Contro il Capitale, lei auspica un “pensare con la sinistra contro la sinistra.” Eppure molti intellettuali di sinistra continuano a essere impermeabili, per non dire contrari ai suoi scritti. Si tratta della rottura definitiva di un dialogo possibile?

Se fosse davvero il caso, certamente non è colpa mia! Ovviamente non mi rifiuterei mai di discutere con qualcuno con il solo pretesto che sarebbe “in disaccordo con i miei scritti.” Però dovrebbe trattarsi di un vero dibattito e non di una retata di polizia. Il problema – André Perrin l’ha brillantemente dimostrato nelle sue Scènes de la vie intellectuelle en France – è che l’antica cultura del dibattito è ora in procinto di cedere il posto definitivamente a quella dell’intimidazione e della caccia alle streghe. Oramai uno scrittore si giudica non per quello che ha effettivamente scritto (perfino quando il romanziere in questione è Michel Houellebecq) ma sulla base di oscure intenzioni a lui attribuite o attraverso le strumentalizzazioni “nauseanti” che se ne fanno delle opere. Queste derive preoccupanti – che la dicono lunga, per rimanere in tema, sul sentimento di panico che si è impadronito da una parte delle baronie universitarie e mediatiche – non può che naturalmente portare a giustificare “intellettualmente” le falsificazioni più grossolane e le scorciatoie più sempliciste. Se ne parlo è perché ne so qualcosa a riguardo.

Perché gli intellettuali « conservatori » si dichiarano più in sintonia con le sue opere di quanto non accada con quelli che potremmo definire di «sinistra»?

Per lo stesso motivo, suppongo, che un ammiratore di Chesterton o Bernanos simpatizzerebbe sempre più facilmente con un testo di Proudhon, William Morris o Guy Debord che con un saggio di Bernard Henry Lévy, Raphael Glucksmann o di Alain Minc. Ma lei solleva, in fondo, l’annosa questione della storica relazione tra  “sinistra” e  movimento socialista. Il primo, infatti, è sempre stato definito come “il partito del movimento”, del “progresso” e dell’”avanguardia” in tutto. Partito il cui primo nemico non può essere, per definizione, che la “reazione” o “il vecchio mondo”. Eppure, se l’originaria critica socialista rimettesse invece sul proprio conto la maggior parte delle denunce dell’Ancien Régime o del potere della Chiesa, si porterebbe innanzitutto su quello che Marx definiva la ” legge economica del movimento della società moderna”. Lungi dal condividere le illusioni della sinistra del diciannovesimo secolo sui benefici della nuova società industriale e del suo Diritto astratto, i pensatori socialisti più radicali avevano dunque capito fin dall’inizio, la natura fondamentalmente ambigua della nozione di “Progresso” (si pensi ad esempio al futuro che ci riservano in questi giorni, la Silicon Valley o l’agricoltura industriale). Per questo, ogni pensiero che si vorrebbe ancora di “sinistra”, e unicamente di sinistra è inevitabilmente esposto a una serie di derive suicidarie. Fin troppo facile, infatti, confondere l’idea che “non si può fermare il progresso”, con l’idea che non si può fermare il capitalismo. Tale, a mio avviso, la radice filosofica più costante di tutte le disavventure della sinistra moderna.

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Il giornalista Alexandre Devecchio (Le Figaro), dedica un capitolo del suo ultimo libro, I nuovi figli del secolo, alla “generazione Michéa”, in cui mette alla rinfusa: François Xavier Bellamy, Madeleine Bazin de Jessey, Mathieu Bock-Côté o Eugénie Bastié. Cosa ne pensi di questa classificazione? Si sente di avere influenzato una nuova generazione d’intellettuali o di attivisti politici?

Se l’analisi di Devecchio fosse fondata, starebbe a significare  che un autore che ha sempre rifiutato di partecipare a qualsiasi talk-show televisivo, i cui libri vendono solo poche migliaia di copie – e non “decine di migliaia “come puntualmente dichiarano personaggi alla Jean-Loup Amselle – e che per di più distilla interviste con il contagocce, avrebbe ancora il potere di influenzare un’intera “generazione”! Confesso di essere molto scettico a riguardo. Ma se fosse davvero questo il caso, sarebbe un dato piuttosto confortante. Dimostrerebbe almeno una cosa, che è ancora possibile passare attraverso le maglie della rete.

Secondo lei le classi popolari prendono atto del fatto che i due grandi partiti del blocco liberale stiano distruggendo quanto finora acquisito socialmente ma si rifugiano nell’astensione o nel voto «néo-boulangiste» (nazionalismo + misure sociali). Come fare leva su tale consapevolezza per un’alternativa di «sinistra»?

