Adesso che la 75esima edizione della kermesse veneziana si è conclusa, possiamo dire che il concorso si è confermato ciò che, sulla carta, prometteva di essere: un bel concorso. Certo, non tutto è stato alla stessa altezza, come abbiamo già avuto modo di constatare qui su Doppiozero (si vedano i report del 2 e del 6 settembre): perché Frères Ennemis sì e il bellissimo Dragged Across Concrete no? E perché 22 July, la docu-fiction piuttosto inerte di Paul Greengrass (altro prodotto targato Netflix), è stata preferita ad American Dharma, ritratto fosco e quasi apocalittico di Steve Bannon, mefistofelico ex-consigliere di Trump, firmato da Errol Morris?
Nel complesso, l’impressione è quella di un concorso troppo affollato, che ha calato subito i propri carichi da undici (Lanthimos, Cuaron, i Coen) per proseguire in un progressivo calando, fra promesse mancate (il Brady Corbet di Vox Lux, che riesce soltanto in parte a ripetere i fasti dell’esordio L’infanzia di un capo) e vere e proprie sciocchezze (At Eternity’s Gate di Julian Schnabel e l’ancor più tremendo Werke Ohne Autor, nel quale Florian Henckel von Donnesmarck si prende per Edgar Reitz e riesce soltanto a realizzare un indigesto fumettone kitsch). Fa macchia, in questo senso, l’essenziale (80 minuti) e limpido Zen/Killing del veterano Tsukamoto, alla sua prima esperienza nel film in costume con un film di samurai dalle tonalità quasi beckettiane, ingiustamente confinato in chiusura di festival per la gioia dei “felici pochi” che hanno saputo aspettarlo.
A parte l’esito dei singoli film, è la Storia, quella con la maiuscola, la vera protagonista di questa competizione veneziana. Sedici titoli su ventuno erano in costume, o comunque ambientati nel passato. Un modo per trovare le radici del presente, o per prendere atto che i conti con la Storia non tornano più? Così, mentre Guadagnino utilizza la Berlino anni Settanta come sfondo retrò, c’è anche chi si sforza ancora, nonostante tutto, di rintracciare un senso nella catena di cause ed effetti, come fa il Leigh di Peterloo. Dall’altra parte, invece, abbiamo il Nemes di Napzállta (forse il più deludente tra i film del concorso, per il modo in cui riprende lo schema del premiatissimo Il figlio di Saul, ma senza la stessa inquietudine, la stessa angoscia, la stessa urgenza), che concepisce la Storia come caos, adottando la struttura della detection per mettere in scena l’inanità di ogni possibile ricerca di senso e chiudendo il film fra le trincee della Grande Guerra (capita la sottile allegoria?).
Non rimane allora che la fuga nell’utopia, si tratti di quella fourierista vagheggiata da uno dei personaggi di Sisters Brothers di Audiard, o di quella rappresentata in Capri-Revolution, con cui Mario Martone chiude la propria ideale trilogia sulla storia (o meglio, contro-storia) d’Italia, iniziata otto anni fa con Noi credevamo (che rimane forse il capitolo più coraggioso e potente) e proseguita con Il giovane favoloso. Un capitolo conclusivo peraltro troppo rigido e intellettualistico, vittima di una malintesa vocazione “didattica” (il fin troppo citato Rossellini, ma anche i Taviani prima maniera), che non imbrocca né la sceneggiatura né gli attori giusti – salvo la giovanissima Marianna Fontana.
Da questo senso di impotenza dinnanzi al reale, forse, è nata l’altra tendenza predominante nella competizione di quest’anno: quella dell’opera-mondo, del film in grado di abbracciare il mondo intero, la vita, l’umanità, persino il cinema stesso. Una tendenza che ha dato spesso luogo a una vera e propria estetica della dismisura, non sempre al riparo dai narcisismi. A parte i citati von Donnesmarck, Nemes e Corbet, il risultato migliore spetta a Carlos Reygadas, che con il suo Nuestro tiempo orchestra attorno a una trama quasi da pochade alla Feyedeau (l’intellettuale snob prestato alla campagna gioca a fare il demiurgo di un ménage à trois e si ritrova cornuto e s-contento) un film stratificato e ricchissimo, debordante e talvolta diseguale (soprattutto nella seconda parte), ma mai scontato o banale.
Un film da Leone d’oro, speravano in molti. La giuria guidata da Guillermo Del Toro, invece, sembra aver privilegiato il primo versante del concorso, assegnando il Gran Premio a La favorita di Lanthimos (che porta a casa anche una meritatissima Coppa Volpi per Olivia Colman) e quello per la regia a Jacques Audiard. E se i premi alla sceneggiatura e all’interpretazione maschile risultano, a conti fatti, abbastanza prevedibili (il primo assegnato ai Coen per Buster Scruggs, il secondo a Willem Defoe per il brutto film di Schnabel, anche se l’avrebbe meritato il John C. Reilly di Sisters Brothers), lo sono molto meno i premi al terzo western in concorso, l’australiano The Nightingale di Jennifer Kent (Premio Speciale della giuria e Premio Mastroianni al co-protagonista Baykali Ganambarr). Probabilmente, le polemiche sulla scarsa presenza di registe nella selezione principale, rinfocolate dall’insulto sessista che uno spettatore ha rivolto a Kent al termine della proiezione stampa del film, potrebbero aver condizionato la giuria nell’emettere il verdetto. Rimangono tuttavia parecchie perplessità di fronte a un film che, per quanto girato da una mano di donna, sembra riproporre il vecchio schema per cui l’agency femminile deve prendere le mosse da un trauma (in questo caso lo stupro) e realizzarsi appieno attraverso la vendetta (siamo in pieno rape and revenge movie) e la castrazione del maschio.
