La morte dell’autore: espressione coniata cinquant’anni fa da Roland Barthes, assai discussa da studiosi di letteratura, critici, semiologi, filosofi, ma ormai usurata, stanca, fortemente indebolita dal tempo e dall’età. Per Barthes, si sa, “non appena comincia a scrivere, l’autore entra nella propria morte”. L’atto di scrittura, abolendo ogni idea di soggetto individuale, di genio creatore e, con ciò, di proprietà dell’opera, afferma piuttosto la persona linguistica, la soggettività come effetto di senso del testo. Se io è sempre e soltanto chi dice “io”, autore è chi, alla fine, l’opera decide di eleggere come tale, con tutte le finzioni e le credenze del caso. Da Mallarmé a Proust, da Blanchot a Benveniste, è tutto un recitare inni funebri, peraltro euforici, verso ogni residuo di romanticismo, ogni ingenua volontà d’espressione di sé. Ma l’autore ha comunque trovato un suo strenuo rifugio, dove la tragedia, comme il faut, si fa farsa: è quello dei media, mai stanchi di vendere eroi per un giorno, figli illegittimi di geni-brand un tanto al chilo. La televisione, il cinema, la letteratura, i giornali, il web sono strabordanti di autori d’ogni ordine e grado, geni ipercompresi che sfornano narrazioni di risulta, pronte ad appassionare pubblici blasé in blando deliquio.

 

E poi? Ognuno per la sua strada: scrittori e scriventi, lettori e leggenti, opere e operazioni? Certamente: tutto è in fumo. Fino a che, per ironia della storia, grazie a un avvitamento di centottanta gradi, la metafora torna a esser presa alla lettera: e l’autore muore per davvero.

Sto parlando, sarà già chiaro, di Umberto Eco, che autore era in tutti i sensi e a tutti gli effetti, scomparso da quasi due anni lasciando un vuoto che si fa (vana?) fatica a colmare. Come pure a intravedere per intero. Talento dal multiforme ingegno, Eco è stato semiologo e scrittore, giornalista e filosofo, estetologo e massmediologo, editore e docente universitario, opinionista e barzellettiere, enigmista e bibliofilo, nonché, soprattutto, uomo del suo tempo, un tempo e una storia che ha attraversato senza stare a guardare, cercando di capire e far capire, di interpretare e descrivere. Eccellendo in ognuno di questi campi. Difficile tener separate tutte queste attività – e altre che mi staranno in questo momento sfuggendo (sì, certo, eccone alcune: la televisione, la politica, la scuola…) –, come se si trattasse di un mosaico di tessere giustapposte a casaccio.

Quel che ci ha insegnato è piuttosto il contrario: a costruire relazioni, istituire collegamenti, edificare strutture, aprendo opere e costruendo mondi possibili, scompigliando le carte e ridistribuendole in altro modo. Se c’è un senso ancora possibile della parola ‘autore’ – tale per cui siamo qui, ancora chissà per quanto, a piangerne la dipartita – sta proprio in questa volontà di completezza, in questa rinuncia alla settorializzazione, in questo gioco a rimpiattino che non ha origine né fine se non quello, evidente e insieme basilare, di mimare il dinamismo intrinseco della cultura umana e sociale.

Claudio Paolucci, tra i suoi ultimi allievi a Bologna, cimentandosi con l’ardua impresa di disegnarne un ritratto a tutto tondo (Umberto Eco fra Ordine e Avventura, Feltrinelli, pp. 239, € 16), scrive giustamente che Eco non era un esperto ma un enciclopedista, non era “l’uomo che sapeva tutto”, come qualcuno ha voluto caricaturizzare, ma un intellettuale che sapeva, se del caso, come fare a sapere – e a far sapere. Laddove l’esperto è l’erudito fine a se stesso (che, nota Paolucci, tanto piaceva a Mike Bongiorno), l’enciclopedista tende a mappare le conoscenze altrui per costruirne di nuove. L’essere enciclopedico, per Eco, non significa andare in cerca della Summa filosofica ideale, come faceva il suo amato Tommaso, né ricostruire un albero sedicente logico delle scienze, alla Diderot e D’Alembert; vuol dire semmai restituire la complessità dei saperi e la loro contraddittorietà, alla maniera del rizoma di Deleuze e Guattari. Nessun ordine senza avventura, insomma, e viceversa.

Gran parte del libro di Paolucci cerca di intendere il senso profondo di quella che ai più è apparsa come la doppia anima della scrittura di Umberto Eco: da una parte quella del saggista, dall’altra quella del romanziere. “Tutto ciò su cui non si può teorizzare, si deve narrare”, diceva la quarta di copertina del Nome della rosa, suo primo romanzo, facendo il verso alla chiusa del Tractatus di Wittgenstein. E Paolucci spinge parecchio il pedale su questa idea, ponendo gli scritti teorici come Lector in fabula o I limiti dell’interpretazione dal lato del ‘dire’ e i romanzi come Il Pendolo di Foucault o L’isola del giorno prima dal lato del ‘mostrare’. Basti pensare alla problematica per eccellenza della filosofia, quella della Verità, che Eco risolve a suo modo giocando di sponda fra scrittura letteraria e saggistica semiotica: “Gli universi narrativi – leggiamo in un suo saggio poco noto del 2004 – ci promettono una nozione di verità che è confortevole e sicura; il mondo invece non lo fa. Per questo siamo portati a interpretare il mondo come se fosse una grande storia, al fine di trovarci una qualche coerenza. (…)

