Arizona, 1948. Georges Simenon si è appena trasferito con la famiglia a Tumacacori, un pugno di case sparse intorno a un negozio lungo la strada da Tucson a Nogales, a meno di mezz’ora in auto dal Messico.
È affascinato dal deserto: galoppare nella sabbia in mezzo ai cactus e a pochi arbusti contorti e rinsecchiti, accompagnare i cow boy che trasferiscono le mandrie da un posto all’altro, bere mint julep in veranda. “I weekend sono trascorsi andando a trovare i vicini. E soprattutto si beve. Si decide di finire la serata in un altro ranch dove il gruppo si allarga, poi ci si sposta ancora… Può durare due giorni e due notti o anche tre”, racconta Simenon nell’autobiografico Memorie intime.
Durante questo felice soggiorno americano, nell’agosto del 1948, Simenon scrive il “suo primo romanzo sul deserto, quello vero”, Il fondo della bottiglia, in libreria da febbraio per Adelphi con nuova traduzione di Francesca Scala. Pochi mesi prima ha pubblicato Il ranch della Giumenta perduta, un avvincente romanzo di genere western con tutti i cliché dell’America di frontiera.
L’ambientazione resta la stessa, quella che lo scrittore ha quotidianamente davanti agli occhi: cow boy, ranch, whiskey, partite a poker. Cambia però l’atmosfera: Il fondo della bottiglia è, infatti, uno dei romanzi più cupi mai scritti da Simenon. Cosa è accaduto nel breve periodo che separa i due libri? Perché Simenon, in un momento particolarmente sereno della sua vita, sente l’urgenza di scrivere un romanzo “duro” come Il fondo della bottiglia?
Nonostante il romanzo inizi con l’avvertenza che “i personaggi e gli eventi narrati sono puramente immaginari e privi di qualsiasi riferimento a persone viventi o defunte”, per capirlo è proprio dalla trama che dobbiamo partire. Il protagonista, P.M. (per tutto il romanzo Simenon nominerà solo le sue iniziali), è uno stimato avvocato e grazie al matrimonio con una donna facoltosa si è conquistato una posizione rispettabile tra i notabili della zona, ricchi proprietari di ranch e grossi produttori di cotone.
Un giorno, dal passato, arriva un uomo misterioso. Ben presto scopriamo che si tratta del fratello minore Donald. Quel Donald: immaturo, scriteriato, che ha avuto una vita così diversa dalla sua e sicuramente meno agiata: è appena evaso di prigione, dove era stato rinchiuso per aver tentato di uccidere un poliziotto durante una rapina. Donald chiede aiuto al fratello per fuggire in Messico, ma il fiume che separa il gruppo di case dove vivono P.M. e i suoi amici e il confine è in piena e non può essere attraversato.
P.M. è costretto dunque a ospitarlo in casa. In un’atmosfera claustrofobica, dove le bottiglie che si svuotano sono l’unica clessidra in quei pomeriggi tutti uguali passati in casa a ubriacarsi mentre fuori la pioggia si abbatte incessante, in un crescendo di tensione psicologica tra fiumi d’alcol, scazzottate, paure, invidie, sospetti, rancori e sensi di colpa si consuma il dramma tra due fratelli.
Un dramma simile, immagina Simenon nella finzione narrativa, a quello che avrebbero potuto vivere lui e il fratello minore Christian, se questi non fosse morto proprio nei mesi precedenti alla stesura de Il fondo della bottiglia, diventando di fatto la figura centrale, sebbene mai nominata, che ha ispirato il romanzo. Chi è dunque questo fratello misterioso, che non appare nemmeno come personaggio nel romanzo autobiografico di Simenon, Pedigree (pubblicato nello stesso anno in cui scrive Il fondo della bottiglia)?
Negli anni Quaranta Christian era stato un politico e convinto collaborazionista, membro dello stato maggiore dell’organizzazione paramilitare filo-hitleriana belga Rex. Nel 1945 fu accusato dell’esecuzione di 27 civili durante una rappresaglia delle SS avvenuta nell’agosto del ‘44 e condannato a morte in contumacia. Per salvarlo Simenon chiese aiuto alla persona più influente che conosceva, lo scrittore Andrè Gide, e questi gli consigliò di indurre Christian a seguire la classica via di coloro che in quegli anni volevano sfuggire alla legge: arruolarsi nella Legione Straniera. E fu esattamente ciò che Simenon fece. Il fratello cambiò cognome e fu inviato in Africa settentrionale e poi nel Sud Est asiatico, dove morì nella regione del Tonchino, in Vietnam, nell’autunno nel 1947.
La madre di Simenon, Henriette, non perdonò mai al fratello rimasto in vita la decisione di allontanare Christian, il figlio prediletto, e considerò sempre colpa di Simenon la sua morte. In Lettera a mia madre, una lunga lettera scritta nel 1974, dopo la morte della madre novantunenne per fare i conti con il loro difficile rapporto, Georges Simenon racconta addirittura che una volta Henriette, durante una delle visite dello scrittore, disse: “Che peccato, Georges, che sia stato Christian a morire”. “Non volevi forse dire che, a tuo avviso, secondo il desiderio del tuo cuore, io sarei dovuto morire per primo?”, si chiede con rammarico Simenon.
Sarebbe ingiusto incolpare lo scrittore belga per il destino del fratello, che era già stato segnato dalla giustizia e dalle sue responsabilità con la storia. Tuttavia Simenon fu sempre consapevole del fatto che allontanare Christian era stato un modo per salvargli la vita, certo, ma anche per liberarsi da una presenza che sarebbe potuta diventare ingombrante se non addirittura scandalosa per uno scrittore ricchissimo e celebre in ogni parte del mondo come lui.
Non bisogna dimenticare che lo stesso Simenon era stato accusato di collaborazionismo e anche per questo aveva deciso di trasferirsi negli Stati Uniti. Con il tempo le accuse sono cadute e i biografi parlano al massimo di un’ambigua indifferenza all’occupazione nazista che si limitò a rapporti cordiali con gli alti comandi del governo collaborazionista e a un accordo sui diritti di esclusiva del personaggio del commissario Maigret all’industria cinematografica tedesca. Ma in quegli anni, un fratello nazista avrebbe sicuramente fatto apparire l’atteggiamento di Simenon da un’altra prospettiva.
È inevitabile fare un parallelismo tra la figura del Simenon scrittore di successo con il rispettabile avvocato P. M. e tra Donald e Christian Simenon. Quello che Simenon descrive ne Il fondo della bottiglia non è solo un conflitto antico come la Bibbia: la storia di Caino e Abele, di Esaù e Giacobbe, di Giuseppe e i suoi fratelli. È anche e soprattutto un libro personalissimo in cui lo scrittore prova ad affrontare i rancori sopiti della famiglia Simenon, è la coraggiosa e sofferta resa dei conti che Georges fa con le sue responsabilità e i sensi di colpa per non essere riuscito a capire in tempo Christian, il fratello “più debole”. E stavolta, almeno nella finzione, i destini si invertiranno.