“Il più bello dei mari / è quello che non navigammo”, recitano i versi di Nazim Hikmet. L’anima marina getta fuori bordo passato e presente, leva le ancore per essere quel che non è ancora: il mare affascina perché in esso tutto è promessa. Allontanarsi da terra è rinascere, dichiararsi disponibile, farsi trascinare dalle correnti, a caso, cercando fortuna. Al largo non c’è il vuoto, ma un pieno di meraviglie, forse un deserto ma ricco di miraggi: speranza dell’altra riva o di un’isola fortunata come Utopia, sogno radicale di un assoluto altrove, antitesi dell’umanità e dei suoi meschini affari, ha scritto un poetico cantore del mare come Jules Michelet. È dall’età romantica, ricorda W. H. Auden, che l’Occidente conosce la fascinazione del viaggio per mare, il desiderio di solcare l’oceano per fuggire l’ipocrisia della civiltà, per smarrirsi e/o ritrovarsi, per immergersi panicamente nella Natura, come chiede Hölderlin nell’Iperione: “Essere uno con il tutto, questa è la vita degli dei, questo è il cielo dell’uomo. Essere uno con tutto ciò che ha vita, fare ritorno, in una beata dimenticanza di sé, nel tutto della natura: ecco il vertice dei pensieri e delle gioie, la sacra vetta del monte, il luogo della quiete perenne, dove il meriggio perde la calura e il tuono perde la sua voce; dove il mare ribollente somiglia all’ondeggiare di un campo di spighe”.
L’invenzione del mare, per usare la formula di Alain Corbin, risale al Settecento, quando il sapere medico scopre la funzione terapeutica del bagno nelle sue acque o della passeggiata sulle sue rive. Fino ad allora il mare restava emblema dell’informe, del caos infido e minaccioso; la vastità delle acque, nel mito greco come nella Genesi biblica, è espressione dell’indifferenziato flusso primordiale, selvaggio stato d’indistinzione da cui la civiltà si difende innalzando mura di pietra, ma in cui rischia sempre di ricadere. Il mare è luogo del Male, dall’oceano che cinge i bordi del mondo abitabile emergono mostri come il Leviatano. Nell’Apocalisse di san Giovanni vengono promesse “un nuovo cielo e una nuova terra” e, quando il male sarà vinto, anche il mare non esisterà più. Errare per mare equivale ad affidarsi a potenze incontrollate e non avere garanzia di un ritorno; Esiodo negli Erga giudica stolta la scelta del fratello Perse di abbandonare il misero ma sicuro lavoro nei campi per solcare le acque nella speranza insensata di ricchezze. Di ciò che è liquido, il mare e il denaro, si diffida.
L’anima dell’uomo mediterraneo non è marinara, è per lo più contadina o pastorale, ha ribadito l’indagine storica di Fernand Braudel. La vita del Mediterraneo “è mescolata alla terra, la sua poesia è più che a metà rustica, i suoi marinai sono contadini; è il mare degli oliveti e delle vigne quanto degli stretti battelli a remi o dei navigli rotondi dei mercanti, e la sua storia non è separabile dal mondo terrestre che l’avvolge”. Né Ulisse né Giasone partono per amore del viaggio, il loro destino non è sul mare; sono gli dei e le intemperie a tenere l’eroe dall’intelligenza astuta lontano dalla sua isola. L’Odissea non è forse, notava Gilbert Durand, l’epopea della vittoria sull’onda e sui pericoli della femminilità? Dante, che reinventa la storia di Ulisse nel canto XXVI dell’Inferno, lo punisce con il naufragio per la colpa di non aver rispettato i limiti imposti da Dio, per non essersi fermato al “quia”: la brama di sapere, l’ardore di varcare i confini, è una forma di ubris, tentazione temeraria e condannabile. Il viaggio per mare è al più un male necessario, l’attraversamento di quel che tiene separate le terre, gesto sacrilego su cui pende inevitabile la punizione. “Nequiquam deus abscidit / prudens Oceano dissociabile / terras si tamen impiae / non tangenda rates transiliunt vada”: “Vano fu il proposito del dio nel dividere le terre dal mare che separa, se suo malgrado le nostre empie navi valicano gli abissi che egli aveva stabilito intangibili”, recitano i versi delle Odi di Orazio. Il “volo” dell’Ulisse dantesco non può che essere “folle”, non solo per l’insana (nefas) brama di spingersi oltre quanto Dio ha voluto separare, ma perché si svolge sull’oscurità insidiosa delle acque, quella che provoca sovente la follia dei naviganti, ricorderà ancora Michelet. È a partire dai drammi di Shakespeare che il mare diventa il luogo della sofferenza purgatoriale; conosciuta la separazione e il disordine della passione, attraversato il mondo selvaggio di Calibano su cui la tempesta li ha scaraventati, i personaggi rinsaviscono e ritrovano l’equilibrio pacificante del matrimonio.
