Il 19 settembre si è inaugurata presso la Fondazione Nomas di Roma la mostra Sergei Eisenstein: The Anthropology of Rhythm | Sergej Ėjzenštejn: l’antropologia del ritmo. Numerosi documenti provenienti dagli archivi di Ėjzenštejn – Archivio di Stato Russo di Letteratura e Arti (RGALI) e Fondazione Nazionale Cinematografica della Federazione Russa (Gosfilmofond) –, inclusi diari, disegni, film e fotografie, sono esposti per la prima volta. L’esposizione, curata dalle storiche dell’arte e del cinema Marie Rebecchi e Elena Vogman, in collaborazione con l’artista e grafico Till Gathmann, sarà visitabile fino al 19 gennaio 2018.
Pubblichiamo di seguito la traduzione di un estratto dall’introduzione al volume Sergei Eisenstein and the Anthropology of Rhythm, pubblicato da NERO, Roma. Ringraziamo l’editore per la gentile concessione.
“Dalla povertà, la poesia; dalla sofferenza, la canzone”. Questo è il modo in cui l’antropologa e scrittrice Anita Brenner descrive le origini del corrido, la ballata messicana. Letteralmente “evento del tempo”, il corrido è un genere poetico anonimo che mette in musica la lamentazione del giorno. Raccontando un evento politico o personale, una catastrofe o un brutto sogno, i corridos prestano il ritmo ai dolori della vita, tanto “per i servitori, che li mormorano mentre lavano i piatti o mettono i bambini a letto, che per i conduttori di muli, che li cantano alle loro carovane”.
La necessità del ritmo ha a che fare con il suo potere di trasformazione. È un medium del cambiamento; costituisce una transizione dalla paura alla gioia, dalla noia alla consapevolezza, da un semplice movimento a una coreografia o una danza. Per questo motivo, come sottolinea Brenner, una raccolta di corridos è uno “specchio del popolo messicano più autentico di qualunque testo sia stato scritto”. Trasforma “una casuale categoria giornalistica” in un evento politico.
Nella sua qualità antropologica di esperienza che organizza il mondo, il ritmo è un veicolo di rivoluzione. Hannah Arendt ha indicato la tensione costitutiva che anima i due significati opposti della parola “rivoluzione” (On Revolution, 1963). Derivato originariamente dal contesto astronomico, in cui designava un movimento ciclico e regolare delle stelle, il termine “rivoluzione” in tempi moderni è giunto a definire il rovesciamento storico di un dato ordine politico, attuato dagli uomini e non dal cosmo o dalla Provvidenza.
Cosa ha in comune il movimento fisico e coreografico del “voltarsi” con il cambiamento sociale e politico di una determinata situazione? Come partecipa il ritmo a questo cambiamento?
Questo libro propone di esplorare l’intreccio tra la dimensione estetica, antropologica e politica, in tre progetti cinematografici incompiuti di Sergej Ėjzenštejn (Riga, 1898 – Mosca, 1948), il regista passato alla storia come autore paradigmatico del cinema rivoluzionario sovietico. C’è però un altro volto in questa figura simile a quella di Giano, quello dei molti progetti di film incompiuti e delle grandi opere teoriche rimaste inedite e perlopiù sconosciute durante la sua vita (e in una certa misura ancora oggi). È questo corpus ancora non esplorato che costituisce la materia del presente libro. Focalizzandosi in particolare sull’antropologia del ritmo nel “film messicano” di Ėjzenštejn (1931-1932), il libro ritrova questo stesso filo conduttore in altri due progetti non finiti: il film (distrutto) Il prato di Bežin (1935-37) e Il canale di Fergana (1939), interrotto ancor prima dell’inizio delle riprese.
Il ritmo e l’antropologia sono strettamente connessi. I ritmi biologici e meccanici, regolari e irregolari, non sono semplici aspetti formali, estetici o temporali dell’esperienza, ma possono rivelarsi gli strumenti stessi di un’antropologia. Seguendo sia i percorsi estetici che quelli epistemologici indicati da questa ipotesi, il libro mira a ricostruire il metodo antropologico di Ėjzenštejn attraverso una serie di materiali d’archivio: disegni, diari, film. Ponendo il metodo di Ėjzenštejn in una costellazione situata tra l’estetica del Surrealismo eterodosso in cui si riconoscono i collaboratori della rivista francese Documents (1929-1930), da un lato, e la visione antropologica del Messico post-rivoluzionario dall’altro, esso esplora la paradigmatica esperienza moderna del guardare l’alterità in faccia.
