Gao Xingjian, il primo cinese insignito nel 2000 del Premio Nobel per la letteratura, è tante cose insieme: teorico della letteratura, traduttore, romanziere, poeta, pittore e cineasta; ma soprattutto è un uomo libero. Nato a Ganzhou nel 1940, laureatosi nel 1962 all’Istituto di lingue straniere di Pechino, durante la “Grande rivoluzione culturale” fu spedito per cinque anni in un campo di rieducazione. Scriveva in assoluta solitudine, per non mettere in pericolo testimoni con i suoi “reati” intellettuali, e spesso bruciava i manoscritti, affinché non finissero fra le maglie della censura, che non risparmiò le sue opere teatrali considerate sovversive.
Esule dopo la morte di Mao, Xingjian ha espresso in Francia tutto il proprio talento poliedrico. La montagna dell’anima è forse il suo manifesto letterario e come scrive il critico Liu Zaifu: «Nel mondo artistico di Gao ci si muove in un orizzonte che si estende da miti e leggende dell’antichità a racconti e romanzi d’avanguardia. La Cina dell’autocrazia totalitaria maoista, come pure la società occidentale in declino, sono rappresentate con quell’universalità che trascende i confini fra Oriente e Occidente».
Studioso appassionato della storia del Rinascimento, alla Milanesiana, rassegna ideata da Elisabetta Sgarbi, Xingjian ha toccato i punti focali del libro Per un nuovo Rinascimento (La Nave di Teseo, 173 pagine, 20 euro, traduzione di Simona Gallo), un testo denso e ricco di suggestioni per un futuro che tardiamo a immaginare.
Xingjian, qual è la lezione del Novecento di cui non abbiamo colto il senso?
«Il ventesimo secolo è stato profondamente segnato dalla politica autoritaria e dalle ideologie a essa legate. Mai prima nella storia dell’uomo le ideologie avevano pervaso così tanto la vita, influenzato gli artisti e gli scrittori. E non ne siamo fuori. La letteratura affiliata alla politica, persino subordinata a essa è stata un male endemico del XX secolo: ha esortato alla violenza e alla guerra, costruito eroi e leader da venerare. Dovremmo affrancarci definitivamente da tutti gli – ismi novecenteschi che ancora si aggirano fra noi».
Lei scrive che oggi la letteratura deve trascendere la politica e resistere al mercato.
«È esatto. La vera creazione artistica non ha un posto nella società: è la malattia del nostro tempo. La politica permea ancora troppi aspetti della vita come d’altra parte fa il mercato. La letteratura, acquisendo consapevolezza del reale, deve liberarsene. Solo lei è in grado di rendere manifesto ciò che la politica tace e che l’ideologia non può esprimere, ossia la voce e gli autentici sentimenti dell’uomo. La letteratura è espressione di un’indagine infinita, che ha origine dalla necessità dell’uomo di affermare la sua esistenza».
E il posto dello scrittore?
«Sono finite le proclamazioni della “morte dell’autore”, così come la storia non è finita come qualcuno prediva, però lo scrittore, creatore e innovatore della propria lingua, non può essere un funzionario statale. La società contemporanea non gli riserva una posizione particolare. La sua voce si sente quando entra in una polemica politica o si schiera con un partito. Chi vorrebbe resistere alle pressioni del mercato e salvaguardare la propria autonomia in quale condizione versa?».
Lei fa appello a un un nuovo Rinascimento.
«L’occidentalizzazione mondiale è passata per l’Europa con all’origine il Rinascimento italiano, che ha nutrito la fioritura di questa civilizzazione europea e ha risvegliato il senso del bello, l’umanesimo. Oggi c’è la globalizzazione, che non ha prodotto qualcosa di nuovo, una migliore conoscenza, al contrario ha impoverito lo spirito e generalizzato i problemi. Il mondo ha bisogno di un nuovo Rinascimento, che produca una cultura universale e il riferimento può essere a quello italiano. Senza esserne una copia. Lo scrittore non può cambiare il mondo, ma abbiamo bisogno di una nuova visione. Gli intellettuali dovrebbero affrontare la nostra società caotica ed entrare nella condizione dell’individuo contemporaneo».
Il periodo rinascimentale fu pieno di scoperte rivoluzionarie. Nell’era dell’iperconnessione digitale lei che cosa inventerebbe?
«L’invenzione più importante, il cinema, già esiste. Da giovane studente sognavo di fare il cinema influenzato da Ėjzenštejn, il quale sosteneva che nel momento in cui si prendono due inquadrature diverse e si legano, otteniamo un nuovo senso come intrecciando le parole. Ho realizzato anche il mio sogno cinematografico impossibile, tenendomi distante dai produttori. Sono molte le strade espressive per raggiungere il libero pensiero».
La sua vita è stata caratterizzata dalla ricerca e dalla difesa della libertà. Ricorda quando e come iniziò ad avvertire tale esigenza insopprimibile?
«Negli anni della formazione, la lettura, la musica, il teatro insieme al mio grande interesse per la storia, la filosofia, la civiltà mi hanno nutrito e orientato verso il libero pensiero oltre la dittatura. Le meraviglie del Rinascimento italiano sono un patrimonio culturale umano universale, qualcosa che va al di là del tempo, delle frontiere e che è traducibile in tutte le lingue».
Qual è lo stato della libertà?
«In questo mondo, la libertà individuale è sempre limitata da circostanze politiche e sociali di ogni sorta, e non diciamo qui dell’oppressione nei regimi totalitari. Questa è la gravosa condizione da cui l’uomo ancora non riesce a riscattarsi. Libertà è anche una ricerca ultima, se non l’unica, dell’uomo».
È una forzatura definirla archeologo della terra d’origine che forse non ha mai lasciato, aprendosi senza nostalgia al mondo?
«L’identità e l’identificazione culturale non sono altro che esigenze politiche degli stati-nazione. La letteratura non ha confini e le opere non necessitano del passaporto. Non esiste uno scrittore, degno di tale nome, che non subisca l’influenza di più di una cultura. Kafka, ceco scriveva in tedesco, l’irlandese Beckett in francese: molti hanno scelto una lingua diversa dalla propria originale, dando vita a una nuova esperienza di scrittura. L’interesse per la mitologia classica mi ha sempre accompagnato; dopo decenni di studi e di riflessioni brandelli inerti di memorie sulla Cina arcaica hanno animato il mio dramma epico dal titolo Cronache del “Classico dei monti e dei mari”. La Cina spirituale è sempre con me».
Che cos’è la creazione in questa stagione della sua vita?
«La scrittura è fatica. Ora mi piace dipingere, sperando di realizzare qualcosa di valore. Posso scrivere ancora le poesie non un romanzo, che richiede un tempo che non è più il mio. Bisogna sapere fermarsi e ascoltare il corpo, anche se lavoro ancora quasi tutti i giorni fino a mezzanotte».
Ci racconta il Premio Nobel?
«È equivalso all’essere travolto da una tempesta. Più di prima sono diventato cittadino di un mondo senza frontiere e senza distinzioni di mestieri; mi hanno definito un artista totale. Ne sono fiero e mi commuove».
Questo pezzo è uscito sul Messaggero, che ringraziamo