Abbiamo visto “ L’uomo che verrà “ diretto da Giorgio Diritti.
Aveva ragione Ridley Scott in un’intervista di alcuni anni fa, rispondendo a una domanda sull’importanza del talento nel cinema disse che la bravura di un autore era in percentuale minoritaria a confronto delle conoscenze e della fortuna. Risposta forse ovvia per chi ha letto Machiavelli e i Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio. Ecco, se invece dovessimo giudicare la bravura e il talento uniche doti essenziali per la riuscita di un bel film, possiamo dire senza dubbio di smentita, che Giorgio Diritti e il suo film sull’eccidio di Marzabotto sono il miglior risultato del cinema italiano di questo inizio di Millennio. Questo suo cinema è sulla scia del miglior Olmi, del migliore dei film dei fratelli Taviani ed è un film che meriterebbe la corsa agli Oscar come miglior film straniero. Un film si giudica oltre che per la regia anche per l’insieme della messa in scena e vogliamo dire che dalla fotografia ( Roberto Cimatti ), alle scenografie ( Giancarlo Basili ), dai costumi ( Lia Francesca Morandini ) al casting ( lo stesso regista – che ha fatto questo lavoro per anni anche per Fellini, Avati… ) c’è una corsa a chi fa il suo lavoro al meglio. E non sapremmo dare la palma del più bravo all’uno o all’altro. Il film ci racconta la guerra, l’orrore di un esercito occupante ( in questo caso nazista ), ma anche la fame contadina, la paura dei bimbi e degli adulti per una violenza incomprensibile e incontrollata; ci racconta di facce pulite e giovani che prive di coscienza e di moralità si possono macchiare di crimini innominabili con la stessa leggerezza di un branco sbandato ma in divisa. Questo modo di raccontare un “ piccolo “ fatto di cronaca di guerra lo hanno provato a fare in tanti, in pochi riuscendoci veramente, i fratelli Taviani e Montaldo in Italia e Malick, Fuller, Eastwood negli Stati Uniti, Kon Ichikawa e Tanovic per citarne altri. Adesso lo ha fatto anche Diritti portando al termine un gran bel film realizzato con un budget “ ridicolo “ di soli tre milioni di euro ( pensate ai trenta di Tornatore o ai trecento di qualche film statunitense ).
Diritti ci racconta un anno di vita a Marzabotto, paesino sugli Appennini emiliani, all’inizio c’è un cartello che indica autunno 1943, il rastrellamento e l’eccidio avverranno il 5 Ottobre del 1944. Per coloro che non sanno di lotta partigiana e degli efferati crimini nazisti accenniamo brevemente: il feldmaresciallo Kesselring aveva scoperto che a Marzabotto agiva la combattiva e coraggiosa brigata Stella Rossa, e voleva dare un duro colpo all’organizzazione e ai civili che riteneva la appoggiassero. Marzabotto aveva subito già rappresaglie, ma mai così criminali come quella dell’autunno 1944.
Raccontare la storia non è semplice, perché non c’è una trama ben definita. Prima che succeda l’eccidio ( splendida la scelta di non indugiare sulla strage, ma di descriverla in modo delicato e privo di gran guignol ) c’è l’interno di una comunità agreste dell’Appennino: ci sono la descrizioni del mondo contadino, dal vestirsi al mangiare, dai sogni delle ragazze per l’amore, alle donne anziane che le tengono sotto briglia, dai pretini delicati e gentili ai bambini che stanno a scuola, dai partigiani che vanno e vengono e che compiono azioni militari lontane dal paese al passaggio sempre inquietante delle truppe naziste che a volte prendono solo cibo ed altre minacciano anche stupri. Il tutto è visto attraverso gli occhi di Martina, una bambina di otto anni, incapace di parlare dopo la morte del fratellino appena nato e in attesa che la madre partorisca di nuovo ( l’uomo che verrà ). La vicenda è ambientata nel 1943 alle pendici del Monte Sole, qui i contadini lavorano intere giornate, tentando in ogni modo di sopravvivere al freddo e alla fame. A questo si aggiungono i rastrellamenti e la richiesta d’aiuti dei partigiani che hanno bisogno di cibo e di assistenza. La famiglia di Martina sopravvive come può sperando che tutto finisca al più presto.
In alcuni passaggi potrebbe sembrare un documentario romanzato e il dialetto bolognese (il film è sottotitolato) ci fa entrare ancora più dentro le vite della comunità; questi contadini non hanno una fede politica e accettano le sventure e i pochi momenti di serenità senza scalpitare e senza provare rabbia o rancore verso il nemico. I giovani e le donne dividono il pane e il sugo con il soldato occupante, ma sanno che non ci potrà mai essere nulla in comune tra loro perché la vita ha delle regole.
Come abbiamo detto in precedenza tutti gli attori sono molto bravi e si sono calati in quella realtà con precisione antropologica. Brave e convincenti la Rohrwacher e la Sansa ma bravi tutti con una menzione speciale per Greta Zuccheri Montanari, una bambina di altri tempi.