Interrogarsi sul rapporto tra cultura e politica in un momento storico in cui i valori della cultura non meno di quelli della politica sono scivolati nell’effimero più vaniloquente o si sono ridotti al grado zero della corruzione morale e penale, non è, credo, senza significato.
La riflessione potrebbe cominciare da un libretto di Gianfranco Contini che s’intitola appunto Dove va la cultura europea?, edito nel 2012 da Quodlibet (Macerata) per le cure di Luca Baranelli e arricchito da un bel saggio di Daniele Giglioli. Si tratta della ristampa del brillante e profondo resoconto della prima delle Rencontres internationales di Ginevra che Contini scrisse nel 1946 per conto della «Fiera letteraria» dove sarà edito il 31 ottobre del 1947 (pp. 1-2).
Questi incontri al vertice dei massimi intellettuali europei avevano cadenza biennale e duravano due settimane. Il tema scelto per la prima delle Rencontres fu, e non paia non a caso, L’ésprit européen. Tra i partecipanti più importanti segnalo Lukàcs, Jaspers, Spender, Bernanos, Benda, Merleau-Ponty, Starobinski ecc. Per l’Italia (e Contini se ne lamenta) erano presenti solo Flora, Vigorelli, Campagnolo, Silone e pochi giornalisti. Croce, informato dell’annunciata presenza di Sartre, aveva declinato l’invito. Non erano stati invitati Bobbio, Montale, Bacchelli, Vigolo, Alvaro, Calogero, Capitini ecc. Gide e Eliot avevano rifiutato e anche Sartre, alla fine, non era venuto. Silone era poi ripartito senza parlare.
La cultura europea aveva i suoi buoni motivi per interrogarsi dopo la guerra: non solo non era stata in grado di prevedere ed impedire le dittature, il secondo conflitto mondiale e la Shoah, ma spesso per indifferenza, per tornaconto o per adesione ideologica, gli uomini di cultura europei non si erano opposti al fascismo e al nazismo e anzi in alcuni casi li avevano favoriti o ne erano diventati complici.
Naturalmente, oltre ai martiri politici dell’antifascismo (Matteotti, i fratelli Rosselli, Gobetti, Gramsci ecc.) vi furono luminose eccezioni.
Escludendo per il momento l’esperienza della guerra partigiana, penso a chi coraggiosamente nel 1925 firmò il Manifesto degli intellettuali antifascisti (Croce, Banfi, Cecchi, Montale, Alvaro, Linati ecc.), a chi non si iscrisse al PNF o a chi si rifiutò di prestare giuramento al fascismo e fu costretto alle dimissioni (Leone Ginzburg) e anche a chi, contro le leggi razziali del 1938, solidarizzò con gli ebrei italiani che persero il lavoro, furono costretti a nascondersi o a fuggire, o furono deportati.
Era dunque opportuno che gli intellettuali europei dopo la guerra si domandassero quale dovesse essere il loro contributo alla ricostruzione morale, politica e civile del continente. Si domandassero cioè quale modello di società era auspicabile e in che direzione dovesse andare la cultura europea. Sarebbe opportuno anche oggi…
Gianfranco Contini (1912-1990), oltre ad essere stato il grande critico e e filologo che tutti conosciamo, fu anche un attivo antifascista e un partigiano militante nella Repubblica dell’Ossola. Nei suoi scritti politici (poco conosciuti) egli aveva sempre affermato la necessità che la cultura non ignorasse in modo ipocrita non solo la dimensione politica ma anche l’azione diretta.
Contini non è dunque un osservatore neutrale degli incontri ginevrini e nel suo scritto raggiunge un buon compromesso tra il resoconto fedele degli interventi (opportunamente selezionati) e l’esposizione delle proprie idee sulla materia del contendere. Nel 1946, del resto, ha trentaquattro anni e insegna già Filologia romanza nell’università svizzera di Friburgo. Al suo attivo, come dicevo, ha l’importante contributo dato alla Resistenza con la partecipazione alla repubblica dell’Ossola (nel Partito d’azione) e svariati articoli politici pubblicati sulle pagine del «Dovere. Giornale officiale del Partito Liberale-Radicale Ticinese», ch’era il foglio radicale della Svizzera italiana da lui diretto (vd. Renata Broggini, Pagine ticinesi di Gianfranco Contini, Salvioni, Bellinzona 1986).
