Per contribuire a un momento d’incontro, approfondimento e scambio come Tempo di Libri, la fiera del libro che si terrà a Milano dall’8 al 12 marzo, non abbiamo solo creato uno speciale doppiozero | Tempo di Libri dove raccogliere materiale e contenuti in dialogo con quanto avverrà nei cinque giorni della fiera, ma abbiamo pensato di organizzare dieci incontri: maestri che parlano di maestri. Venerdì 9 marzo, alle ore 18.00, Franco Arminio parlerà di Gianni Celati.
Prosa o poesia che sia, la scrittura è bella quando sfugge di mano. Lo scrittore non distribuisce lui le parole ma è distribuito dalle parole: una parte di lui finisce su un ramo, un’altra in bocca a un cane.
Gianni Celati ci insegna a non farla noi la lingua, ma semplicemente ad andarle dietro. È bello inseguire la lingua, piuttosto che pensare penosamente che spetta a noi scegliere la parola. La lingua non vuole l’arroganza dell’autore, ma l’umiltà dello spavento, il sentimento di uno che è caduto da cavallo e scrive strisciando sulla polvere.
Il nostro corpo non deve vigilare lo spazio, definirlo, misurarlo. Il nostro corpo deve camminare nello spazio, saltellare, dormire, ridere, piangere. Il nostro corpo è un frammento di spazio emozionato. La lingua non arriva sempre, a volte è solo un lungo commento a un nodo invisibile. Poi qualche volta, improvvisamente, la lingua scioglie qualche nodo, fa quello che non può fare nessun uragano.
Celati parla poco della morte, parla poco del religioso. Sembra attratto dalla cerimonia dello stare tra le cose, non sembra interessato alle immersioni, non vuole farsi sorprendere a commerciare con l’intimo e col sacro. Preferisce l’immaginazione, preferisce non mettersi di peso dentro la sua lingua. Il suo corpo quando scrive ha la leggerezza delle ossa degli uccelli. E tutta la sua scrittura è un cinguettio, ora mesto, ora allegro. Dunque Celati non è un uomo ma un uccello che usa le ali come piedi, un uccello camminatore.
Due questioni: il narrare e lo spazio. Celati vuole narrare lo spazio, ma facendo attenzione che la lingua non sappia troppo di sé, di anima, di psicologia, di interno. È come se l’intimo dovesse avere il sapore delle cose che stanno fuori, sotto la pioggia e il sole. Non è l’autore che finalmente trova nel suo cuore la formula per dire il mondo, ma il mondo che suggerisce allo scrittore dove guardare, dove prendere quello che gli serve per stare un poco in compagnia.
Celati dunque non estrae le parole, non le evidenzia. Ognuna dica quello che sa dire, faccia la sua vita di parola dentro la frase e la frase faccia la sua vita di frase dentro il saggio o il racconto. In qualche modo lo scrittore non s’intromette nel gioco della lingua, semplicemente si fa attraversare da esso. Per scrivere in questo modo bisogna avere le doti che hanno i santi, ma è una santità che non sa di lacrime, di dannazione. La scrittura è sempre lieve, non è mai inzuppata da rancori, da protervie. Una scrittura serena, tranquilla, a volte leggermente nervosa, ma mai seduttiva, mai minacciosa.
Scrittori di questo tipo stanno nei libri, ma stanno più spesso in quello che scrivono fuori dai libri. Celati ci meraviglia quando non è dentro il suo libro, quando presenta altri libri, quando risponde a un’intervista, quando scrive una lettera, quando ti parla mentre gli cammini a fianco. Alla fine non abbiamo bisogno di scrittori ma di esseri umani intensi senza volerlo, involontariamente mistici, lietamente malinconici.