«Sul palco Like a Rolling Stone poteva sembrare più lunga ogni volta che l’ascoltavi, come se la lotta non consistesse più nel raggiungere la canzone, ma nel fuggirla». O ancora: è emozionante «vedere la canzone che canta se stessa, anche se, mentre lo fa, allude soltanto a quello che Dylan ne fece una volta». Sono alcuni frammenti del discorso amoroso di Greil Marcus su Bob Dylan e il suo pezzo-simbolo. Quando si tratta di mettere a punto la storia postuma del brano leggendario del 1965, Marcus parte dall’incapacità di Dylan di farne una versione simile all’originale. Dal suo fuggire il Rolling Stone. Dal fatto che sia proprio la canzone a sfuggirgli, a scappare. Decenni dopo, dopo averla lasciata agli interpreti, dopo averla eseguita centinaia di volte nel Neverending Tour, allo spettatore capita di vedere Dylan cantare«la canzone come se non appartenesse più a nessuno».
Come se si desse un momento, nella ripetizione artistica di un’opera, in cui la copia matura un’allergia all’originale, alla proprietà, al possesso. È diversa, non è di un autore – e però è usata. Non per divenire “patrimonio”, ma per dirne le potenzialità. Non per farne mito, ma vettore di felicità.Proprio l’intreccio tra ripetizione e felicità è uno dei nervi del bel libro di Marina Montanelli, Il principio ripetizione. Studio su Walter Benjamin, da poco in libreria per Mimesis. Che ha l’intuizione acuminata di isolare il concetto di “ripetizione” in Benjamin e di cambiarne radicalmente l’interpretazione di comodo, per cui la ripetizione (confusa con l’eterno ritorno dell’uguale, con la condanna alla replica di ciò che il destino ha deciso da quel dì) è il cattivo della storia in Benjamin, il mostro da cui difendersi, perché soltanto mito, rispetto alle possibilità emancipative e messianiche del materialismo storico.
Le cose, suggerisce Montanelli, non sono così semplici. Masonodi gran lunga più intriganti. «Nella misura in cui esigono a priori la traduzione, le opere iniziano mancando, manifestando fin da principio e apoditticamente una richiesta di compimento che è, al tempo stesso, un’esigenza di ripetizione». Le opere iniziano mancando: per questo, riconoscendo il necessario artificio tecnico insito nella catena espressiva degli esseri, critica, storiografia e anche politica hanno libertà di gioco nel combinare ripetizione e variazione. La ripetizione può leggersi nella lingua, come categoria del reale e della conoscenza, nella traduzione e nell’allegoresi, nel bambino che gioca e intende il giocattolo innanzitutto come manufatto ed esperienza di montaggio e distruzione, nell’opera d’arte aperta al valore espositivo e costitutivamente mediale, nel gesto citante, rammemorante e politico dello storico(cui spetta, come fa Baudelaire, mirare all’«esasperazione, fino al suo rovesciamento, di questa medesima reiterazione»). La ripetizione è ovunque ma non è univoca, non è identica. Non è solo mitica, né rituale, non è solo questo, è innanzitutto differenziale.
Poi, certo, la ripetizione è anche un’esperienza di dominio quotidiano. Perché il nostro è un tempo di religione senza religione, in cui è dannatamente difficile pensare un’«innervazione del collettivo»quando il collettivo è incapace anche di comunicare, è povero di esperienza, ha perso le connessioni. Da cui la necessità per Benjamin della barbarie, di«consumare», «sgomberare» la tradizione (in un momento in cui la ricchezza di “beni culturali” è di una pleonexia disarmante, tanto da configurare immagini di sazietà dell’ultimo uomo, accompagnate dalle risate ironiche della fine della storia, da Weber a Nietzsche). È il tempo del capitale che sa usare le nostre usanze prima ancora che ce ne accorgiamo, usa la nostra povertà mettendola a valore, sa ripetere l’accumulazione originaria marxiana: nel prodotto in vendita, concentrata, c’è l’ambizione totalitaria del concetto di valore.
Eccola, durante le repliche di Like a Rolling Stone, l’era del «Kindergarten da incubo»del capitalismo avanzato, dove l’istanza del ludico viene trasformata in coazione a ripetere e controllata, dove la parola d’ordine è estetizzazione (della merce, della politica), l’enunciazione mercantile di vissuti auratici sempre possibili. Tutto questo nell’era in cui la hit di turno è replicata in infinite variazioni, riprodotta in mix alternativi, l’era in cui il pubblico è il chirurgo manipolatore che entra dentro l’opera per assemblarla, per farne video, talvolta su commissione dello stesso “autore”. Ripetere, riesporre, per variare.
