L’alto e il basso non esistono più, e questo lo sappiamo da circa cinquant’anni. Il basso è così divenuto un vero e proprio serbatoio di senso capace di rivelare infiniti spazi e pertugi, mentre l’alto è divenuto lo strumento per leggerlo, per rivelarne appunto i molteplici sensi.

Tuttavia come spesso accadeva anche tra Ciccio e Franco, l’alto sembra mostrare una sottile angoscia, un’evidente malinconia dettata da solitudine e da un sostanziale parossismo di chi sa bene che di snobismo non si può ormai più campare.

Cinquant’anni fa quando l’alto e il basso vennero azzerati non si era infatti dichiarato che uno avrebbe dovuto servire l’altro e ancor meno si dichiarava che esisteva una netta distinzione tra teoria e pratica, tra pensare e agire, una distinzione  – attenzione – non in termini, ma proprio di campo che ben oltre le distinzioni li vede giocare su campi diversi in opposte competizioni spesso entrambe irrilevanti.

L’alto e il basso non esistono più, ma per qualche motivo genetico e di slittamento semantico oggi ci ritroviamo tra le mani uno storto e un grasso. Si potrebbe dire che questo è il risultato del postmoderno (altro ultra cinquantenne) oppure di un malcelato paraculismo che si tinge i capelli alla Descartes. È come se l’assenza di distinzione invece di mischiare le carte rilanciando il gioco abbia segnato la perdita di qualità e di valorizzazione dell’intervento culturale, lo si vede dalle fiere del bianco (non Einaudi) mascherate da lectio magistralis così come dai premi Strega di montagna che decantano il bello dell’impiantistica sciistica. E lo si vede e molto anche da parte di una critica che persi gli strumenti di analisi e di perlustrazione giustifica ogni stupidaggine, ogni accozzaglia in nome di una curatela che si è fatta cozza, capace ossia di digerire ogni zozzeria – esattamente come certe discariche di scuola Cerroni – nell’intento sociologico di restituire una perla da bigiotteria.

Non è una questione di crisi, ma di assenza, di sostanziale aconflittualità generata da un Totò che non detta più e da un Peppino che non ha più nulla da scrivere. Altro che lettera rubata, qui non c’è proprio più nulla, nemmeno il foglio di carta. Toto e Peppino si guardano così tronfi forse anche stringendosi cortesemente la mano senza proferire più alcuna parola, incuranti che la moria delle vacche prosegua e che il giovanotto non si prenda la sua laura.

Perché tutto ciò è avvenuto? Le risposte sono infinite, si va da un’ossessiva cura della morale che ha inquinato ogni pozzo di questo arido Paese rendendo impossibile ogni comunicazione traversale, ogni gioco di specchio, ogni possibile seduzione, ad una corruzione piccolo borghese diffusa e capillare, vero e proprio elemento di coesione di quella che un tempo si sarebbe detta classe media. Per arrivare fino ad un capitalismo emotivo che ha trasformato i cittadini in contabili esistenziali ossessionati dal minuto (inteso anche come prezzo al) e bisognosi di continue rassicurazioni, di ossessive consolazioni. Lo stato dell’arte è evidente non è dei più incoraggianti, ma potrebbe andare anche peggio come amano dire spesso i medici in corsia. Quindi un passo alla volta.

Se nel 1848 Charles Baudelaire usciva totalmente di senno inseguendo una rivoluzione dai guanti di velluto (come scrive splendidamente Giuseppe Montesano) rivelando al mondo e al suo tempo la qualità di una presenza esterna, ma complice al proprio tempo: così oggi è possibile prendere la lezione del poeta ribaltando le usurate polemiche di Tom Wolfe in chiave antimoderna, ossia in chiave contemporanea. Non esiste l’alto e il basso e gli opposti non sono altro che l’intreccio solidale di una medesima storia, di una resuscitata visione che trasforma il bordo nell’unico centro di scontro, di conflitto sul quale giocare una partita sfondando i limiti della cornice stessa andando a recuperare prima che lo stile e la forma, la sostanza dello stile e della forma. Il che non vuol dire arruolare un esercito di borderline, ma di certo indugiare là dove l’estetica o meglio il design della maggioranza non guarda. Diamo a Bene quel che è di Bene.

Questa scorribanda in sostanza per dire che là dove il capro espiatorio prende forma, quindi là dove Girard ha già buttato l’occhio, non è tanto interessante valutare il senso e la dimensione dell’odio che naturalmente il capro espiatorio genera, ma è interessante l’esperienza in sé del capro espiatorio, il frattale che la sua emotività restituisce in termini di disagio mista a visione, di fastidio misto a lucidità, di scomposta presenza mista a naturale eleganza. Ed è proprio in questo movimento che è necessario concentrare l’attenzione evitando la didascalicità del bel gesto che ormai privo di eleganza ripropone un’ovvietà di reazione e di controllo.

L’attenzione è dunque per l’autodidatta che si fa antimoderno proprio in quei campi spesso torbidi dell’emotività oggi lasciati liberi da una morale impacchettatrice. Spazi dentro ai quali la tecnologia si fa agente di accelerazione terribile eppure formidabile: sono movimenti rapidi, certamente subito inquadrabili eppure ancora vivi, come un ribollio continuo. La brodaglia dell’esistenza come sapeva bene Piero Camporesi è fatta di liquami puzzolenti e di carni di dubbia salute eppure è lì che va cercata la scintilla di un conflitto possibile, la densità di un contenuto ancora incontrollabile e quindi bisognoso di contenitore.

L’alto e il basso non esistono più, ma i vizi che li generarono quelli ancora ci accompagnano e non sono altro che la cenere da cui è possibile ritrovare il necessario slancio per una ribellione elegante, quella che solo con la fantasia è possibile immaginare.

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