A Parigi non è che sia facile vivere e che la gente si diverta. Vivere in una capitale, in una grande metropoli europea, persino mondiale, in un centro culturale d’eccellenza, cosmopolita, brulicante d’iniziative erotiche inconsuete, di punti di vista inauditi sull’abbigliamento, di credenze su come rendere lo scorrimento del tempo più arioso e inebriante, impone una certa responsabilità, esige in ogni caso competenze, preparazione, allenamento. Non è come chi vive in una periferia qualsiasi, in mezzo ai grigi vialoni dell’anonimato, dedito solo a centri commerciali feroci e a manovre nei parcheggi sotterranei.

Quando durante i miei anni parigini – prima di sabotare il mio futuro, decidendo di abitare in una cittadina di periferia – dicevo a qualche italiano conosciuto da poco: “vivo a Parigi”, subito ottenevo un sguardo d’ammirazione, e quella persona ci teneva a felicitarmi, e non so discernere ancora oggi se quelle felicitazioni riguardassero la fortuna di vivere lontano dall’Italia o la fortuna di vivere proprio a Parigi. Non è che a Parigi la gente passi il tempo a divertirsi, a salire sulla Tour Eiffel, a contare le statue dei re di Giudea sulla facciata di Notre-Dame, a scattare fotografie dai bateaux-mouches, a mangiarsi ostriche al Wepler o a bersi succo di pomodoro condito al Flore. A Parigi la gente si diverte di rado, perché Parigi è un città raramente divertente per chi ci vive. Si fa una gran fatica, in realtà, a vivere a Parigi, e se sembra che i parigini si divertano in maniera speciale è perché devono mostrare a se stessi e agli altri che si è trattato di un buon investimento, e tutta quella fatica di vivere nel centro di qualcosa ha dato, alla fine, i suoi frutti. I parigini amano mostrare agli altri parigini che si stanno divertendo un mondo, per questo invece di farsi gli affari loro, nei caffè, dando le spalle al monotono e fastidioso andirivieni dei passanti, si mettono alla terrasse, con le seggiole schierate verso la strada, come se sul marciapiede di fronte stesse per cominciare uno spettacolo raro e di straordinario interesse. In realtà, essi devono innanzitutto mostrare ai passanti che sono seduti a non fare nulla, e che quel non fare nulla è allietato da un sorsare indolente birra, caffè, o vino rosso in calice, mentre il passante, è evidente, sta camminando veloce, è indaffarato, e ha la gola secca. Non solo, ma chi sta seduto nullafacente, seppure con i mezzi per pagarsi una consumazione al tavolo, è spesso accompagnato da un evidente o probabile partner sessuale, oppure da un amico fedele, o ancora meglio da un piccolo numero di amici fedeli e di partner sessuali probabili. In ogni caso, che sia solo o in compagnia, che beva il suo bicchiere di birra con il naso ficcato dentro un libro o uno smartphone oppure, abbandonato contro lo schienale della sedia, perlustri vagamente il panorama di fronte a lui, o ancora rida fragorosamente, o sussurri all’orecchio della sua vicina o del suo vicino qualcosa di delizioso e intimo, chi è seduto alla terrasse si sta o divertendo in modo esplicito o sta facendo qualcosa di piacevole in modo elegantemente discreto o si sta annoiando a causa del troppo tempo passato a non fare nulla, tra divertimenti espliciti e piacevolezze discrete. Testimonia di appartenere alla razza privilegiata dei parigini che, sì, fanno una vita dura, faticosa, stressata, competitiva, sovraffollata, tra freddezze e diffidenze, tra ruvidezze di relazione e assilli professionali, tra conteggi spaventati di fine mese e angosce di esclusione mondana, ma vengono poi ripagati da quegli intervalli fausti di tempo passati a guardare i propri simili dal piedistallo della terrasse di caffè. Un piedistallo che, va detto, ha una certa democratica accessibilità: con due euro e cinquanta di caffè liscio, un parigino si conquista la possibilità di non essere sloggiato per un’ora intera dal suo tavolino con seggiola.