Per millenni, l’umanità non ha mai considerato il viaggio per mare un piacere o l’esito di una scelta volontaria, lo ha trattato al più come punizione o espiazione. Eppure, l’uomo, essere di terraferma, ama rappresentarsi la sua condizione nel mondo con le immagini della navigazione. Un’antica tradizione allegorica, che dagli Egizi e dai Greci approda alla cultura cristiana, fa del peregrinare sulle acque una metafora della vita fino al suo ultimo approdo. L’imbarcazione in balia degli elementi, in cui il timone offre precario riparo allo scatenarsi delle tempeste, è immagine della fragilità del destino umano o mezzo di trasporto per l’aldilà. Il Romanticismo adatta l’immagine della navigatio vitae al proprio sentimento tragico. In Le età dell’uomo (1834) di Kaspar David Friedrich, agli esseri che dalla riva contemplano il mare corrispondono a specchio le navi, poste a distanze diverse dalla terraferma. La barca tirata a secco, capovolta come il coperchio di una bara, e le due aste che formano una croce alludono al viaggio che sta per concludere la figura solenne dell’anziano: la navigazione è giunta in porto, il grande veliero al centro del dipinto viene verso riva imponente, ammainando una delle vele. Ma la vita prosegue, alla coppia degli adulti corrispondono le navi che prendono il largo, ai bambini le piccole imbarcazioni ancora prossime alla riva. Nel Porto al chiaro di luna (1811), la malinconia dei velieri in sosta nella rada fa seguito alla febbrile agitazione diurna degli arrivi e delle partenze: il fiume della vita è giunto alla sua foce, è il tempo del riposo dopo aver superato le tempeste dell’esistenza, nella fiduciosa attesa della vita eterna, suggerita dall’ancora sulla spiaggia e dalla luna fra i campanili delle chiese.
Per chi rifiuta l’illusione di un porto ultraterreno, come Arthur Schopenhauer, la condizione umana è simile a quella del naufrago, che cerca fragili appigli per tenersi a galla, prima dell’approdo finale: l’unica base stabile e certa è la spiaggia su cui saremo infine deposti. Nella nostra esistenza siamo minacciati da continui pericoli, siamo insidiati da mille nemici, non c’è sicurezza possibile, l’unica certezza è la sconfitta finale: “la vita stessa è un mare pieno di scogli e di vortici, cui l’uomo cerca di sfuggire con la massima prudenza e cura; pur sapendo che, quand’anche gli riesca, con ogni sforzo e arte, di scamparne, perciò appunto si accosta con ogni suo passo, ed anzi vi drizza in linea retta il timone, al totale inevitabile e irreparabile naufragio: alla morte. Questo è il termine ultimo del faticoso viaggio, e per lui peggiore di tutti gli scogli, ai quali è scampato”. Per l’animo romantico, fino al Battello ebbro di Rimbaud, la precarietà dell’esistenza assume le vesti del viandante: separato dal mondo, “straniero” ad ogni comunità, il suo è un esodo senza terra promessa, nessuna Itaca lo attende, la sua direzione non conosce un porto, la meta rimane inattingibile. Il regno del marinaio è la solitudine, ha scritto Jean Cocteau. Anche sulla cima delle montagne, disperso in un “mare di nebbia” come nel dipinto di Friedrich del 1818, il viandante è un navigatore solitario in pieno oceano, senza compasso né bussola, a cui nessuna stella luminosa fa da guida. Come le nuvole per lo straniero in cammino del Baudelaire dello Spleen di Parigi, il viandante, ha osservato Antonio Prete, trova sintonia con ciò che non possiede consistenza; il mare lambisce la spiaggia, si avventa sugli scogli, ma è sempre oltre, “il mare non ha paese”, scrive il Verga dei Malavoglia al momento della partenza di ‘Ntoni. Il mare non si divide come si dividono le terre, segnando i confini con le spade. Chi dice addio alla propria casa e ai propri cari avverte il senso dello spaesamento, quella non appartenenza che lo accomuna alle acque.
