“ Tutto quel che si dice su Céline, sono dei graffiti su un muro. Ma l’edificio è là, in piedi. Per sempre.”
Ottimismo, irredentismo e interventismo.
Siamo agli inizi del Novecento, è con questi ingredienti che l’Europa spalanca le porte all’inferno.
Nel 1914, tra l’ingenua frenesia di un’ampia fetta della popolazione europea scoppia la Grande Guerra, l’innesco partito dal casus belli di Sarajevo darà il via ad un’enorme metastasi di sangue e distruzione. Dal Portogallo alla Russia si crepava a suon di trombe, malamente, baïonnette à la charge, verso la sporca mattanza in trincea. Morirono svariati milioni di persone. Montagne di cadaveri, uomini trucidati da raffiche, avvelenati dai gas e, per la prima volta, deflagrati… ridotti a niente.
Fu una psicosi bellica, 17 milioni di esseri umani in una manciata d’anni, la sola Francia perse 3 uomini su 5 di quelli in armi. La conseguenza di questa enorme perdita umana comportò per la Francia un pesante svuotamento delle città e delle campagne francesi. Venne a mancare la forza lavoro per rimettere in moto il paese. Il governo francese improvvisò un rimedio consentendo l’apertura delle frontiere ad un altissimo numero di immigrati stranieri.
Il Dopoguerra arrivò con tutti i suoi conti da pagare. Ebbe inizio un periodo di forti tensioni, in Francia (così come in Italia) si venne a creare una perenne situazione di continua precarietà governativa, nessuna stabilità; i capi di stato si susseguivano uno dietro l’altro e i governi non riuscivano a durare una stagione. Il tutto accompagnato da sanguinosi scontri in piazza tra destre e sinistre. È in questo contesto di caos e malcontento che presero piede sentimenti di forte intolleranza, in poco tempo questi degenerarono in manifestazioni di razzismo. A pagare il maggior prezzo furono, come al solito, gli ebrei che detenevano e gestivano il denaro. Nulla di nuovo. Un comportamento analogo i francesi lo ebbero anche con quei banchieri italiani che nel XVI secolo si recarono nelle grandi città francesi (Parigi, Lione, Bordeaux, Tolosa etc…) per i loro interessi monetari e mercantili legati alla vendita della preziosa seta, questi dinamiche stravolsero completamente l’economia del “bel giardino di Francia” e portarono forti motti anti-italiani da parte della popolazione francese.
È così che, dopo la Prima Guerra Mondiale e senza aver digerito completamente l’Affare Dreyfus, tutta la Francia si schiera contro gli ebrei. L’antisemitismo è pane quotidiano, esso dilaga alla luce del giorno tra piazze e salotti, sulle colonne dei giornali e nelle chiacchiere di quartiere.
È in questo contesto che s’inserisce la penna di Louis Ferdinand Auguste Destouches, in arte semplicemente Céline. Parigino, ex corazziere del 12° Reggimento Cavalleria, ferito gravemente sul fronte di Poelkapelle (Fiandre Occidentali), riconosciuto invalito al 75%, congedato e medagliato nel 1915 con la Croce di Guerra, stella d’Argento per il valor militare. Ora medico degli ultimi e scrittore forsennato.
Con questo bel curriculum il Nostro si colloca esattamente nel suddetto contesto post-bellico di instabilità generale, caratterizzato da odio diffuso e malcontento per i risultati della guerra (confini continentali e perdita delle colonie). Céline raccoglie tutte queste istanze e le mette alla berlina per palesarle al mondo. La sua figura di scrittore incarna precisamente il concetto artudiano dell’artista, ovvero una figura cristologica che si assume sul groppone il fardello delle insofferenze generali che affiggono i propri tempi. Scrive Antonine Artaud:
«l’arte ha il dovere sociale di dare sfogo alle angosce della propria epoca. L’artista che non ha colto nel fondo del suo cuore il cuore della propria epoca, l’artista che ignora d’essere un capro espiatorio, e che il suo dovere è quello di calamitare, di attirare, di far ricadere su di lui le collere erranti dell’epoca per scaricarla del suo malessere psicologico, non è un artista».
Céline si espone senza ipocrisie, si scaglia a viso aperto, senza remore o sotterfugi, sceglie la figura dell’ebreo come nemico pubblico perché, infondo, tutti utilizzavano l’ebreo come valvola di sfogo alle loro più o meno recòndite nevrosi. Piano piano, preso dal suo vorticoso narcisismo, abbandonerà pure il la sua gente, il popolo che, dopo il Quarantacinque; finiti i processi, le epurazioni e le esecuzioni sommarie, prenderà il potere (GPRF). Il popolo è re e il re lo monta. A questo punto tutto ciò che non è Céline è ebreo, quindi tutto il mondo è ebreo. E se tutto il mondo è contro Celine, tutto il mondo è inevitabilmente ebreo.
Un percorso di lucida e calcolata autodistruzione che culminerà con il volontario esilio nella casa di Meudon, arroccata sulle colline di Versailles. Lucette, la moglie, racconta che la sua era una danza macabra, provava una felicità sinistra nel vedere il popolo di Parigi covare così tanto odio nei suoi confronti. Le sue saette letterarie, i suoi pamphlet caricati ad odio e rancore, venivano respinti persino dai Nazisti. Questi scritti al cianuro erano tutto ciò che gli restava per difendersi da maldicenze, accuse e ingiurie. Erano i suoi missili sparati in orbita da Meudon verso le anse della Senna. Ma c’era un metodo in tutto questo, un piano ben studiato ovvero che -come scrisse a un amico- per far sì che venisse ascoltato doveva faîre le pitre, esagerare, fare il buffone, spostare l’asse politico.