Le classi popolari sono quelle che sopportano il peso, per definizione di tutte le storture del sistema capitalista. Eppure quest’ultimo, a differenza delle società precedenti, si caratterizza soprattutto per il fatto – come scriveva Marx – che i rapporti tra gli uomini siano essenzialmente sotto forma di relazione tra le cose (il “feticismo della merce” ne era solo la più visibile manifestazione quotidiana di tale “reificazione”). In altre parole, il dominio del Capitale è principalmente quello di una logica anonima e impersonale che s’impone a tutti, perfino alle stesse élite – a prescindere peraltro da quale sia la vera avidità e sconfinata vanità di tali élite. Rinunciando definitivamente, verso la fine degli anni settanta, a questa chiave di lettura socialista – seppure più attuale  come la crisi del 2008 ha ancora una volta ampiamente evidenziato – la sinistra non poteva quindi lasciare alle classi popolari che una sola via d’uscita politica: personalizzare all’estremo l’origine sistemica della loro sofferenza quotidiana e della loro crescente esasperazione attribuendola alla semplice esistenza degli immigrati, ebrei o delle tasse dello Stato. In questa rinuncia a qualsiasi critica radicale della dinamica disumanizzante ed ecologicamente distruttiva del capitalismo va trovata, in sostanza, la costante progressione del voto “néo-boulangiste”. Quest’ultimo è prosperato, infatti, grazie a quello che Renaud Garcia ha così bene definito, il “deserto della critica.” E non saranno certamente le prediche moralisticheggianti delle élite intellettuali e mediatiche a portare un qualsivoglia cambiamento.

Lei sostiene che ritrovare la radicalità originaria della sinistra sarebbe insufficiente per riguadagnarsi la fiducia delle classi popolari. Tuttavia la posizione “né di sinistra né di destra”, è occupata da Marine Le Pen ed Emmanuel Macron. Si è forse in un vicolo cieco?

Nel 1874, gli esuli della Comune rifugiati a Londra ci tennero a ricordare a tutti “coloro che sarebbero tentati di dimenticarsene” che “Versagliesi di sinistra e Versagliesi di destra (Versaillais de gauche et Versaillais de droite) dovevano essere uguali di fronte all”odio del popolo.” Così era in effetti, fino al caso Dreyfus, la posizione dominante del movimento socialista (nel 1893, Jules Guesde e Paul Lafargue ancora facevano appello agli operai affinché cacciassero “i ladri tanto a destra che a sinistra”). Posizione radicale che si ritrova in modo identico, oggi, nel famoso slogan di Podemos “non siamo né di destra né di sinistra; noi siamo quelli di sotto contro quelli di sopra”. Se Marine ha potuto così facilmente girare a proprio vantaggio questa vecchia massima socialista -, garantendosi nel contempo, ovviamente, di disinnescare le implicazioni più radicali – è dunque proprio perché ancora una volta, la sinistra, una volta convertita nell’economia di mercato, le ha, di fatto, ceduto il monopolio della denuncia degli effetti economici e culturali umanamente e socialmente distruttivi della dinamica del capitale (senza che il Front National rinunci più di tanto al mito della “crescita”). In tanto che denuncia, di colpo poco coerente perché ovviamente non si può celebrare contemporaneamente sia l’”unità nazionale” che la lotta di classe. Per quanto riguarda il “né destra né di sinistra” di Macron (converrebbe a questo punto introdurre una differenza tra un “né di destra né di sinistra” dall’alto, e un “né di destra né di sinistra” dal basso), ci troviamo di fronte a un’altra questione. Ovvero – e lei ha assolutamente ragione su questo punto – nella situazione di vicolo cieco in cui ci troviamo!

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Perché lei si è dato come priorità politica per combattere il capitalismo, il superamento del divario destra/sinistra?