L’eroe antico partiva sul mare per giungere in un luogo, riportarne un bene prezioso e tornare in patria, non credeva che la vera vita si svolgesse nel viaggio in balia delle potenze avverse degli elementi e degli dei. Ulisse, vinto dal dolore del ritorno, ha sempre in mente Itaca, luogo degli affetti, in cui chiudere l’esistenza e trovare sepoltura; non si augura che la sua strada sia lunga, “fertile in avventure e in esperienze”, come suggeriscono i versi dell’Odissea di Kavafis, non vorrebbe far durare a lungo il suo peregrinare per giungere vecchio in patria, reso forte e ricco dai “tesori accumulati per strada”. È solo dall’età romantica che gli uomini a cui un’anima è rimasta “senza sapere perché dicono sempre: Andiamo!” (Baudelaire, Il viaggio); è solo quando la città si riempie di una folla anonima e spiritualmente morta, che “i veri viaggiatori partono per partire”. A chi quaggiù si sente in esilio e aspira alla vera patria il mare appare l’unico luogo in cui sperimentare l’urgenza dell’altrove, rianimarsi assaporando quella terribile acqua di vita di cui la città è priva: “Il mare è il luogo in cui avvengono gli incontri decisivi, i momenti di eterna scelta, la tentazione, la caduta e la redenzione. La vita a terra è sempre banale” (Auden). Evadere verso il mare selvaggio è l’unico modo per fuggire la città infernale, diventata deserto della mediocrità; due distese desolate e prive di limiti, ma se il mare è l’alfa dell’esistenza, forza primordiale, serbatoio di potenzialità, in cui la vita brulica sotto la superficie, il deserto è l’omega, dove la vita si conclude nella secchezza della polvere. La punizione del Vecchio Marinaio di Coleridge, colpevole di aver ucciso l’albatros, inizia, ha osservato Auden, quando il mare privo di vento non consente più alla nave di muoversi: acqua da ogni lato, deserto liquido che non dà sollievo all’arsura, “Anche il profondo imputridiva, o Cristo! / Che dovesse accaderci tale cosa! / Strisciavano vischiosi sulle zampe / corpi informi per l’acqua vischiosa”.
Il desiderio di sfuggire alla noia di una vita sempre uguale o al tempo che incalza, allo spleen che rinnova la monotonia dei giorni, trova nel mare il suo appagamento. “Pensare per lui vuol dire: alzare le vele”, ha scritto Benjamin a proposito di Baudelaire, riferendosi proprio alla ricerca dell’ignoto che trova la sua espressione nell’iconografia del viaggio. Baudelaire passò otto mesi in mare, esperienza giovanile che significò attraccare in porti sconosciuti prima, sostare in isole rigogliose, fra gli assalti della malattia chiamata nostalgia. Questi Tropici della Malinconia, ha osservato Prete, saranno l’orizzonte del paesaggio interiore del poeta; il viaggio per mare è l’unico rimedio alla grande Malattia il cui nome è orrore del Domicilio. Anche l’Ulisse di Kavafis conosce una Seconda odissea (1894); tornato nella sua isola, prova noia per la pace e il riposo, una noia che l’affetto e la fedeltà dei suoi cari non riescono a vincere. Solo ora viene assalito dalla nostalgia, non per il desiderio ormai appagato di tornare a Itaca, ma “per i viaggi e per i mattutini / approdi in porti in cui, con infinita gioia, / entri per la prima volta”. Ulisse riparte per la seconda odissea, forse più grande della prima, vinto dalla sete di mare e dall’odio per l’aria della terraferma; mentre le coste della sua isola svaniscono, sente che sta tornando a vivere, non più gravato dagli affetti consueti, non più vincolato alle solite cose note. “E il suo cuore avventuriero / con freddezza gioiva, privo d’amore”.
