Fratelli miei, dovete prendervi delle schiave. Quando ho rapito le ragazze di quella scuola siete rimasti perplessi. Ma io vi dico che dobbiamo impedire all’istruzione occidentale di diffondersi. Ho rapito quelle ragazze. Le venderò al mercato con l’aiuto di Allah. Esiste un mercato in cui si possono vendere le persone. È Allah a dire che devo venderle. Mi ha ordinato di venderle. Venderò delle donne. Io vendo le donne.
Abubakar Shekau, aprile 2014
Nei video in cui comunica con gli adepti e con il resto del mondo, Abubakar Shekau appare in divisa e si lascia andare di tanto in tanto a ghigni soddisfatti per sottolineare l’imprevedibilità e la ferocia del suo prossimo attacco. Un po’ leader militare e un po’ stregone, il capo di Boko haram, l’organizzazione terroristica africana che negli ultimi anni ha fatto più vittime del gruppo Stato islamico (Is), è subentrato nel 2009 al fondatore Mohammed Yusuf e oggi esorta apertamente alla riduzione in schiavitù e allo stupro come arma necessaria di islamizzazione e conquista del potere: le donne non possono essere libere, sono il mezzo per riprodurre e generare nuovi adepti. Non possono amare, vivere, lavorare e soprattutto non devono studiare.
Nella notte fra il 14 e il 15 aprile 2014 un commando ha rapito 276 studentesse da una scuola di Chibok, in Nigeria, e l’occidente è stato costretto a occuparsi di una realtà che, per quanto distante e confusa, non poteva più essere ignorata. Si è diffuso allora un hashtag, #bringbackourgirls, che anche grazie all’intervento di Michelle Obama e del premio Nobel Malala Yousafzai, per qualche tempo ha reso le ragazze rapite oggetto di interesse mediatico. Ma poi le loro storie sono tornate estranee e il loro destino qualcosa su cui nessun appello aveva possibilità di incidere, mentre le notizie diventavano sempre più lacunose e sporadiche. Non c’è chiarezza neppure su quante siano le prigioniere di Boko haram, ma si ragiona in termini di migliaia. Il luogo dove sono tenute in ostaggio è la foresta di Sambisa.
Mai in salvo
Il giornalista tedesco Wolfgang Bauer è andato in Nigeria, ha incontrato alcune delle giovani che sono riuscite a fuggire e ha raccontato le loro storie in un libro, Le ragazze rapite, tradotto in Italia da Angela Ricci per la Nuova frontiera. Le foto che ritraggono Rabi, Talatu, Clara, Mairo e le altre sono di Andy Spira e i loro sguardi bucano il cuore: sono studentesse, commercianti, contadine, bambine, ragazze, tutte hanno subìto violenza e molte sono tornate incinte del loro carceriere. Durante la prigionia hanno visto le altre venire violentate e uccise oppure sparire nel nulla. Sono state picchiate e costrette a sposare un terrorista con un rito a cui nemmeno erano invitate a prendere parte, perché il matrimonio era un fatto che non le riguardava.
Anche dopo essere riuscite a scappare, le donne intervistate da Bauer non sono davvero in salvo. Non vivono più nella foresta, ma hanno bisogno di essere protette perché spesso vengono rifiutate o cacciate dalle famiglie o dai villaggi a cui si avvicinano per chiedere aiuto. Né i cristiani né i musulmani vogliono avere a che fare con loro perché proteggerle significa consegnarsi alla possibilità di una razzia imminente. Per molte è più sicuro non fermarsi a lungo nello stesso posto; per tutte riprendere la quotidianità è impossibile, anche per le poche i cui mariti o familiari sono ancora vivi.