In ogni caso, lo spazio denominato “terrazza” costituisce una vera istituzione e ogni istituzione umana non nasce mai dal puro arbitrio, ma tende a bilanciare necessità e deliberazione. La necessità riguarda, in questo caso, il bisogno del parigino, nonostante l’immane fatica della sua esistenza metropolitana persa per lo più dentro faccende di nessuna allegria, di esibire di fronte agli altri e a se stesso un intervallo più o meno lungo di divertimento e su una porzione di suolo pubblico; la deliberazione, invece, riguarda l’estensione in metri quadrati di questa porzione di suolo dedita al divertimento esibito, ossia quanta superficie di marciapiede l’esercizio commerciale – caffè, pub o ristorante – è in grado, legalmente, di occupare, piazzandoci fioriere, paraventi, tavolinetti e sedie. Il legislatore afferma, nella città di Parigi almeno, che un metro e sessanta centimetri debbono essere lasciati liberi per lo scorrimento degli indaffarati a piedi o su mezzi meccanici o elettrici, come sedie a rotelle o carrozzine mobili. Si dice, anche, che le terrasse, incluse di mobilio e avventori seduti, non devono ostacolare lo scorrimento delle acque pluviali. I diritti, quindi, d’ingombrare parte dello spazio pubblico, per comprovare universalmente l’esistenza, a Parigi, del divertimento, o della noia che l’eccessivo divertimento induce, sono di antica data, antichi probabilmente quante le rogne, le incombenze frustranti, i disagi fisici e psicologici che l’abitare in città hanno prodotto.

In ogni paese, e città, e persino villaggetto sperduto, in realtà, bisogna divertirsi, in quest’epoca che ha venduto alla sua popolazione, tra l’incredulo e lo speranzoso, la promessa di un godimento perpetuo. E riuscire a divertirsi non è impegno di poco conto. Anche a Champigny si fa qualche sforzo in questo senso. È la cittadina a quindici chilometri da Parigi dove abito, perché vivo ormai in una banlieue non chic, non ricca, anzi popolare, di ottantamila anime, sparse in quartieri decenti e indecenti, con persino delle zone graziose, di case e casette con giardini e giardinetti, e qualche villona collinare con vista sulla Marna, ma pure il quartiere triste, isolato, di torvi palazzoni popolari, dove ogni fantasia su traffici e salafismi è legittima, anche se poi altrettanto legittime sono fantasie di socievolezza, in quei luoghi poveri, perché nelle cité la gente può essere incredibilmente cordiale e rispettosa, senza manfrine ovviamente, persino se non si diverte da pazzi, mentre a Parigi la cordialità ha un costo psichico spesso eccessivo, visto l’impegno già gravoso del divertimento quotidiano. Alla fine, non so neppure se a Champigny la gente abbia molte pretese, viste anche le risorse solide ma limitate: centri commerciali, negozi di ottica, parcheggi, svariate forme di fast-food asiatico e mediorientale, e i frugali sentieri lungo le rive della Marna. Di certo, questa periferia è immune da qualsivoglia tentazione di riscatto da classe media inquieta. Ogni anche timida velleità di bobo per rendere “interessante” l’ambiente urbano trova in Champigny una sorta di opposizione tetragona. O di inerzia e svogliatezza assoluta.

In un centro metropolitano come Parigi è tutta un’altra faccenda. Nessuno può abbassare la guardia. Bisogna avere esperienza e mestiere, tenacia e capacità di sopportazione: godere – sembra strano dirlo – esige sacrificio, stoica volontà, determinazione. A volte, non è per nulla divertente divertirsi. Uno deve intanto organizzarsi un calendario di uscite che mettano in conto una molteplicità di fattori disparati: la disponibilità altrui, la disponibilità finanziaria, la disponibilità dei mezzi di trasporto, la disponibilità dei posti in platea, se si tratta di spettacoli, o ai tavoli, se si tratta di ristorazione, e poi la scelta dell’opera o del dramma teatrale o del film, così come quella del ristorante, europeo o africano o asiatico, debbono essere accurate ed efficaci, con tutto il tempo che si è perso a preparare un’uscita, perché poi se il cibo è pessimo, e il film è una troiata, uno comincia a disperare di potersi, un giorno, divertire per davvero e senza eccessivo sforzo. E quindi finisce anche col guardare con odio, chi gli fa i complimenti per vivere a Parigi, dove tutti quanti sembrano non aver altro da fare che rimestare con estrema calma lo zucchero in una tazzina di caffè, seduti a un tavolino all’aperto.

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[Testo apparso sul n° 35 del periodico Foucus In.]

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