Aprire le ali, dare vento alle vele, è un modo per dare risposta alla fascinazione dell’ignoto suggerita dal senso della lontananza, che attrae e spaventa, una fascinazione non sconfitta dalla consapevolezza che l’esperienza del viaggio ci consegnerà non una gaia scienza, ma un amer savoir. L’altrove è come qui, la vita offre ormai ovunque lo stesso spettacolo desolante di miseria e grettezza umana: “Dai viaggi che amara conoscenza si ricava! / Il mondo monotono e meschino ci mostra, / ieri e oggi, domani e sempre, l’immagine nostra: / un’oasi d’orrore in un deserto di noia!” (Baudelaire, Il viaggio). Anche se ad attenderci fossero solo miraggi, non viene meno l’impulso a partire, a staccare corpo e anima dalla riva. Anche la Morte, il vecchio capitano, attende di levare l’ancora, per sfuggire il tedio navigando verso l’ignoto dell’abisso insondabile: “vogliamo tuffarci nell’abisso, Inferno o Cielo, cosa importa? / discendere l’Ignoto nel trovarvi nel fondo, infine, il nuovo”.
Il mare è lo specchio dell’uomo libero: chi ha “il cuore gonfio di rancori e desideri amari”, chi in sé coltiva una collera immensa, non può che specchiarsi nella collera del mare tempestoso. L’uomo e il mare, “implacabili fratelli”, nascondono abissi che nessuno ha mai sondato, in essi si aprono lontananze che nessun orizzonte può rinchiudere (Baudelaire, L’uomo e il mare). È a questo vertiginoso abisso che, nel primo libro dei Canti di Maldoror, Lautréamont rivolge la sua lode, al “vecchio Oceano” che aveva attraversato da ragazzo per giungere dall’Uruguay alla Francia, terra dei genitori. La potenza e l’immensità dell’oceano non sono paragonabili alle misere forze degli uomini che, incapaci di dominarlo, ne provano paura e rispetto. Il succedersi ritmato delle onde ingenera il sentimento della malinconia, ci avverte che “tutto è schiuma”, che un’analoga sorte attende il frangersi dei flutti sulle rive e quello delle nostre esistenze. È la malinconia che Jules Michelet vede rappresentata nell’immersione del sole nelle acque per chi vive nell’Occidente, terra del tramonto. Il mare è l’elemento in cui non si respira, temibile e tenebroso, dove ben presto scendendo in profondità la luce scompare; gli orientali lo definiscono la notte dell’abisso e in molte lingue il suo nome è sinonimo di deserto e notte. Ma Lautréamont pone a confronto la profondità vertiginosa degli abissi oceanici, ancora sconosciuta, con quella del cuore umano. “Sì, che cosa è più profondo, che cosa è più impenetrabile tra i due: l’oceano o il cuore umano?” Forse lo è di più il secondo, se no come spiegare che due amanti passino dall’amore all’odio, che gli uomini gioiscano dei dolori degli altri, anche dei propri amici? La terribile fierezza dell’oceano diviene il correlativo spaventoso, paragonabile alla vendetta di Dio, con cui la crudeltà umana avverte risonanza: “Rispondimi, oceano, vuoi essere mio fratello?”. L’umanità debole e ipocrita costituisce un’antitesi buffonesca alla terribile maestà dell’oceano, ma quel che li rende simili è la prossimità dell’inferno: “Dimmi se sei la sede del principe delle tenebre […] e se l’alito di Satana crea le tempeste che sollevano fino alle nubi le tue acque salate”.
