Sulle patologie della nostra – nostra di noi uomini occidentali contemporanei – percezione del tempo, di quel tempo che oggi vive un’epoca di «crisi» (p. 8) riflette Han in questo libro del 2009, tradotto a quasi dieci anni di distanza dalla prima pubblicazione in lingua tedesca anche in italiano. Rispetto ai testi più recenti, maggiormente critici, apocalittici, pessimisti – spesso anche in una modalità superficialmente disfattista – il testo in questione è molto diverso. Per quanto permeato da una profonda critica culturale, il tono di Han è qui, infatti, a metà tra il filosofico e l’elegiaco, trovando una giusta misura tra i due poli: grazie allo strumento della filosofia heideggeriana, ma anche in dialogo critico con essa, Han si profonde in una accurata (e non banale) critica del mondo attuale, e soprattutto della distorsione che in esso avviene di tutti i valori, e concetti, fondamentali. La chiave di volta di questa critica è proprio il tempo, o meglio il modo distorto che la contemporaneità ha di vivere il tempo: «[…] Anche la verità è un fenomeno temporale. Essa è un riflesso del presente duraturo ed eterno ed è dunque indebolita da un tempo travolto, da un presente contratto e fugace» (p. 14). Il problema del nostro tempo (inteso sia come epoca storica che come il tempo che ciascuno di noi vive) è quello dell’accelerazione: accelerare i tempi di vita non significa aumentare le possibilità che si vivono, ma solo fare un calcolo ingenuo, «scambiando la realizzazione per la mera abbondanza» (p. 19).
Per Han la vita non è fatta di esperienze, così come la verità non è data dalla sommatoria delle informazioni (con buona pace degli ingegneri sociali e degli album di foto delle vacanze che in questi – e nei prossimi – giorni inonderanno la nostra vita digitale), quanto da una dimensione storica, ossia narrativa. Il senso si dà nella narrazione, di cui le informazioni e le immagini sono solo parti – certo costitutive, ma pur sempre parti. Senza un orizzonte di significato esse sono solo membra inerti, prive di interesse. È la narrazione a far «profumare il tempo» (p. 28), a rendere le nostre esistenze vive, presenti, irripetibili: come un profumo. Così come non è possibile separare, anatomizzare, gli elementi di un profumo – senza rimanere solo con un insieme di dati, di per sé insignificanti e asignificanti – senza narrazione il tempo, la nostra vita, «si scompone in una mera cronologia di eventi che assume la forma […] di un’enumerazione» (p. 36). La soluzione a questa forma di frammentazione della nostra esperienza del tempo, e quindi della nostra vita, è – secondo Han – l’indugiare.
L’arte di perdere tempo, che diventa un vincere tempo, quindi un vincere il tempo: «Solo nell’indugiare contemplativo, anzi in una moderazione ascetica, le cose svelano la loro bellezza, il profumo della loro essenza. Ed essa consiste di sedimentazioni temporali che appaiono solo nella loro luminosità fosforescente» (p. 57).
Perdere tempo, prendere tempo, vincere il tempo. Questa paradossale consecutio temporum viene seguita da Han tramite autori e testi della filosofia occidentale contemporanea, da Nietzsche ad Heidegger, da Baudrillard a Lyotard. Ma la tonalità emotiva di fondo di questo libro – la Stimmung direbbero i tedeschi, mischiando nella stessa parola il concetto di “voce” [Stimme] e quello di “tonalità”, “disposizione d’animo” – è tutta orientale. Per questo la lettura de Il profumo del tempo può benissimo andare di pari passo con quella dell’ultimo libro di Han tradotto in italiano, Filosofia del Buddhismo Zen (Nottetempo, Roma 2018). Anche qui si tratta di un libro “datato”, pubblicato in tedesco nel 2002, che però non solo non ha perso nulla della sua attualità, ma che anzi si rivela essere, alla lettura, una delle migliori riflessioni di Han, tra quelle fino ad oggi presentate al pubblico italiano. Han presenta lo Zen e il Buddhismo a un pubblico occidentale, scegliendo uno sguardo “comparativo”: è dal confronto con la tradizione filosofica occidentale che vengono “spiegati”, o meglio “mostrati” (in quanto lo Zen non è una via concettuale-dimostrativa del pensiero, quanto una via “deittica”, che indica col dito, mostrando la realtà e non di-mostrandola) gli assunti fondamentali del buddhismo.
Così è tramite gli occhi critici e stupefatti di Hegel, paradigma della razionalità filosofica europea, che Han spiega l’assunto paradossale del buddhismo per cui non esistono né “sostanza” né “soggetto” (p. 13), vale a dire le due categorie su cui si basa tutto l’impianto logico e ontologico filosofico classico. Il buddhismo zen è una “religione dell’immanenza” (p. 18): vale a dire che non c’è nulla di esterno, nessun altro e nessun Altro, nessun Dio né alcuna Ragione sovraordinata ai fenomeni. Esistono solo i fenomeni, essi sono causa ed effetto, in sé conchiusi, e quindi perfetti: «Il buddhismo zen abita il mondo nel suo apparire» (p. 34). Ma questa apparenza non ha nulla di superficiale, è anzi un risultato: il risultato di una pratica di vita lunga tutta la vita stessa, che porta a vivere esattamente come vive chiunque, ma in una condizione di risveglio.
Han riporta molti aneddoti sugli “illuminati” buddhisti, che spesso suscitano un sorriso nel lettore occidentale, come ad esempio: «Il maestro zen Enchi Dai-an per trent’anni non fece altro che mangiare riso. Alla domanda: “Qual è il messaggio più importante?” il maestro Yunmen risponde: “Mangia!”» (p. 37). Il senso profondo di questi aneddoti è però la trasfigurazione del banale che essi comportano: bisogna essere un saggio per comprendere il senso del “Mangia!” – o meglio, per “vivere” quel “Mangia!” – senza che esso sia espressione di un mero istinto animale. Bisogna aver imparato che mangiare ed essere mangiati sono la stessa cosa. E in questo vivere l’immanenza vi è anche una comprensione ironica, lieve, del mondo e di se stessi come realtà non-permanenti, temporali, instabili: realtà che non meritano, al fondo, di essere poi prese così sul serio, perché non rimandano a, non significano, nulla.
Con un gesto tutto orientale Han, in questi due libri, ci mostra come sia possibile un pensiero che abbandoni la gravità dei toni a cui ci ha abituato la filosofia occidentale per abbandonarsi, da un lato, ad un indugiare che salva il tempo senza guadagnarlo né risparmiarlo, e dall’altro a un’ironia immanente, che forse aprono le porte a una leggerezza consapevole tutta da raggiungere, anche nei confronti di ciò che ci appare sacro e intoccabile:
«Subito dopo la sua nascita il Buddha indicò con una mano il cielo e con l’altra la terra, fece sette passi in cerchio, si volse verso le quattro direzioni del cielo e disse: “In cielo e sulla terra sono l’unico degno di venerazione”. Il maestro Yunmen disse “Se allora fossi stato presente l’avrei steso a terra con una bastonata e lo avrei gettato in pasto ai cani – una nobile impresa a favore della pace sulla terra”» (p. 19)