Nelle foto di Fernanda Pivano spesso si vedono bene le mani: unghie smaltate di chiaro, e grandi anelli: fatti di plastica, di vetro, di pietre colorate, inattesi, allegri. È il contrasto che incuriosisce: mani curate da signora borghese, e i bijoux del moderno che preme – i più belli sempre disegnati da Ettore Sottsass. Sembra, in miniatura e in figura, la storia di una vita. Una ragazza perbene, di buona educazione e buoni studi che scopre libri inattesi e scrittori capaci di trasgredire, in parole e in opere. La sorprendono, la catturano, ma non la contagiano. E nasce quel paradigma-Pivano, fatto, in parti uguali, di incantamento e di resistenza, che somiglia all’immagine delle dita inanellate, dove i gioielli parlano di un altrove, non di una fuga. Così con gli scrittori: i suoi eroi sono, devono essere, ribelli: una selvaggia parata di giovanotti più o meno perduti che ben figurerebbero a popolare l’immaginario erotico di di una signorina vittoriana. Coltivato, ma ben recintato. Nanda Pivano, per una vita, avvicina inquietudini sempre diverse con tenace entusiasmo: beat, hippie, yippie, underground, cantautori e controcultura, pacifisti e buddisti, bourbon e birra, droghe e vita per strada, l’urlo e i furori, dissidenti e minimalisti.

Cammina con passi misurati sull’orlo di alcuni baratri, ma non si butta. Osserva, invece, le vite degli altri, e le ricompone in interviste, ricordi, saggi e introduzioni. Ne ricava amicizie affettuose e dissimmetriche, ma anche libri da proporre agli editori italiani. Legge tutto prima degli altri, coltiva il ruolo di ambasciatrice e, negli anni, di profetessa. La curiosità è vigile; instancabile l’impegno di diffondere e promuovere gli scrittori che incontra. Lo fa a modo suo, con sguardo concentrato sulla novità, e con precisione ragionevole. Di On the road di Kerouac, in un parere di lettura per la Mondadori, scrive: «forse è davvero il libro della nuova generazione, ma certo c’è qualcosa che non si è ancora visto in altri libri nuovi. Il senso della vanità, dello scombinamento, della sconnessione di questa nuova generazione: sporchi, poveri, avidi di emozioni, ignari di leggi morali e così via. Può darsi che questo scrittore trentacinquenne diventi proprio il simbolo della nuova generazione». La parola che si ripete come un mantra è sempre quella: nuovo. Un altro paradosso nella storia di Fernanda Pivano è il suo rapporto con la lingua: le parole, quelle degli altri ma anche le sue, sono la stoffa del lavoro che fa.

 

Ma lei, sulle parole, sembra sorvolare: la materia prima è, piuttosto, la vita; la lingua, in fondo, solo una conseguenza, e un risultato. Per tanti intellettuali suoi coetanei l’America è stata, oltre che rivoluzione conoscitiva, palestra di scrittura, scuola di invenzioni formali, serbatoio di freschezza antiletteraria. A Fernanda Pivano – sempre meglio informata di tutti loro – più ancora delle cose che scrivono, sembrano piacere quelli che le scrivono. Il suo immutabile sillogismo, mai esplicitato ma sempre sottinteso a ogni saggio, valutazione, ricordo suona così: dato un autore con questa faccia (maledetta), con questa vicenda personale (sfigata), con questi amici (disfunzionali come lui), i suoi libri non possono che essere interessanti. Se lo stile di vita è radicale, allora ribollente, nuova sarà la   storia e, con lei, la scrittura. Altro, non serve. Le preoccupazioni formali non le appartengono, dai suoi autori non le viene certo in mente di succhiare linfa stilistica. Il filo di perle avrà pure lasciato il posto alle forme sinuose della plastica colorata, ma la sua scrittura rimane diligente, la vita protetta. Insomma, proprio qui, in questo equilibrismo tra condivisione e separazione; tra emozione e ribadita differenza sta una piccola verità su Fernanda Pivano: che certo non guarda ai suoi scrittori con lente accademica (professoressa, non lo è mai stata, né le sarebbe piaciuto esserlo), ma nemmeno vuol diventare una del branco. La parte della musa non le si addice, fa di volta in volta la figlia ancora da svezzare (Hemingway, pur scandalizzato dal suo essere astemia, la chiamava daughter); la sorellina saputella; e poi, invecchiando, la mamma indulgente.

La sua scrittura è pulita, poco mobile la musica delle frasi, il vocabolario parco e funzionale. Compunta e attenta, racconta Burroughs come se parlasse di Jane Austen. Le sue pagine sono impermeabili a quella trasgressione che descrivono, ma ne restituiscono, per contrasto, la capacità di stupire, l’attrattiva e il fuoco. Il nuovo, non ne ha mai dubitato per un attimo, è un valore in sé stesso, non ha bisogno di altre precisazioni. Piuttosto, e qui sta il problema, invecchia rapidamente. Stagioni diverse generano novità diverse, e lei è lì pronta a registrarle: Fernanda Pivano ha attraversato molte epoche, proiettata all’inseguimento di quel che l’America non smetteva di inventare. I suoi amici erano sempre più giovani, i libri che leggeva sempre più recenti. Anche le foto documentano questa evoluzione, e raccontano una storia parallela a quella dei libri: la Nanda sembra ancora una ragazza vicino a Gregory Corso, o a Jack Kerouac; è giovane accanto a Hemingway vecchio; è una signora composta ed elegante al fianco di Allen Ginsberg col barbone nero; è vecchia abbracciata a De André, che aveva vent’anni meno di lei, e vicino a Jay McInerney che, anni di meno, ne aveva quasi quaranta. Le mani sono ancora belle. Gli anelli, amuleti misteriosi, ci sono sempre.

Mariarosa Bricchi è curatrice dei Diari di Fernanda Pivano editi da Bompiani.

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