Questi scritti verranno pubblicati nella sezione culturale di questo giornale da lui intitolata significativamente Cultura e azione. Altri suoi articoli politici compariranno sul giornale socialista di Lugano «Libera stampa» e sul foglio ossolano «Liberazione. Giornale della Giunta provvisoria di Governo e delle formazioni militari dei Patrioti dell’Ossola». Vale la pena di ricordare che anche dalla Svizzera Contini riuscì a lottare attivamente (e non solo con articoli) contro il fascismo. Come?
In virtù d’un antico trattato, la Svizzera ospitava sin dal 1907 i rifugiati militari che sconfinavano in armi nel suo territorio. Così, dopo l’8 settembre del 1943, centinaia di italiani che passarono il confine in divisa furono alloggiati in campi svizzeri. Contini, tra gli altri, si adoperò allora presso le autorità svizzere per permettere a chi ne avesse i titoli di continuare gli studi universitari in territorio elvetico. Tra questi vi furono moltissimi intellettuali antifascisti che divennero suoi allievi tra i quali ricordo solo Dante Isella e Giansiro Ferrata. Contini riuscì anche a strappare alla Confederazione il permesso di ospitare non solo i rifugiati militari ma anche i partigiani civili italiani che fuggivano oltre confine (oltre trentamila persone). Così, nell’ottobre del 1944, dopo la riconquista tedesca della repubblica dell’Ossola, la Svizzera accolse moltissimi partigiani e civili che dalla regione ossolana scapparono soprattutto nel Ticino e nel Vallese.
Quando fu proclamata la Repubblica dell’Ossola (che durò dal 10 settembre del 1944 al 23 ottobre dello stesso anno), Contini lasciò la cattedra di Friburgo e si recò a Domodossola, sua città natale, dove, insieme a Calcaterra, fece parte della «Commissione didattica consultiva» della Repubblica che aveva in don Gaudenzio Calabrò il suo Presidente. In tale veste contribuì a redigere un «progetto di riforma scolastica» che, svecchiati i programmi da ogni nazionalismo e da ogni fittizia romanità, prevedeva un inserimento della cultura italiana nel più ampio contesto europeo. Propugnava inoltre una moderata educazione umanistica non in senso elitario-aristocritico ma nello spirito d’una educazione armonica del cittadino intesa a promuovere lo sviluppo globale dell’individuo. Ne derivava l’immagine d’una scuola rigorosamente pubblica, non impostata ideologicamente ma pluralista e democratica che seguiva gli sviluppi storici ed era strutturata secondo i modelli pedagogici provenienti dagli Stati Uniti.
Sin dalle prime righe della nostra plaquette, appare chiaro al lettore che Contini vorrebbe che la cultura europea non ignorasse la politica (anzi l’azione politica) e che parimenti la politica non ignorasse la sua essenza culturale. Perciò attacca con grande verve stilistica quei contributi ginevrini che, in nome di un idealismo ipocrita, predicavano il nobile disimpegno spirituale dell’arte, la sua neutralità e la sua indipendenza dai rapporti economici e politici della società. Sentite cosa scrive a proposito del cattolicissimo Bernanos:
Bernanos […] potè spacciare a una folla serale in un autentico teatro il suo ircocervo di sciocchezze, di logica e finezza victorhughiane. (Con la pessima falsità di chi simula lo smercio di verità impopolari, l’energumeno delle Lettres aux Anglais cumulò in uno solo, piazzato all’estrema destra, i totalitarismi di destra e sinistra, riservando la sinistra per sé (p. 16)
Dopo di che, il suo fuoco verbale si concentra sul duello oratorio tra l’esistenzialista Karl Jaspers e il marxista György Lukàcs.
Alle vaghe premesse esistenzialistiche del suo discorso – osserva Contini – Jaspers non fa seguire che corollari di «fraternità universale» e di «vago liberalismo» (p. 24). In particolare la distinzione tra politica e spirito, cioè la motivazione con cui Jaspers si rifiuta di parlare di politica nell’orientamento culturale della nuova Europa, gli appare non solo un «pretesto alla conservazione» ma anche un discorso «non meno rigorosamente politico» (p. 25) di quello soltanto politico dei marxisti.
Inoltre, quando Lukàcs – usando le armi del suo avversario e cioè ritorcendogli contro una concreta situazione esistenziale – ricorda a Jaspers
che l’impossibilità di bere una tazza di caffè come conseguenza d’una lite salariale negli Stati Uniti è pure, per l’operaio europeo, una prova diretta dell’unità e della solidarietà del mondo,
Contini scrive che l’intellettuale ungherese aveva messo «il dito sulla piaga del moralismo astratto di Jaspers e di molti europei» (p. 30).
