta le colonne sonore sono un culto per eccellenza nella creazione di trend e riferimenti, quella di Trainspotting ha addirittura la forma di un manuale, di guida dell’era pre-internettiana capace di tracciare una linea tra i maestri più cool del passato e la musica più cool del presente, puntando su un’innovativa trasversalità che nello stesso film accostava musica ambient e rave culture. Da Deep Blue Day di Brian Eno all’irruenza epica degli Underworld con Born Slippy .NUXX, attraverso l’overdose estatica di A Perfect Day e i portabandiera degli anni Ottanta meno consumistici, quelli di New Order e Blondie.
E poi c’era il Britpop. Di tutte le cose “pro” e “contro” che si sono dette sul Britpop, il fatto che si tratti dell’ultimo grande fenomeno della musica pop britannica è un’osservazione difficile da confutare. Le radici nella tradizione del Regno Unito, tanto per i suoni quanto per l’attenzione alla moda, ma soprattutto il modo in cui – come fenomeno culturale e sociale – il Britpop ha generato un’identificazione di massa, sfociata tanto in trend quanto in “battaglie” che hanno generato senso di appartenenza. Certamente un prodotto dell’industria discografica, ma un attimo prima che questa si appropriasse non solo dell’estetica ma pure dei contenuti del pop.
Nel 1995, Boyle non poteva sapere che mettere Blur, Pulp, Elastica, Sleeper o i Primal Scream della redenzione (quelli dub di Vanishing Point) in un film già pieno di energia capace di scuotere il pubblico, avrebbe significato immortalare e codificare per sempre un momento topico e irripetibile nella storia del Regno Unito, la metà dei Novanta – creando pure un ponte fra quei suoni “autoctoni” e gli adolescenti americani. L’aspetto che, però, Boyle aveva certamente colto – e l’azzardo di un brano come quello degli Underworld nella scena conclusiva ne è la conferma – era il ruolo chiave della musica nel farsi mezzo privilegiato per raccontare quel momento storico, inglobandone gli aspetti più irruenti e accattivanti. Un linguaggio capace di esaltare all’ennesima potenza tutti gli elementi innovativi del film – l’immediatezza, l’attualità, l’onestà, la vitalità dei suoi personaggi.
Film e colonna sonora sono diventati, nel tempo, due aspetti strettamente legati nella cementificazione di Trainspotting nella cultura pop internazionale, sebbene – caso più unico che raro nell’epoca contemporanea – le musiche scelte da Boyle e MacDonald (con il contributo dell’uomo EMI di allora, Tristram Penna) hanno vissuto, in parte, anche di vita propria. Attestandosi come una delle migliori colonne sonore di sempre in numerose classifiche e portando alla stampa di un secondo volume, nel 1997, che includesse le tracce tenute fuori dalla raccolta originale – David Bowie, Goldie, Joy Division, ICE MC. Mentre scriviamo, arriva la notizia di una ristampa in vinile della OST del 1996: un’operazione per cui storcere il naso quanto, magari, quella del sequel o un doveroso omaggio per i primi vent’anni di un tassello fondamentale del cinema britannico? Chi, quel cd, lo conserva ancora tra gli scaffali, magari un po’ consumato, avrà pochi dubbi su quale sia la risposta più giusta.