Concentrandosi sulla rappresentazione della gente comune, in particolare sull’intensa e sorprendente varietà dei modi in cui Ėjzenštejn ha filmato i volti umani, i materiali presentati in questo libro illuminano aspetti documentari ed etnografici finora sconosciuti della sua opera. Nelle immagini del Messico, così come in quelle dei suoi progetti di film antropologicamente orientati in Ucraina e Uzbekistan, Ėjzenštejn mette in gioco i due significati di “rivoluzione” evocati da Arendt. Qui percepiamo le relazioni emergenti della storia tra ripetizione e irruzione, ritorno e rivolta, tra un singolo destino – un corpo o un gesto – e la narrazione sociale e politica che ne costituisce lo sfondo. Ognuno di questi progetti cinematografici inaugura un nuovo e singolare approccio cinematografico, pur condividendo tutti un comune modello archeologico di storia e un’analoga costruzione antropologica dello sguardo.
Filmando i volti di profilo, allontanandoli dalla messa a fuoco della macchina da presa, ruotandoli in una danza estatica o dissolvendo la loro visibilità dietro una maschera, Ėjzenštejn fa sì che i volti umani sfidino il paradigma fisiognomico, criminale o razziale dominante. Queste immagini aprono uno spettro concreto di possibili metamorfosi che superano ogni identificazione fissa. Essi disfano criticamente la nozione statica di figura umana, trasformandola in una ritmica molteplicità di se stessa, smembrando e decentrando la sua unità.
Questa intensa, animalistica o persino cannibalistica concezione della mimesis ha origine in un’apertura antropologica a una storia della cultura che incorpora gli estremi delle sue manifestazioni sociali e religiose. Nelle immagini e nei diari messicani di Ėjzenštejn – di cui alcune parti inedite sono state tradotte in questo libro (da Natalie Ryabchikova) – il ritmo diventa un potente strumento mimetico di trasformazione. […]
Elementi per una “antropologia non specialistica”
Qual è il rischio epistemologico di questa esperienza antropologica e come può entrare in rapporto con altri modi d’indagare le formazioni culturali? Un interessante parallelo lo si ritrova nel campo della psicoanalisi. Nel suo testo Il problema dell’analisi condotta da non medici (1926), Sigmund Freud solleva la questione dell’autorità dell’analista rispetto al suo paziente e, di conseguenza, del terreno epistemologico della psicoanalisi in quanto “scienza”.
Questa domanda “pratica” porta Freud a distinguere le condizioni della psicoanalisi da quelle del trattamento medico.
Noi non desideriamo affatto che la psicoanalisi venga inghiottita dalla medicina e finisca col trovar posto nei trattati di psichiatria, al capitolo terapia, fra quegli altri procedimenti – come la suggestione ipnotica, l’autosuggestione e la persuasione […]. In quanto “psicologia del profondo”, o dottrina dell’inconscio psichico, può divenire indispensabile per tutte le scienze che studiano la storia delle origini della civiltà umana e delle sue grandi istituzioni, come l’arte, la religione e l’organizzazione sociale. Penso che abbia già offerto a queste scienze un aiuto considerevole per la soluzione dei loro problemi, ma si tratta solo di contributi minimi in confronto a quelli che si potranno ottenere quando gli storici, gli psicologi delle religioni, i glottologi ecc., saranno messi in condizione di servirsi essi stessi del nuovo strumento di ricerca posto a loro disposizione. L’uso terapeutico dell’analisi è soltanto una delle sue applicazioni, e l’avvenire dimostrerà forse che non è la più importante.
La teoria dell’“inconscio mentale” non può essere ridotta al soggetto di una psiche individuale perché si riferisce alla cultura nel suo complesso. Allo stesso tempo, la situazione analitica non è solo una questione di relazione tra analista e paziente. L’inconscio comporta una temporalità più complessa: un processo dove ordini individuali e sociali, esperienze singole e collettive, sono intimamente connesse.
