Harlem, 125th Street con Lexington Avenue, esterno notte. L’ambientazione è sempre la stessa: il marciapiede buio illuminato dalla luce che arriva dalle vetrine e dalle insegne dei negozi, le automobili e gli autobus che passano, ogni tanto qualche sirena e lampeggiante di ambulanze o polizia. Anche le facce sono sempre quelle: tossici, senzatetto, uomini e donne ai margini di un quartiere di New York dove la gentrificazione ha esasperato in maniera esponenziale la distanza tra integrati e outsider.
Per tre anni il giovane e bravissimo street photographer e regista Khalik Allah (nato a Long Island nel 1985, madre giamaicana, padre iraniano) ha fatto di quell’incrocio di strade il suo territorio di ricerca artistica e spirituale. Con foto a colori scattate rigorosamente di notte, ha ritratto la strana e potente popolazione che abita il marciapiede appena fuori dalla fermata della metropolitana. “La tecnica viene dopo, prima vengono i soggetti, le persone che fotografi”, mi dice al telefono, spiegando l’importanza che il contatto visivo ha nel suo lavoro. “Funziona più uno scambio di sguardi della domanda: posso fotografarti? Poi mentre fotografo, chiacchiero, mi faccio raccontare le loro vite, parlo del mio lavoro. Il contatto visivo è solo un inizio”.
Il suo lavoro, quello di fotografo, lo ha imparato da autodidatta, sfogliando in biblioteca monografie dedicate ai grandi fotografi: Henri Cartier-Bresson, Robert Frank, Nobuyoshi Araki, Diane Arbus. E applicando alla fotografia le regole imparate da ragazzo dagli insegnamenti della Five-Percent Nation, movimento fondato ad Harlem da Clarence 13X, membro fuoriuscito della Nation of Islam. “Conoscenza, saggezza, comprensione”, mi dice elencando uno dopo l’altro gli elementi della Matematica Suprema dei Five-Percenters.
“Sono tutte cose che ritrovi nella fotografia: conoscere significa cercare, ascoltare e osservare quello che hai intorno; saggezza è sapere come agire e comportarti in ogni situazione in cui ti trovi; comprensione è vedere le cose per quello che sono e non per quello che appaiono, vedere la verità e non l’apparenza. La fotografia è anche questo”.
I suoi ritratti scattati tra la 125th e Lex sono già stati raccolti in un volume (il bel Souls Against the Concrete, uscito lo scorso settembre in America per la University of Texas Press, 50$) e hanno ispirato l’acclamato documentario del 2014 Field Niggas, diretto sempre da Khalik Allah, che deve il titolo al celebre discorso di Malcolm X “Message to the Grass Roots”, in cui tracciava la spaccatura tra gli house negros, o negri da cortile, addetti alla casa del padrone, privilegiati e condiscendenti, e field negros, quelli che stavano nei campi, erano pronti alla rivolta ed erano la maggioranza.
Dopo il volume e il documentario, come terza tappa dell’opera in progress, Khalik Allah inaugura in questi giorni alla Gitterman Gallery di New York (41 East 57th Street) una retrospettiva di foto visitabile fino al 12 maggio. Nel frattempo il suo ultimo film Black Mother, girato in Giamaica – e dedicato sempre agli outsider, ai field niggas giamaicani – verrà presentato in anteprima al True/False Film Festival in Missouri e ad aprile al MoMA e al Lincoln Center di New York per il New Directors/New Films Festival.