Abbiamo visto “ Il padre d’Italia “ regia di Fabio Mollo.
con Luca Marinelli, Isabella Ragonese, Anna Ferruzzo, Mario Sgueglia, Federica de Cola. Genere Drammatico – Italia, 2017, durata 93 minuti.
Questo genere di storie sembra riportarci a una trentina d’anni fa, senza tuttavia confermarci quelle intenzioni di trasgressione né tantomeno di modernizzazione dei personaggi e del racconto. Si intrufola in modo sbiadito tra film come Stesso sangue di Cecca ed Eronica o Verso Sud di Pozzessere; allontanandoci un po’, pensiamo ai primi film di Assayas o di Beinex e di Carax. Ma in quei film c’era la voglia di raccontare dei drop out che inseguivano dei sogni, che vivevano una vera trasgressione sociale anche attraverso un‘illegalità praticata e naturale. E soprattutto c’era una narrazione psicologica dei personaggi ben costruita e coerente. Invece in questo tentativo di on the road, fatta da una coppia del tutto differente, inespressa, interrotta emotivamente, e più scoppiata che non alternativa a dei modelli, tutto procede in modo a volte poco logico, spesso prevedibile e privo di una vera drammatizzazione. Un peccato perché queste storie escono sempre dai cliché del cinema consolidato, perché creano facile empatia, perché i due attori protagonisti sono tra i migliori della nuova generazione, ma sono relegati, lei ( la brava Isabella Ragonese a cui però offrono spesso film asfittici e convenzionali ) in una figurina più comica che drammatica e lui ( Luca Marinelli, che ricordiamo nel bel film del compianto Caligari ) con una sola espressione de viso, introversa e sofferente. Verrebbe quasi voglia di dire al regista Mollo di tornare a studiare il Cinema e la narrazione cinematografica.
Paolo è un trentenne che esce da una lunga relazione omosessuale, è cresciuto senza genitori e senza particolari ambizioni, lavora come commesso in uno store d’arredamento di provincia in Piemonte e le sue sere le passa a pedinare il suo ex nei locali per gay. Qui una sera va a sbattere contro Mia, una ragazza incinta, che subito sviene. Lui la porta in ospedale e se la ritrova sul groppone ( ma in realtà cerca un qualsiasi pretesto per fuggire da una vita asfittica e di sofferente emotiva ). Due chiacchiere senza né capo né coda appena fuori l’ospedale e lui la ospita a casa per la notte e il mattino dopo l’accompagna al gruppo musicale con cui lei dovrebbe fare delle prove, ma dopo ore quando li trovano si scopre che lei l’hanno già scaricata e il chitarrista l’ha già sostituita con un’altra ragazza anche affettivamente. Mia allora chiede a Paolo di portarla a casa, dove ? Ma a Roma naturalmente e lui con il furgone della ditta e con dentro una cucina che si deve consegnare entro le sei e trenta dl pomeriggio, decide d’accompagnarla. Ma si scopre, giunti nella capitale, che lei non ha una casa e solo ospite di chissà chi, allora devono dormire in albergo per la notte. Su insistenza di lui – che vuole portarla dal padre del bambino che dovrà nascere – il giorno dopo vanno a Napoli, ma con una soluzione raffazzonata e sconclusionata si scopre che l’uomo che lei dice essere il padre è morto da un anno e la vedova la scaccia infastidita. Lui allora decide di regalare la cucina della ditta alle suore che lo hanno cresciuto e si fa coccolare da un’anziana monaca che lo ricorda ancora ma non ricorda il nome. Quindi decidono di andare verso sud e precisamente a casa di lei in Puglia ( in una zona veramente brutta e insignificante ). Restano presso i parenti di lei come una coppia, ma poi lui si fa venire a prendere dal vecchio fidanzato e torna a casa. Poco dopo viene rintracciato dall’ospedale in cui Mia ha partorito ed ha lasciato il bebè dichiarando che Paolo è il padre. Paolo fa altri 1300 chilometri e decide di riconoscere la neonata che si chiamerà Italia.
Tra brani Anni Ottanta di Loredana Bertè, Mia che indossa un giaccone su cui risalta una madonna fosforescente e un’Italia del tutto anonima e improbabile se non sfocata ecco un film che gira a vuoto, spreca possibilità e indirizza, senza esserlo nemmeno, un film sul bisogno di genitorialità di un omosessuale orfano. Viene voglia di voltarsi indietro e chiamare qualche sceneggiatore di una volta.