In sostanza Lukàcs appare a Contini il trionfatore ideale di questa corrida filosofica ed è chiaro che la sua simpatia va a questi piuttosto che a Jaspers. Si tratta, però, sempre di una simpatia con riserve. Ad un certo punto del suo resoconto, Contini deplora, infatti, nel dibattito «l’assenza della ‘terza’ voce, per esempio del hegelismo liberale, il silenzio del pensiero italiano» (p. 24). Inoltre quando Lukàcs afferma (pp. 31-32) che nella presente situazione storica egli conterebbe tra i nemici colui che volesse attuare in un paese occidentale la società socialista, Contini ne critica quel tipo di «deformazione ortodossa» (dogmatismo) in base al quale esiste una sola verità e una sola condotta legittima che è sempre quella individuata dalla direzione del partito. Di conseguenza gli dà del «Molotov filosofico» (p. 31).
Mi chiedo anche cosa avrebbe pensato il modernista Contini se nel 1946 avesse conosciuto i gusti letterari di Lukàcs che escludevano dal novero dei grandi della letteratura Kafka, Joyce e Beckett, per non fare che tre soli nomi e tralasciando la celebre polemica sul romanzo che proprioLukàcs ingaggiò con Bachtin, uscendone, direi, piuttosto malconcio.
Certamente a Contini l’idea di purificare l’arte espungendone la dimensione politica appare assurda. Tra l’altro, osserva che era esistito anche un uso politico della letteratura e a tal proposito citava l’esempio della lettura politica di Virgilio in chiave nazionalistica e razzista che ne aveva dato il fascismo.
Del resto, nel 1945, a guerra finita, nella Lettre d’Italie (ora in Altri esercizî, 1942-1971, Einaudi, Torino 1972, pp. 69-70), Contini così ribadiva la sua tesi:
L’indepéndence de l’art n’a de sens, disions-nous, que dans son stade ingénu et proprement objectif: un programme orgueilleux d’indépendence subjective et narcissiste dépasse immédiatement les bornes légitimes. La matière de l’art serait-elle par hazard autre chose que la substance de l’homme? On a le droit d’être apolitique en fait, on n’a point le droit (dialectique, non pas moral!) de le proclamer et de s’en targuer, car cette prédication est de la politique. On peut nier à cette politique, non pas à la politique, la possibilité de satisfaire des instances spirituelles.
Ma ancora più lapidariamente, a metà del nostro resoconto, Contini aveva affermato che «sarà lecito senza peccato di demagogico vocabolario chiamare reazionaria una cultura che, giunta alla sua presa di coscienza, si rifiuti di convertirsi in azione» (p. 26). Queste parole spiegano anche la lettura “religiosa” in senso lato e immanentistica che Contini dava della Resistenza la quale, a suo avviso, doveva assolutamente e immediatamente politicizzarsi, traducendo nel concreto sociale i suoi ideali di eguaglianza e di democrazia.
Rimane da dire che nel nostro articolo, pur così impegnato, non è aliena una grande vivacità letteraria venata da svariate punte di umorismo e ciò rende il testo particolarmente gradevole. Ad esempio, proprio all’inizio, l’autore ricorda alcune manifestazioni musicali che hanno fatto da contorno al serioso incontro ginevrino: un concerto «stupendo, liricissimo, di Bartok», La Mer di Debussy («che all’incorreggibile lettore evoca sempre la spiaggia di Balbec davanti a Marcel») e la versione integrale dell’Histoire du soldat di Stravinsky «squisitamente servita da Ansermet» (pp. 14-15).
Quanto all’umorismo, cito solo due esempi: Denis de Rougemont, l’autore del celebrato L’amour et l’Occident, è definito «l’atletico teoreta, si mormora con applicazioni pratiche, dell’amore occidentale» (p. 28), mentre nella chiusa del testo Contini si sostituisce a Lucia Mondella ma soltanto evocandola con le parole con cui Manzoni allude all’Addio monti, cioè il lirico e memorabile soliloquio della fanciulla:
Di tal genere, se non tali appunto, erano i pensieri d’un letterato italiano mentre il locomotore si staccava a novanta all’ora dalle rive fluviali e lacustri in vacanza della distensiva, della pacificante Ginevra. (p. 42).
Purtroppo oggi tra i vari pensieri che ci assillano la vera domanda non è più, ahimè, «dove va la cultura europea?» ma semplicemente «dove va l’Europa?»…