Quanto al premio maggiore, al di là dei pettegolezzi che ne hanno accompagnata l’assegnazione (è stata ricordata l’amicizia di lunga data fra Del Toro e Cuaròn), andrebbe semmai sottolineato che si tratta del primo premio di un festival internazionale vinto da un prodotto targato Netflix: un fatto gravido di conseguenze, sulle quali senza dubbio si dovrà tornare in seguito.
Per il momento, vale la pena ritornare invece su Roma, un Leone d’oro che ha unito, come raramente accade, buona parte degli spettatori e dei critici. E lo facciamo partendo dalla fine, alle ultime parole apparse sullo schermo: «Shanti Shanti Shanti». Già sui titoli di coda de I figli degli uomini (2006) si leggeva questa frase, tratta da una preghiera indiana e pronunciata anche nel corso del film. Pace (“Shanti”), ripetuto tre volte: è l’invocazione buddhista del mantra della pace (per noi, per gli altri, per il mondo intero), ma è anche la parola, anche lì in triplice scansione, con cui si chiude La Terra Desolata (The Waste Land, 1922), di T. S. Eliot. La terra desolata è il paesaggio devastato che devono attraversare i cavalieri medievali per raggiungere il Sacro Graal; ma la terra desolata è pure – con torsione temporale tipicamente modernista, fatta di movimenti continui di avvicinamento e allontanamento – il mondo occidentale contemporaneo, dentro il quale la poesia, con un andirivieni continuo (tra passato e presente, tra ciò che è sepolto ma può risorgere, e ciò che è presente eppure sterile) può, però, paradossalmente, ricostruire un senso, immaginare una pace. Come a comporre una figura circolare, il film comincia e finisce con una rima visuale, man mano che la macchina da presa allarga il campo su una pozza d’acqua su un pavimento dove si riflette un aereo di passaggio. L’immagine di quell’aereo che appare e scompare promettendo altri mondi è già un momento di cinema nel cinema: ci parla degli spazi di sconfinamento del cinema di Cuaròn, e ci parla anche di una distanza vertiginosa tra alto e basso che il gioco di riflessi può rimettere in comunicazione e far scoprire.
Roma non è però, semplicemente un’autobiografia, il ritratto dell’artista da giovane. Piuttosto, fa vivere e nel medesimo tempo fa osservare ai propri spettatori l’autobiografia di un ricordo, nel senso che è la realizzazione, cinematografica di come la memoria di fatti legati a un passato remoto viva, in un certo senso, di vita propria, perché lavora non solo come materia di narrazione, come contenuto, ma come sguardo, fuoco emotivo sui dettagli, poesia: poesia sulle macerie. These fragments I have shored against my ruins, scrive ancora Eliot. D’altra parte Roma, e qui torna il rimando alla grande tradizione modernista, non ci fa stare solo dentro il ricordo ma ci chiede anche una messa a distanza da esso, per vedere come la memoria possa, al tempo stesso, esistere come processo dinamico, fatto di evoluzioni, spostamenti, restituzioni. Non è un museo, ma un laboratorio di creatività.
E così le scene che via via si susseguono in Roma, in un bianco e nero che costruisce bene anche il senso di una lontananza, parlano continuamente di una casa fantasmatica, abbracciata dalla macchina da presa con ampie panoramiche e piani sequenza, descritta con dettagli che non raccontano la realtà, in maniera trasparente, nel senso che non sono soltanto la fotografia di un mondo di quando si era bambini; e non sono investiti dal pathos della distanza con cui lavora la nostalgia. I dettagli, piuttosto, gli elementi di arredo come i particolari che ritornano, le scene tra ragazzini, le gite in famiglia (ma senza il papà, che se n’è andato) costruiscono il romanzo d’infanzia di una memoria che si reimpossessa del mondo da cui è nata, per guardare di nuovo e sistemare la storia di una famiglia che ha vissuto un abbandono e che, anche grazie alla ricomposizione narrativa, ce l’ha fatta, ha raggiunto il proprio Graal.
Questo lavoro di restituzione di una forma ai frammenti è il primo aspetto speciale del film; assieme ad esso lavora, in sinergia creativa, la scelta di restituire identità, anche linguistica, a una vita, quella di Cleo, la tata, la nana, che da cameriera e aiutante della madre dei bambini, è rimessa invece al centro del racconto: è attraverso di lei, attraverso il suo lavoro, le sue delusioni d’amore, che viene fatto esistere il mondo di Roma. E così il film, all’interno di un concorso che ha mostrato, continuamente, delle madri, ci consegna anche la madre più vera di tutti: Cleo, che non ha potuto avere figli propri perché ha abortito, per un’emorragia scatenata dallo choc del massacro del Corpus Christi; così alleva, cura i bambini della sua datrice di lavoro. Roma, in questo senso, ci parla, e in maniera rara, di un terzo mondo guardato, finalmente, senza esotismi o filtri patetici, ma con uno sguardo che restituisce dignità e pure gratitudine a un’umanità subalterna che continuamente ha nutrito e curato l’Occidente.