Due sono i motivi principali. Da un lato, la divisione sinistra/destra, così come la vediamo oggi, porta sempre a opporsi un “popolo di sinistra” a un “popolo di destra” (qui sta d’altronde tutto il senso della recente importazione delle “primarie” dal sistema statunitense). In effetti, la sola linea di demarcazione politicamente fruttuosa è quella che avrebbe invitato, al contrario, a riunire l’insieme delle classi popolari contro questa oligarchia liberale che non sembra affatto fermarsi nell’opera di dissoluzione del loro stile di vita specifico nelle “acque gelide del calcolo egoistico“. Inoltre, questa divisione è ormai quasi completamente cambiata di senso. Non contrappone più, come nel XIX secolo, i sostenitori di un ordine divino santificante le disuguaglianze per nascita e gli eredi dell’Illuminismo. Al contrario la divide in due campi ufficialmente rivali. Da un lato, coloro che, nella tradizione di Adam Smith e Turgot, vedono nella continua espansione del mercato il primo fondamento della libertà individuale. E dall’altra, chi ritiene che sia piuttosto l’estensione indefinita dei “diritti umani”, a essere il motore principale. Ma dal momento in cui il liberalismo economico della “destra” moderna deve essere definito, secondo la formula di Hayek, come il diritto assoluto “di produrre, vendere e comprare tutto ciò che può essere prodotto o venduto” (sia che si tratti di un orologio connesso in rete, di una dose di cocaina o del grembo di una madre surrogata), è chiaro che lui non potrà mai svilupparsi in modo integralmente coerente senza appoggiarsi, prima o poi al liberalismo culturale della “sinistra” (accantono in questo caso l’uso puramente elettorale da parte di una certa destra della retorica “conservatrice”). In altre parole, Hayek chiama in causa Foucault e Foucault fa lo stesso con Hayek. Basti dire che avremo sempre più a che fare – se non dovesse cambiare nulla – ” con quelle che Debord già definiva “le false lotte spettacolari delle forme rivali del potere separato”. Lotte il cui unico vero vincitore – Podemos l’ha capito fin troppo bene – non può essere che il Capitale e il suo ‘incessante movimento di guadagno sempre rinnovato” (Marx).

Perché prende in giro intellettuali alla François Cusset, sostenitori della tesi secondo cui tutta la società si stia orientando a destra? Tale diagnosi le sembra infondata?

L’uso di questo concetto mediatico soffre di due principali difetti che lo privano di qualsiasi senso. In primo luogo, ci invita a considerare la “Società” come un blocco omogeneo. Questo porta a nascondere il crescente divorzio tra il discorso modernizzatore delle élite del Sistema – il cui sguardo è sempre più rivolto, giorno dopo giorno, alla Silicon Valley – e il crescente rigetto di questo stesso sistema da parte dei ceti popolari. Dall’altro, tende anche a omogeneizzare il concetto di “destra”. Di fatto quest’ultima è per definizione pluralista. La destra può altrettanto facilmente portare a legittimare l’ubérisation integrale della vita, come in voga tra i liberalisti, che l’uso dello stato totale, come nel caso del fascismo. Ma forse, in fin dei conti, il concetto presupposto dall’”orientamento a destra” mirava soltanto alla riscoperta di quei valori detti “tradizionali”, che – tali il senso di appartenenza, del bisogno di civiltà o del denso del passato – hanno sempre contribuito a frenare, nelle classi popolari, il processo di atomizzazione del mondo di cui il capitalismo è strutturalmente il paladino. In tal caso rappresenterebbe allora che uno dei molti modi con cui le élite liberali sogliono stigmatizzare il “ripiego su di sé” e il “passatismo” di queste classi “subalterne”. Eppure Debord aveva risposto in largo anticipo a questo tipo di critica. “Quanto all’essere assolutamente moderni – ha scritto – è diventato una legge speciale proclamata dal tiranno, quello che l’onesto schiavo teme più di ogni altra cosa, è che lo si possa tacciare di passatismo.”

The real thing: LGSM members march in support of the minersLei considera che la sinistra abbia smarrito la propria anima abbandonando la lotta di classe a profitto della difesa delle minoranze. Tali lotte le sembrano antagoniste? Pensa veramente che esista una lotta prioritaria rispetto ad altre?

Qui non si tratta di definire delle priorità. La vera questione innanzitutto concerne la costruzione di un legame dialettico tra la lotta contro il capitale e la “tutela delle minoranze”. Ma, come la sinistra moderna è diventata incapace di proporre una tale articolazione, non può che semplicemente accompagnare il processo storico che conduce, secondo la formula di Wolfgang Streeck, a “mettere fine alla dimensione democratica del capitalismo cancellando qualsiasi dimensione economica della democrazia”. È per questo che nel mio libro, attribuisco tanta importanza alle lezioni politiche di Pride, lo splendido film di Matthew Warchus. Mostra, infatti, molto chiaramente, come la lotta contro l’omofobia, giusto per fare un esempio, non è mai così efficace come quando riesce a trovare il suo posto nella cornice delle lotte popolari contro il dominio capitalista. Il contrario, insomma, dell’approccio puramente liberale di una Christiane Taubira e dei suoi artisti « citoyens ».