“L’unica cosa che mi è rimasta è il mio nome”, dice Sadiya. “Tutto il resto me l’hanno portato via. Adesso sono un’altra. Lo sento. Sono qualcuno che non riconosco”. E Sakinah: “Io non mi sento più la stessa. Ho difficoltà a concentrarmi. Ho paura degli spazi aperti, per esempio le piazze molto grandi e le strade ampie. E di notte faccio sempre degli incubi, sogno spesso che Shekau mi stia seguendo”. C’è Ummi che, a dieci anni, non aveva ancora il seno ed era stata costretta a indossare il niqab e data in sposa a un terrorista. C’è la ragazza spaventata perché sospettava che il marito che avevano scelto per lei avesse l’hiv. Ce ne sono decine, centinaia, che hanno detto a qualcun’altra “per favore, saluta mia madre” e non sono più tornate.
La foresta di Sambisa è la più antica della Nigeria, ha alberi bassi e anonimi, il terreno è attraversato da radici e acquitrini paludosi. Si dice che sia stregata da una maledizione. Vi si accede attraverso cinque ingressi, oggi tutti controllati da Boko haram. È lì che le donne vengono portate e torturate, separate dai figli maschi e rinchiuse in case dove ogni tanto qualcuno va a dar loro da mangiare o a portarle a lezione di Corano. Se sbagliano vengono picchiate sulle mani, non possono leggere né studiare altro, le loro insegnanti sono prigioniere a loro volta.
Nel 2014, l’anno in cui le studentesse sono state rapite, l’economia nigeriana ha superato quella sudafricana
La strada che porta alla foresta è una statale, la A13, costruita negli anni ottanta, ai bordi si affacciano villaggi ingranditi, resti di eruzioni vulcaniche, spuntoni di rocce. È la strada che ha aperto la Nigeria al commercio, quella su cui hanno viaggiato medici e insegnanti, l’arteria che ha contribuito al miglioramento del paese. Grazie alla diffusione dei concimi chimici e grazie a Nollywood, l’industria del cinema che produce più film di Bollywood, nel 2014 l’economia nigeriana ha superato quella sudafricana. È lo stesso anno in cui le studentesse sono state rapite, mentre si moltiplicavano gli scontri tra Boko haram e i carri armati.
Questa è solo una delle contraddizioni di un paese che su 190 milioni di abitanti conta 514 gruppi etnici, per metà cristiani e per metà musulmani. L’economia cresce, lo stato s’indebolisce, il terrorismo si rafforza: questa spirale, spiega Bauer, rende il paese difficilissimo da aiutare. I villaggi sostenuti apertamente da organizzazioni di soccorso tramite l’acquisto di sementi e concimi diventano centri di circolazione del denaro, quindi luoghi da depredare e distruggere.
Finora nessuna delle risposte militari per fermare Boko haram ha funzionato, a partire dall’uccisione di Yusuf, il fondatore. Era il 2009 e, anzi, per effetto di quello che fu raccontato come un martirio, la confusa e violenta setta religiosa ha moltiplicato gli adepti iniziando a trasformarsi nell’organizzazione terrorista con cui oggi dobbiamo fare i conti. Non possiamo sentirci lontani da quello che avviene in una foresta africana di cui non avevamo mai sentito parlare prima, perché, come ricorda Bauer:
Per un sacco di tempo abbiamo creduto di poter prendere le distanze dalle stragi siriane. Che ci importa dei problemi della Siria? Adesso la guerra civile siriana è diventata una questione che interessa anche al sindaco di qualunque minuscolo paesino della Germania. Per i politici locali le decisioni del governo di Damasco hanno ripercussioni forse più gravi delle delibere di Berlino.
È l’effetto imprevisto di un mondo in cui le distanze si sono rimpicciolite. Molti europei non sanno neppure dov’è la Nigeria, come fino a qualche tempo fa non sapevano dove fosse la Siria. Un libro non è nulla rispetto all’onda lunga di esplosioni che ci toccherà in tempi e modi che non sappiamo prevedere, ma possiamo aprire gli occhi e conoscere storie che ci riguarderanno, perché ci riguardano già.