Nella difesa dell’analisi dei “non medici”, Freud si rivolge all’inesauribile potenziale dell’inconscio; proprio per questo motivo, l’analista non sarà mai legittimato o qualificato dalla psicoanalisi in sé. Aprendo questa breccia epistemologica, Freud si concentra sulla processo di transfert, dove i “requisiti della tecnica analitica raggiungono il loro massimo”. Secondo Freud, il processo analitico si basa sulla meccanica e ritmica “riproduzione” dell’esperienza rimossa piuttosto che sulla memoria. L’impegno stesso dell’analista con il transfert potenziale tra sé e il paziente implica l’affrontare questo flusso inconscio.
Le esperienze di Ėjzenštejn in Messico potrebbero essere descritte nel segno di una “antropologia non specialistica”, basata sullo stesso terreno epistemologico evocato da Freud: la pratica di un discorso non professionale, vernacolare, non garantito da alcuna autorità istituzionale o da una conoscenza della disciplina antropologica. […]
Lo sguardo antropologico di Ėjzenštejn compie così non solo un passo oltre i confini della disciplina, ma un movimento più audace oltre il proprio terreno intellettuale, politico e culturale, esponendosi al suo “oggetto epistemologico” con una prossimità che sfuma nell’identificazione. Questo contatto fisico, che implica un processo immanente di transfert e controtransfert, influisce chiaramente sui modi e sui metodi della sua antropologia. “Il cannibalismo – leggiamo nel diario messicano di Ėjzenštejn – deve essere incluso nel novero delle pratiche di imitazione (identificazione)”. Mentre il concetto aristotelico di mimesis sottolinea la distinzione dell’imitazione dal suo modello, ciò che Ėjzenštejn ha chiamato la modalità “cannibalistica” della mimesi elimina la distanza tra queste polarità: sussume la differenza attraverso il consumo e la trasformazione.
Seguendo questa logica, Ėjzenštejn afferma, sempre nelle pagine del suo diario, che “una carezza gentile è un pugno al rallentatore (il sadismo è solo uno stadio nel tempo e nell’intensità del colpo […] il divorare rimane in amore solo in forma di morso e di bacio)”. Una simile pulsazione ritmica tra polarità opposte – che rievoca il saggio di Freud Il significato opposto delle parole primordiali (Gegensinn der Urworte) o il concetto di “inversione energetica” di Warburg nelle espressioni estreme del pathos – può essere vista come una manifestazione antropologica dello spettro degli spostamenti nel processo di transfert.
Anche se Ėjzenštejn non poté mai montare il suo film messicano, possiamo scorgere nelle sue scelte estetiche un montaggio immanente al film. Questo è il caso del movimento del voltare la testa: vediamo volti mascherati e senza maschera, balli cristiani e pagani, volti contemporanei sovrapposti alle rovine monumentali delle culture Azteca e Maya. Il tentativo di trovare un modello euristico – una melodia – nel materiale messicano ha dato origine a una vera e propria antropologia del ritmo. […]
Al di là della semplice metafora dell’inversione dei rapporti di potere, il corpo “in rotazione” fornisce a Ėjzenštejn uno strumento formale per lo spostamento della prospettiva: nel gesto di voltarsi, la figura si ricollega al suo sfondo in una reciproca trasformazione plastica. In queste sabbie mobili visive, la relazione tra il primo piano e lo sfondo viene messa in movimento. Non è né nella frontalità né nel profilo, ma piuttosto nella mobilitazione metamorfica del volto che Ėjzenštejn individua il potenziale politico e sociale di ciò che viene portato a visibilità.
In Messico, mentre porta avanti il suo progetto politicamente orientato con attori non professionisti, Ėjzenštejn approfondisce la pratica del tipazh (cioè l’apparenza tipica, rappresentativa di una classe sociale) proprio in direzione di un’antropologia visiva sperimentale. Egli trasforma i volti messicani in paesaggi astratti, rivelando paradossalmente la crudeltà della storia del paese e della sua gente. Girando i volti di profilo, e poi nuovamente di fronte, scopre le differenze morfologiche tra i diversi strati di storia: i legami tra il Messico moderno e le rovine delle culture arcaiche Azteca e Maya; il sincretismo tra rituali e tradizioni pagane e cristiane.
Marie Rebecchi / Elena Vogman (in collaborazione con Till Gathmann),
Sergei Eisenstein and the Anthropology of Rhythm.
128 pp., 340 immagini, parzialmente a colori.
Pubblicato da NERO, Roma, 2017