Quando ha rinunciato a candidarsi per le elezioni presidenziali, Francois Hollande ha dichiarato che “il pericolo maggiore è il protezionismo”, equiparandolo così al nazionalismo. Pensa che la maggioranza della popolazione sia ancora sensibile a quest’avvertimento?

Il sistema capitalista si fonda, per definizione, sulla sempre crescente produzione di beni destinati principalmente alla vendita sul mercato dove la concorrenza dovrebbe essere teoricamente “libera e non falsata”. Nella visione liberale, tutte le misure “protezionistiche” possono soltanto compromettere la riproduzione estesa del capitale. Siccome è diventato più difficile oggi – a causa del famoso “orientamento a destra della società” – presentare questa libera concorrenza capitalistica come un “valore di sinistra” (tuttavia, si tratta esattamente di quanto Hollande proponeva nel 1985 con il suo La gauche bouge), pare ormai ben più redditizio per una sinistra liberale, rivendicare che ogni critica del libero scambio globalizzato deriverebbe, in realtà, da uno spirito “nazionalista” o “fascisteggiante”. Qui troviamo, insomma, l’antico sofisma diventato popolare grazie a Bernard Henry Lévy nell’Idéologie française: se l’estrema destra denuncia il capitalismo, questa è la prova che ogni critica del capitalismo è di estrema destra.

Anche se inizialmente coinvolgeva soprattutto le classi medie delle grandi città, il movimento Nuit Debout non poteva essere un punto di convergenza con le classi popolari?

Il problema è che questo movimento, davvero molto promettente all’inizio, è stato quasi immediatamente soffocato dagli elementi più caricaturali della sinistra “radicale” parigina (si pensi alle famose “riunioni non-miste”!). E, di colpo presentato con la massima benevolenza dalla maggior parte dei media ufficiali. Il che si è rivelato di certo non il modo migliore per elargire rapidamente la propria base sociale e incontrare un’eco entusiasta nella Francia delle periferie!

Lei è un difensore del bilancio di Podemos quando lo considera come “l’unico movimento radicale europeo” ad aver capito l’imperativo del superamento delle divisioni tradizionali. Perché questo modello non si è sviluppato in altri paesi europei? Il fallimento di Syriza in Grecia è dovuto al suo essere ancorato a sinistra?

Il successo di Podemos è dovuto principalmente a tre fattori: l’ampiezza della crisi economica spagnola, l’esistenza di un gruppo d’intellettuali, alla Pablo Iglesias o Juan Carlos Monedero, che si sono nutriti delle letture di Gramsci e della conoscenza delle lotte rivoluzionarie in America Latina, e la corrispondente capacità di questi intellettuali di entrare in sintonia con le classi popolari. Ovviamente, gli altri paesi europei non ci sono ancora arrivati. Per quanto riguarda Syriza, fondato inizialmente su basi politiche vicine, il fallimento può essere spiegato con il trionfo della linea Tsipras su quella di Varoufakis. In altre parole, con l’illusione che l’oligarchia di Bruxelles potesse ancora servire altri interessi rispetto a quelli dei mercati finanziari internazionali. Significava davvero conoscere assai poco un’Angela Merkel.

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Si scrive che il sistema liberale “fa acqua da tutte le parti”, e che la sua scomparsa è “inevitabile”. Siamo forse in una situazione pre-rivoluzionaria? Che alternativa politica potrebbe sostituirlo?

Il capitalismo post-democratico si scontra con tre grandi limiti. Quello morale perché distrugge gradualmente le basi antropologiche di della vita intera. Con il limite ecologico, giacché la crescita all’infinito è chiaramente impossibile in un mondo finito. E con quello sistemico, perché il suo ingresso nel regno del “capitale fittizio” – come Lohoff e Trenckle l’hanno stabilito in modo magistrale nel loro lavoro, La grande dévalorisation – lo avvicina a grandi falcate alla sua fase terminale.  Regno moderno del capitale fittizio che si spiega da sé con il fatto che la riproduzione allargata del capitale si basi ormai meno – a causa dell’incessante innovazione tecnologica – sul lavoro vivo degli uomini che su una piramide di debiti che non potranno mai essere rimborsati. Però nulla dice – in questo campo di rovine che la sinistra ha lasciato alle spalle – che il periodo di catastrofi che così si annuncia avrà un lieto fine. Potrebbe altrettanto facilmente portare all’avvento di un mondo post-capitalista che si sposerebbe in una maniera inedita Brazil et Mad Max. Tale era già il cupo avvertimento di Rosa Luxemburg, ormai più di un secolo fa.

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