Ma «la possibilità di disattivare la coazione a ripetere risiede nello stesso meccanismo ripetitivo». Per questo è buona pratica osservare i bambini. C’è un passo di scandalosa lucidità, citato da Montanelli, in uno scritto – Giocattolo e gioco – che Benjamin stesso considerava minore, buttato giù per sbarcare il lunario, da intellettuale a reddito variabile, all’alba del crollo di Wall Street. È uno di quei momenti (rari) in cui la filosofia rasenta l’ovvio, ma è l’ovvio che conosci solo dopo averlo letto. «Il bambino si crea tutto ex novo». E poi «ricomincia ancora una volta da capo». È un «genio della variante», che opera «la trasformazione dell’esperienza più sconvolgente in un’abitudine». L’essenza del gioco, il segreto del vocabolo Spielen (giocare, inscenare, suonare, provare, praticamente play), è qui, in una replica mutante, in cui la ripetizione è la sostanza operativa con cui cominciamo a fare uso della nostra vita. Con cui la montiamo (la insceniamo, la suoniamo). Con cui facciamo di noi un’abitudine, talora una regola – praticamente una storia.
Conta l’uso, quindi. Che sia storia di sofferenze – come insegna il superamento freudiano della ripetizione attraverso la ripetizione, a partire dalla rielaborazione psicanalitica della sofferenza – o storia di choc o di gioie, la vita pare sia questo uso di noi stessi e della nostra esperienza come attualizzazione infinita. È un neverending tour il nostro, dove non esiste una versione originale (da ripristinare per riascoltarla in santa pace), ma solo un infinito spazio di cover. Benjamin insiste sulla non esaustività della lettura freudiana del gioco, schiacciata sulla dark side della ripetizione: ripetere il trauma per dominarlo. Esiste un gioco svincolato, o parzialmente esente, dal dominio (di sé, del trauma) – un gioco libero. Dice Montanelli: «Benjamin afferra l’intenzione freudiana, ma la torce in senso opposto», vede nell’attività ludica l’inizio di un’identificazione degli oggetti, della propria distanza da essi – della propria capacità di farne simboli (anche distruggendo le proprie costruzioni).È una visione complessa del gioco: da un lato Benjamin osserva la ripetitività e l’estraniazione del lavoro moderno che ci fa agenti iperattivi con lo stesso grado di coscienza di un giocatore d’azzardo, dall’altro esalta la capacità di montaggio e di riadattamento del bambino-giocatore, che mostra il «canone del nuovo lavoro non sfruttato», sulla scia delle “armonie” di un Charles Fourier. Siamo nel cuore di questa dialettica irrisolta.
E qui, anche per la questione tecnica di come è fatto l’animale-uomo – che ripete, rivede e ricorda usando se stesso – per questo paradosso assai sensato per cui la regola esige il nuovo che «riapre il gioco» (secondo il Fachinelli del Paradosso della ripetizione), la questione che solleva Montanelli è di una politicità immanente. Non si tratta di tornare all’infanzia, ma di profanare ogni vissuto mitico per riaprire l’esperienza, smontare e rimontare il giocattolo-uomo.
Non da nuove aure bisogna partire, dichiara Benjamin nel lavoro sui Passages di Parigi, quanto da «stracci e rifiuti, ma non per farne l’inventario, bensì per render loro giustizia nell’unico modo possibile, usandoli». Di certo occorre distruggere «l’aura mitica-ipnotica» della narrazione dominante, che sfrutta l’immedesimazione per render gli spettatori tutt’uno col carro dei vincitori. E chiedersi, se col gioco il bambino inaugura la propria entrata nella sfera sociale, e lo fa ripetendo, se le «le abitudini» sono«forme pietrificate» della nostra prima felicità, del nostro primo orrore, chiedersi se, oltre il terrore antimitico di Per la critica della violenza, anche il diritto non nasca come gioco per divenire poi abitudine sanzionata, e perciò non vada ripensato da capo.E poi occorre trovare una drammaturgia dell’attenzione e i suoi attori: i bambini, naturalmente, e gli studenti (quelli di Kafka, che non dormono finché non finiscono l’ultima pagina), perché «la potenza del possibile è ancora presso di loro». Bisogna comporre una storia i cui attori siano solidali e complici con l’uomo liberato.