Abbiamo visto “ Green Zone “ regia di Paul Greengrass.
Come si fa a parlare della più grande bufala degli ultimi cinquantanni spiegandone le motivazioni e facendo nomi e cognomi ? Per bufala drammatica intendiamo le motivazioni della guerra in Iraq. Vi ricordate Colin Powell – faccia onesta e ministro degli esteri USA – alla conferenza stampa di Febbario 2003 quando dichiara che ci sono le prove delle armi di distruzione di massa in Iraq ? E dei giornali americani che ci rifilavano la bufala che l’esercito iracheno era organizzatissimo, forse il quarto esercito più forte al mondo ? E tutte le baggianate di voler riportare la democrazia in quel Paese ? E alla fine sembrava che Saddam fosse l’autore dell’11 Settembre e che era alleato con Osama. Argomento difficile da trattare e politicamente ancora più complesso, perché gran parte di quei signori che hanno organizzato in seconda fila il massacro sono ancora lì, al centro del potere. E allora un film doverosamente di taglio politico si trasforma in un film di guerra e la guerra ci fa dimenticare un po’ le colpe oscene di Bush, figlio e padre, Colin Powell, Dick Cheney, Condoleza Rice, Donald Rumsfeld. Tuttavia nel film ci sono due o tre momenti di critica all’impegno americano in Iraq ( come la visione dell’interno di un carcere, il trattamento di alcuni civili, la piscina di un albergo dove si fanno affari e complotti e si dimentica di essere in un luogo di morte e sofferenza ) ma forse involontariamente il tutto trova una giustificazione perché la guerra in fondo non è un invito a pranzo e l’orrore è nelle cose stesse delle armi.
Siamo in Iraq nel 2003, l’esercito americano ha vinto una guerra che non ha ancora combattuto. L’esercito baatista di Saddam si è nascosto e aspetta di essere richiamato dagli americani a rifare un Iraq senza Hussein. E’ il momento
per i soldati americani di trovare quelle armi di distruzione di massa che hanno scatenato il conflitto e che giustificherebbe tutto e permetterebbe con maggiore tranquillità gli affari per il capitalismo americano. L’ufficiale Roy Miller, valoroso e coraggioso soldato, è a capo di una delle squadre che ogni giorno si reca nei siti indicati come probabili nascondigli delle famigerate armi, ma non trovano nulla e qualche soldato ci rimette anche la vita inutilmente. Miller è l’unico che si fa delle domande, trova il suo lavoro inutile e incomprensibile e desidera saperne di più. Chiede ripetutamente ma non riceve risposte. Casualmente entra in possesso di un libretto che indicherebbe i luoghi dove si nasconde il Generale Al Rawi (il Jack di Fiori secondo il mazzo di carte fornito dal governo e l’unico che dovrebbe conoscere la verità sulle armi di distruzione di massa). Non sapendo di chi fidarsi tra un burocrate del governo che muove tutti i fili e un capo della Cia, dopo poco preferisce fidarsi del secondo ma punta sul cavallo perdente. E’ obbligato quindi a non procedere dai suoi superiori e di rientrare nei ranghi. Ma con un clichè da film hollywoodiano Miller decide di trovare Al Rawi da solo e salvarlo dai suoi colleghi che, invece che arrestarlo, vogliono ucciderlo. E attraverso la caccia scoprirà il reale motivo della guerra in Iraq.
Il soggetto è tratto dal libro “Imperial Life in the Emerald City: Inside Iraq’s Green Zone” di Rajiv Chandrasekaran, un giornalista indiano-americano che scrive per il Washington Post e che è stato a Baghdad, a Cairo e nel Sudest asiatico oltre che in Afghanistan. Il romanzo che ha avuto molti riconoscimenti negli Stati Uniti ma che non è stato pubblicato in Italia racconta in modo ‘romanzato’ le motivazioni dietro la seconda guerra in Iraq e il film trova la sua vera ragione d’esistere più nella scelta di una storia di genere che non in un thriller politico. Il regista ( conosciuto per due film importanti La teoria del volo e Bloody Sunday, sulla domenica di sangue a Derry in Irlanda ) in questo suo ultimo lavoro non pretende di insegnarci niente che non conosciamo già, anzi si appoggia a un finale già noto ( le armi di distruzione non ci sono ), dando per scontato il tutto senza nemmeno criticare le scelte di Bush e non scavando oltre.