Nel mare, Narcisi inconsolati, ritroviamo le nostre ire e i nostri dolori, “cullando il nostro infinito sull’infinito dei mari” (Baudelaire). Il mare, scrive Antonio Prete, è un infinito in miniatura (infini diminutif), cerchiamo attraverso di esso di dare figura a ciò che di per sé non ha figura. La vastità dell’oceano, il cui orizzonte non si rende visibile, è figura eminente del sentimento del sublime; di quello “matematico”, estensione senza limiti, grandezza al di là di ogni comparazione, come di quello “dinamico”, per la devastante potenza delle tempeste che lo sconvolgono, secondo la distinzione proposta dal Kant della Critica del Giudizio (1791). L’uomo avverte lo strano piacere di sentirsi soverchiato, quasi ridotto a nulla, prima di ritrovare in sé quella destinazione sovrannaturale che lo fa sentire comunque superiore alla natura. Il piacere che si prova dinnanzi allo sconfinato si mescola al timore, ciò che è immenso testimonia in negativo della nostra marginalità nell’universo; scrutare l’orizzonte là dove lo sguardo si apre senza limiti apparenti, nel mare come nel deserto, equivale a porsi sulla soglia, perché, l’orizzonte è sempre l’oltre di noi stessi, svela così l’essenza stessa della lontananza. “L’orizzonte è, nell’attesa, la linea di una promessa” (Prete): da lì si schiudono possibili epifanie, annunci di apparizioni, segnali tremolanti dell’incertezza a venire.
In quel libretto prezioso che è Raccontare il mare, il solo scrittore italiano a cui Biorn Larsson dedica un capitolo è Francesco Biamonti, nato e vissuto nell’entroterra di Ventimiglia. Lo sguardo romantico sul mare appartiene ormai al passato; sono i terraioli che, passeggiando nei porti o sulle spiagge, scrutando l’orizzonte verso l’infinito, sognano partenze per lidi esotici e pensano al marinaio come a un simbolo di libertà e purezza. Il narratore protagonista di Attesa sul mare può ancora dire: “era il mondo che non andava. Solo sul mare passava ancora qualche ora carica di pace”, ma la nave che comanda trasporta clandestinamente armi per i combattenti nella ex Jugoslavia. I suoi anni sono volati via sul mare, da un imbarco all’altro, la sua vita era stata un “triste corteo di navigli”, prima di “entrare nel crepuscolo a vele ammainate”. I personaggi dei romanzi di Biamonti sono spesso avvolti dal “manto della malinconia”, il loro sguardo sul mare è in cerca di un aldilà, di un oltre l’orizzonte in cui potersi perdere; ma ormai si sono ritirati dal mondo, lo osservano rassegnati e disillusi, neanche sulle acque si può sfuggire al senso opprimente della fugacità dell’esistenza. Il mondo intero è come una nave naufragata di cui non resteranno tracce; viaggiare per mare è solo un modo come un altro per non mettere radici e per nascondersi. Il mare è assenza di memoria, ma ci si può rendere invisibili anche stando fermi nei luoghi terrestri, senza lasciarsi più illudere dai miraggi che appaiono sulla superficie dell’oceano o del deserto.
Immagini di Anna Enrica Passoni.
Per saperne di più:
William Butler Auden, Gl’irati flutti o l’iconografia romantica del mare, 1950, Arsenale, 1987
William Butler Auden, Il mare e lo specchio, 1944, SE, 1988
Gaston Bachelard, L’eau et les rêves, 1942, Psicanalisi delle acque, Red, 1992
Baudelaire, I fiori del male, 1857, Feltrinelli, a cura di Antonio Prete, 2014
Francesco Biamonti, Attesa sul mare, 1994, Einaudi
Fernand Braudel, Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II, 1949, Einaudi
Alain Corbin, L’invenzione del mare, 1988, Marsilio
Friedrich, Scritti sull’arte, Abscondita, 2017
Björn Larsson, Raccontare il mare, Iperborea, 2015
Lautréamont, Canti di Maldoror, 1868, Feltrinelli, 1980
Melville Hermann, Moby Dick, 1851, trad. di C. Minoli, Mondadori, 1986
Michelet Jules, Il mare, 1861, Il nuovo melangolo, 1992
Antonio Prete, Trattato della lontananza, Bollati Boringhieri, 2008
Marcel Proust, All’ombra delle fanciulle in fiore (1919), trad. di G. Raboni, Mondadori
Schopenhauer Arthur, Il mondo come volontà e rappresentazione, 1818, trad. it. di P. Savj-Lopez e G. De Lorenzo, Laterza, 1976