All’inizio degli anni ’60, tra i 45 giri di mio cugino più grande c’erano Elvis Presley, Fred Buscaglione e i primi successi dei Beatles. Ma uno dei dischi che ascoltavamo di più era La mamma, di Charles Aznavour, un pezzo ipermelodico e strappalacrime (ripreso da noi da Modugno).
Quando si racconta la storia della musica pop, si è portati inevitabilmente a schematizzarla, come nei libri di scuola: prima c’è la Rivoluzione francese, poi viene Napoleone, poi la Restaurazione, etc. Prima c’è il progressive rock, poi invece trionfa il punk… In realtà, quello che a noi può sembrare a distanza di anni un drastico e definitivo cambio della guardia nelle mode e nei gusti musicali è qualcosa di molto più complesso e sfumato. Nella musica pop, come in ogni altro ambito, il vecchio e il nuovo convivono a lungo. Negli anni di She Loves You e di Paint It Black, il “vecchio” Aznavour (classe 1924) resisteva, e ad ascoltarlo erano anche quei giovani che in teoria avrebbero dovuto snobbarlo come un residuo del passato.
Il personaggio era giusto l’opposto degli idoli pop del momento: ultraquarantenne, stempiato con riportini, basso di statura, atteggiamento da teatrante, voce melodiosissima. Eppure, anche alla generazione dei capelloni e dei chitarroni qualcosa di lui arrivava.
Uno dei pezzi che mi sono rimasti in testa (oltre a La bohème e a Il faut savoir) è Ti lasci andare, versione italiana di Tu t’laisses aller (1960). Nessun artista, credo, si è mai spinto tanto in là nel rappresentare le miserie di una donna:
Ah, che spettacolo che sei
con quelle calze sempre giù,
mezza truccata e mezza no,
coi bigodini ancora su.
Io mi domando come può
un uomo aver amato te.
Io l’ho potuto ed oltre a ciò
la vita ho dedicato a te.
Sembri tua madre che non ha
nessuna femminilità…
La versione metrica italiana di Giorgio Calabrese (traduttore di molti pezzi dello stesso autore) è – come in altri casi – un tour de force: rispettare le implacabili clausole ossìtone dell’originale francese conservando il senso di fondo del testo dev’essergli costato parecchio. Letto sulla pagina, quel repertorio di tronche in fila – su, giù, no, può, ciò, te, te… – fa davvero impressione: nemmeno la più convenzionale canzonetta italiana ne sopporterebbe tante. Eppure, cantato da Aznavour questo mostro metrico suonava quasi naturale. La sua voce intensa, ricchissima di armonici, la sua leggera pronuncia francese, riuscivano a far dimenticare le magagne del testo, e facevano suonare quei versi improbabili come una lingua a parte, inventata apposta per lui, nata per la sua musica (lo stesso effetto facevano, negli stessi anni, le versioni italiane delle canzoni del siculo-belga Adamo).
Charles Aznavour (Chahnour Verinag Aznavourian il suo nome armeno) viene oggi qualificato da noi come un cantautore. Mah. È vero che sui cantautori di casa nostra (Gino Paoli, e altri) ha esercitato una forte influenza, negli anni in cui la Francia era ancora un faro, prima che la musica americana e inglese prendessero il sopravvento; ma a me pare che con la nostra idea di cantautore lui c’entrasse poco. Forse potremmo chiamarlo più propriamente, con termine francese, uno chansonnier. Ma anche quell’etichetta mal si adatta al personaggio. Lui – cresciuto alla scuola di Edith Piaf – dichiarava di avere imparato la scrittura da Charles Trenet; ma dall’autore di Boum! e La mer molte cose lo separano. La sua idea di canzone si discosta tanto dalla nostra “canzone d’autore” quanto dalla chanson “à texte” francese degli anni d’oro (penso in particolare a Georges Brassens e a Léo Ferré).
Più che un poeta in musica, Aznavour è stato un irrefrenabile teatrante della canzone, capace di solleticare senza pudore le emozioni del pubblico. Un grande istrione, come lui stesso si definisce in uno dei suoi successi più noti.