Aveva ragione Niccolò Contessa, sarebbe bello vivere in un film di Wes Anderson. Due bambini organizzano una fuga d’amore scrivendosi lettere; un tennista affermato lancia via la racchetta, si siede per terra, si toglie le scarpe e manda all’aria una finale, perché si è accorto che la sua sorellastra, di cui lui è innamorato, è seduta in tribuna accanto al suo nuovo compagno; tre fratelli fanno un viaggio in treno a un anno dalla scomparsa del padre, sperando di ritrovare la propria madre, nascosta chissà dove; sopra una nave, una donna legge ad alta voce un romanzo in sei volumi al bambino che c’è dentro di lei; una volpe e altri animali scavano un tunnel sottoterra per fuggire da tre imprenditori che gli danno la caccia, e alla fine sbucano in un supermercato.
Questi sono solo lampi, scene, personaggi immaginari, forse, come direbbe proprio uno di quei tre fratelli quando qualcuno legge un suo racconto e ci si riconosce, storie che prendono colore (e che colore!) e mostrano il mondo così come potrebbe, o dovrebbe, essere. Si potrebbe parlare solamente della forma, di un’estetica pop, vintage, della teoria dei colori di Wes Anderson, di come riesca sempre a inventarne di nuovi, neanche fosse Kandinsky o avesse un’edizione limitata dei filtri di instagram. O potremmo parlare di simmetria, dei movimenti di macchina così armoniosi, maniacali, perfetti, sì, ma significherebbe essere freddi, non avere un cuore, non accorgersi di tutto quello che davvero c’è.
Tra citazioni, omaggi, confessioni, gesti d’amore, i film di Wes Anderson non sono mai solamente film. Dietro a Rushmore e a Moonrise Kingdom ci sono le immagini de I 400 colpi di Truffaut, dietro ai Tenenbaum la saga della famiglia Glass di Salinger, la scena del bacio tra Mr. Fox e Mrs. Fox, in una grotta davanti a una cascata, ne rievoca un’altra de L’ultimo dei Mohicani, Grand Budapest Hotel è ispirato all’opera di Stefan Zweig, e anche nel nuovo film, Isle of Dogs, che arriverà in Italia il 17 maggio, c’è un po’ Miyazaki e un po’ di Kurosawa. Come in Fantastic Mr. Fox, anche qui mancano attori in carne e ossa, ci sono pupazzi che si muovono in stop-motion.
Giusto le voci, per chi lo vedrà in lingua originale, sono quelle dei soliti attori feticcio di Wes: Bill Murray, Edward Norton, Jeff Goldblum, con qualche sorpresa come Greta Gerwig e Yoko Ono. Come succede spesso, almeno apparentemente, la trama è semplice.
C’è una città immaginaria del Giappone che si chiama Megasaki, un sindaco cattivo, un dittatore, di nome Kobayashi, che ordina l’espulsione, e la deportazione, di tutti i cani della città, infetti dal presunto “tartufo febbrile”, sull’Isola Spazzatura. C’è il popolo che, per ignoranza o per paura, appoggia il dittatore, che urla e inventa teorie, e non gli scienziati che riescono a smentirle, c’è un ragazzo, che ha il nome di una storica console per videogiochi, Atari, che è il nipote del terribile sindaco, che scappa in aereo dalla città verso l’Isola Spazzatura alla ricerca del suo cane Spots. E c’è l’Isola, piena di detriti, macerie, avanzi di chissà quale umanità, dove cinque cani, Chief, Duke, Rex, Boss, King, aiuteranno il dodicenne Atari, che loro chiamano “il piccolo pilota”, a ritrovare il suo cane. L’ennesima fuga, come quella di Richie, Margot e Royal Tenenbaum dalla famiglia, quella di Suzy e Sam nei boschi lontani dai campi scout e dai matrimoni andati a male, quella di Fox e degli altri animali.
I personaggi di Wes Anderson, come dei bambini, giocano ad acchiapparella, scappano tutti, per poi tornare alla fine. È un mondo dove i genitori contano meno dei figli, e il più delle volte sono morti o non hanno il coraggio di farsi vedere. Royal Tenenbaum si inventa di avere un cancro per tornare in famiglia, per riconquistare sua moglie e i figli, o forse perché al verde ed è geloso del fatto che lei si stia rifacendo una vita. La madre di Francis, Peter e Jack Whitman è scappata, non si è presentata neanche al funerale del marito, e rimanda sempre l’incontro con i figli.
“Odio tutti i padri e non ho mai voluto esserlo”, dice Steve Zissou al figlio Ned. “Io ti amo, ma tu non sai di che cosa parli”, risponde il piccolo Sam, quando Suzy gli dice che ha sempre desiderato essere orfana. E anche al povero Atari, rifugiatosi nell’isola dei cani, non rimane che quell’orribile zio. Forse è questa la vera simmetria dei film di Wes Anderson, che i bambini sono sempre un po’ adulti e gli adulti sono sempre un po’ bambini.
L’Isola Spazzatura, che sembra la fine ma anche l’inizio del mondo, ricorda l’universo dei Peanuts, dove i grandi non possono entrare. Un mondo precivilizzato dove le parole non contano, ma conta come ci si guarda, ci si annusa, cosa si prova, conta quello che si fa. “Non sento l’odore”, dice il cane Chief, tutte le volte che vede avvicinarsi uno dei tanti cani robot, mandati dal sindaco sull’Isola per sterminare quelli veri, e riportare a casa il nipote.
Atari è giapponese, i cani non parlano la sua lingua, però lo ascoltano, e riescono sempre a capirsi. “Io volto le spalle/ al genere umano”, si legge in uno degli haiku che compaiono durante il film. È un mondo da rifare, quello dei grandi, dove l’infanzia può rappresentare l’unica salvezza. Un mondo che, parafrasando la Morante, in fondo può essere salvato solamente dai ragazzini, e dagli animali.