I suoi scritti risultavano imbarazzanti, sconci, esagerati e colmi di «un’ironia idiota, tutta prettamente francese, intimamente gallica», direbbe Sanavio. La sua era una dichiarazione di guerra a tutto ciò che sconfinava dal suo incolto giardino, recintato alla buona e sorvegliato notte e giorno dal suo branco di cani neri.
“Niente in questo mondo maledetto è limpido e giusto, tranne l’infamia aperta e senza vergogna” William Shakespeare
In letteratura e nell’arte una situazione del genere non è nuova, si è verificata numerose volte, ad esempio con lo scrittore irlandese Jonathan Swift (non solo I Viaggi di Gulliver ma anche il phamplet dove mette nero su bianco i consigli da dispensare ai servi su come sabotare il padrone), o il Marchese De Sade e tutto quel suo sistema filosofico di sovverchiamento del potere che emerge dalla sua opera. Mentre in pittura un esempio palese lo troviamo con Goya e le sue efferate caricature di sovrani e governanti. Questi personaggi hanno lavorato profondamente per la sovversione, per il sabotaggio e per il capovolgimento dell’ordine costituito. Tale attacco al potere, eseguito in maniera raffinata e precisa – direi quasi chirurgica – può essere effettuato solo da coloro che ben conoscono gli ingranaggi della macchina e sanno quali meccanismi sensibili andare a disturbare. La grammatica di chi conosce il potere e quella di chi sa come avvicinarsi al potere. Questo processo risulta essere un affronto imperdonabile per i reggenti! La dichiarazione di guerra di Céline si manifesta nella sua invenzione letteraria, nella sua ricerca di frantumazione del linguaggio, nella detonazione dei nessi linguistici e della parola, alla ricerca di un veicolo espressivo che superi le rigidità sintattiche e grammaticali di quelli che, con approssimazione, possiamo definire i “codici di Port-Royal”, identificati da lui come la lingua del Potere.
Volendo definire in poche parole la letteratura antagonista si potrebbe sostenere che essa sia tutta quella letteratura che utilizza lo stesso linguaggio del potere per attaccare il potere stesso, oppure, al contrario, lo faccia esplodere dal di dentro; sia esso un potere dittatoriale, monarchico, religioso, laico ma anche, e soprattutto, democratico. È giusto ricordare che Ezra Pound il poeta perseguitato par exellence, scrisse e sviluppò il proprio pensiero nel cuore di tre democrazie, quella americana, quella britannica e quella francese. Quando approda nell’Italia dell’ “infausto ventennio” la sua opera è già formata, nulla di nuovo, né in senso ideologico né in senso formale, nella produzione che seguirà. Dal canto suo, Céline scrive i suoi testi più importanti, il Voyage e Mort à Crédit e conosce i primi successi nel periodo del Front-populaire.
Il pretesto di Céline sono gli ebrei (non quelli poveri ovviamente), mal visti da tutti i suoi connazionali, nell’identica maniera con cui erano avversati gli italiani nel Cinquecento. Questo perché, fondamentalmente, portavano il nuovo. Portavano un’economia nuova che distruggeva o stravolgeva l’economia locale, rurale, tradizionale francese.
L’economia francese ha da sempre fondato la sua forza sulla terra. Qui bisogna aprire una parentesi sul forte legame simbolico che lega il popolo di Francia alla terra, un elemento che da sempre ha caratterizzato i cugini d’Oltralpe. Per essere francesi bisognava appartenere al territoire, bisognava avere dei parenti morti in Francia, per la Francia. Sono i morti che danno il sangue alla terra, è il sangue degli uomini di Francia la linfa generatrice, il collante sacro che lega gli uomini alla loro nazione, sono i propri morti che fanno di un cittadino un “francese”. Céline credeva fermamente in questa triade: la terra, il sangue e i morti. In una parola: la patria. C’è sempre stato un atavico patto tra uomini e territorio (racchiuso nella forma di Stato), oggi nell’epoca del melting pot globale ci si scorda dell’esistenza di questo antico legame, di questo sodalizio sorto all’alba dei tempi. Il punto è che se questo patto viene – per una qualche ragione – infranto risulta poi nulla qualsiasi obbligazione del contraente tradito. Se quindi lo Stato tradisce l’interesse dei cittadini essi possono scegliere di rivendicare l’accaduto con qualsiasi mezzo anche con la violenza, oppure lasciar perdere, ma al caro prezzo della loro stessa estinzione. Ovvero la loro ragion d’essere. I popoli e le nazioni muoiono a seguito di un’infrazione di questo patto. Secondo quest’ottica la Francia è morta (senza più possibilità di risurrezione) nel 1918, è su questa lapide che Louis-Ferdinand Céline incide con le unghie le sue apocalittiche profezie.
Ormai imporranno il silenzio ai poeti. Diventeranno dei segnali. Nessuno di loro sentirà più la viva verità né l’esprimerà, eccetto che clandestinamente. La società è diventata più stupida che mai. Gli alberi faranno cascare le loro fronde sull’indifferenza. Ma se un giorno nascerà uno scrittore dovrà obbligatorimente opporsi ad ogni forma di potere.
Dominique de Roux, in La Morte di Céline
PS: queste mie righe devono tutto (o quasi) alla recente fortuna di aver incrociato nel mio cammino un uomo enorme: Piero Sanavio.
La sua onestá intellettuale e la sua appassionata dedizione verso lo studio delle meccaniche letterarie del Novecento si pongono al di sopra di ogni schieramento ideologico. La poesia prima di tutto. La poesia su tutto.