Il mondo non è un parametro in funzione del quale giudicare gli universi narrativi; sono gli universi narrativi a essere il parametro che ci consente di giudicare le nostre interpretazioni del mondo”. Altro che banale storytelling come surrettizia emanazione di fake news! Da qui, piuttosto, la tesi filosofica centrale del libro di Paolucci, secondo la quale in Eco la narrazione funziona da schema intermedio fra l’ordine delle idee e l’ordine delle cose. Che non è affermazione da poco. E andrà discussa.

Nel frattempo, appare più che opportuna la scelta della casa editrice La nave di Teseo di intitolare il primo libro postumo del celebre semiologo – raccolta delle sue lezioni annuali al festival “La Milanesiana” – Sulle spalle di giganti (pp. 444, € 25). Dove ovviamente siamo innanzitutto noi, suoi avidi lettori da sempre, a sentirci come nani che aspirano a salire, non senza fatica, sul dorso di cotanto colosso. Il libro è una bella sintesi delle principali questioni che hanno interessato la riflessione-narrazione di Eco: la bellezza e la bruttezza, il nesso fra relativismo e assolutezza, l’imperfezione artistica, la forza del falso, il segreto, il complottismo, la rappresentazione del sacro. Ottimo strumento per ricominciare a percorrere in lungo e in largo, tra ordine e avventura, il labirinto della sua opera enciclopedica.

Nel primo capitolo del libro, sicuramente uno dei più belli, si ricostruisce la storia del celebre aforisma “siamo come dei nani sulle spalle di giganti”, attribuito a Bernardo di Chartres (XII sec.) ma con radici molto più antiche ed esiti assolutamente moderni. Anzi, per certi versi, si tratta proprio dell’idea stessa di “modernità”, agitata ogni qualvolta si vuol fare innovazione distaccandosi dai canoni letterari, linguistici e financo morali della propria epoca. Ogni parricidio però, commenta Eco, ha come suo atto opposto e complementare l’assassinio dei figli: Edipo uccide Laio ma Saturno, Medea o Tieste fanno fuori, simmetricamente, la propria prole. Il conflitto fra generazioni è moneta corrente. D’altra parte, è sempre accaduto nella storia che la voglia d’andare avanti, rinnegando il lascito dei genitori, si sia attuata ricercando antenati considerati migliori: il futuro prossimo si trova nel passato remoto, di modo che ogni rivoluzione è il tentativo di ripristinare un’età dell’oro. Da qui l’idea di Bernardo: gli antichi erano persone di elevata statura, e solo stando sul loro groppone è possibile riuscire a vedere quel che loro vedevano, e forse anche un poco più in là. Trovata retorica tanto sensata quanto efficace: da una parte si riconosce umilmente un’autorità pregressa, dall’altra ci si sforza di proseguire il suo cammino, in vista dei medesimi obiettivi, magari rivisti. Tommaso era a suo modo un innovatore, ma, interrogato in merito, sosteneva di limitarsi a riprendere Agostino.

Faccenda che trascende di parecchio la lucente epoca medievale, e a poco a poco, con alterni destini, arriva fino alla contemporaneità. Newton, che non era certo un pecorone, citava spesso la frase in questione; Ortega y Gasset altrettanto; le avanguardie storiche si innamorano dell’arte africana; e Max Glukman, noto antropologo britannico, sosteneva che “scienza è qualsiasi disciplina in cui uno stupido di questa generazione può oltrepassare il punto raggiunto da un genio della generazione precedente”. La storia occidentale (e forse non solo) sembra aver perseguito insomma, osserva Eco, un’idea di progresso che, per quanto laicizzata, è fortemente cristiana. Ci si arrampica più in alto per intravedere un futuro che è già segnato in partenza, un punto d’arrivo che s’aspetta da sempre, sia esso il giudizio universale, l’utopia socialista o la wilderness degli odierni ambientalisti.

Qualche dubbio subentra con l’avvento dei media, e l’enorme accelerazione del tempo che le comunicazioni di massa, prima, e internet, poi, hanno dato al susseguirsi delle generazioni. “Tra nuove proposte ed esercizi di nostalgia la televisione rende transgenerazionali modelli come Che Guevara e Madre Teresa di Calcutta, Lady Diana e Padre Pio, Rita Hayworth, Brigitte Bardot e Julia Roberts, il virilissimo John Wayne degli anni Sessanta e il mansueto Dustin Hoffman degli anni Settanta”. È la crisi d’ogni figura paterna, la perdita di un’autorità alla quale, se del caso, ribellarsi.

La morte dell’autore trova così un ulteriore significato.

 

Il 19 novembre 2017 alle ore 21: Sulle spalle di Umberto Eco. Intervengono Natalia Aspesi, Marco Belpoliti e Vincenzo trione. Coordina Mario Andreose. Letture di Michela Cescon (Teatro Franco Parenti, Sala Grande, Via Pier Lombardo 14, Milano).

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *