Heillange non sembra una città immaginaria, appare più come un’isola, con un lago al posto del mare a separarla dal mondo. Esistono numerose isole, come spiegava Margaret Cohen, recalcitranti alle trasformazioni e ai cambiamenti: a ben vedere non è il caso di Heillange. Heillange è semplicemente passiva, un luogo in cui le cose sembra che accadano solo perché devono accadere, con il lavorio del tempo capace unicamente di generare un cambiamento ripetitivo e quasi indifferenziato. È qui, in questo spazio vuoto situato da qualche parte nell’Est della Francia, che è ambientato il romanzo di Nicolas Mathieu Leurs enfants après eux (Actes sud, 2018), insignito di recente, un po’ a sorpresa, del prestigioso Prix Goncourt (il corrispettivo del nostrano Premio Strega).
Mathieu (1978), alla sua seconda prova da romanziere, ricostruisce in questa narrazione la crisi economica, sociale, quindi culturale di una zona che tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta ha subito l’onta feroce della deindustrializzazione a seguito della chiusura definitiva della Metalor, l’acciaieria che per decenni aveva dato lavoro a tutta una comunità: «Durante un secolo gli altoforni di Heillange avevano drenato tutto ciò che di esistente conteneva la regione, ingoiando gli esseri, le ore, le materie prime» (p. 87). Quel corpo insaziabile aveva resistito fin quando aveva potuto, alimentato dalle fatiche degli uomini. Eppure il trauma di questa dismissione apocalittica viene raccontato non dalla voce dei protagonisti di quella drammatica vicenda, bensì attraverso gli occhi dei figli, adolescenti cresciuti sotto l’ombra dei mostri di ruggine che riempiono ancora il panorama desolato della zona, con nelle orecchie i disturbanti riverberi nostalgici dei loro padri: che da quel tradimento dei padroni non si rimetteranno mai.
A ben vedere Leurs enfants après eux ci parla di un cambiamento, della rarefazione del lavoro in un posto nel quale le persone erano state abituate a non porsi nemmeno il problema dell’impiego; di generazione in generazione si entrava e usciva dalla fabbrica con una sorta di temporalità ciclica ben rodata nel tempo: «Il suo vecchio aveva lavorato alla Metalor […] fino all’incidente. Anche i suoi zii avevano passato la vita là dentro. E suo nonno. Era la stessa storia per i Casati e per la metà della gente della vallata» (p. 88).
Tuttavia, quando è arrivata la crisi, foriera di una frattura definitiva rispetto al passato, rompendo una cultura e una struttura sociale ben impiantate sul territorio, non è emersa una nuova cultura: ovvero, non vi è stata palingenesi, e la micro-società di Heillange e dintorni è rimasta ancorata a un ricordo rugginoso senza saperne venire fuori, incapace di canalizzare la rabbia e il dolore latenti in una comunità corrosa dall’alcolismo, dalla noia violenta e dal consumo di droghe. È per tale ragione, probabilmente, che l’autore ha deciso di dar voce alla gioventù locale: perché solo loro, i giovani, possono avere la volontà e la forza di sbarazzarsi dei vecchi cimeli e delle rovine di un tempo che non hanno nemmeno conosciuto, e che non sembra attrarli: perché ormai è defunto. Ma per qualche motivo non riescono, oppressi dalla ciclicità del tempo stesso: i figli dopo di loro, come recita il titolo. Puri prodotti della crisi, «adesso ascoltavano, privi di sogni, quel gruppo di Seattle che si chiamava Nirvana. […] Il paradiso era perduto per davvero, la rivoluzione non avrà luogo; non restava altro che fare rumore» (p. 52). Fare rumore e consumare, perché sono gli anni in cui si afferma un consumismo sfrenato che Mathieu rappresenta nel testo attraverso una sorta di ossessiva tassonomia delle marche in voga all’epoca, mettendo in risalto in tal modo un azzeramento dell’identità collettiva locale, che in poco tempo si conformerà a tutte le altre.
A livello strutturale il romanzo è organizzato in quattro parti, corrispondenti ognuna a un’estate diversa (1992, 1994, 1996 e infine 1998), mentre i personaggi principali sono essenzialmente tre: Anthony, Hacine e, appena più defilata, Steph. Tre coetanei appartenenti a tre classi, quindi tre universi differenti, dei quali viene narrata la bildung adolescenziale, fino all’ingresso nella maggiore età, mentre a fare da contraltare ai tre si staglia la figura di Patrick Casati – il padre di Anthony, – un ex operaio di cui a essere raccontata sarà la de-formazione, la caduta rovinosa che ha trascinato tutto con sé, annebbiando qualsiasi possibilità di rigenerazione. È fuor di dubbio in ogni caso che ad essere centrale nel libro è soprattutto la vicenda di Anthony, la cui storia innerva di sé tutta la tela romanzesca tracciata da Mathieu, fin dai primi capitoli, che si aprono con una festa per adolescenti in una villa della vallata, alla quale partecipano per la prima volta anche Anthony e il cugino, appena quattordicenni; festa che riserverà una brutta sorpresa: «Arrivarono dietro la catasta di legno dove avevano lasciato la moto qualche ora prima. Più o meno in un’altra vita. L’YZ non era più lì. Anthony cadde in ginocchio» (p. 53).
Il furto della moto si rivelerà la cesura inattesa del verso, i cui riverberi avranno conseguenze drammatiche per due nuclei familiari, quello di Anthony ovviamente – che aveva sottratto di nascosto la moto al padre con il beneplacito della madre, – e quello di Hacine, il ladro che vive nella banlieue reietta, figlio di un ex operaio marocchino, che per vendicarsi dopo essere stato escluso dalla festa si porta via l’YZ, senza nemmeno sapere di chi fosse. Difatti, a seguito di questo episodio in apparenza banale, i genitori di Anthony si separeranno definitivamente, dopo l’ennesima esplosione di collera del padre, Patrick, perennemente alticcio e incline a scatti violenti, mentre dall’altra parte il vecchio di Hacine, Malek Bouali, deciderà di rispedirlo in Marocco dalla madre per un paio d’anni e toglierlo così dalla cattiva strada, non senza dolori e rimpianti per una scommessa perduta: quella dell’integrazione. A questi due personaggi si contrappone la figura di Steph, figlia dell’alta borghesia della regione e adolescente sessualmente precoce che Anthony inseguirà per lunghi anni (alla famosa festa del furto dell’YZ vi si era recato proprio per vedere Steph). Sarà lei in fondo l’unica dei tre a trovare una reale catarsi personale attraverso la fuga, abbandonando il pantano di Heillange prima per gli studi nella lontana Parigi, quindi per raggiungere il nuovo compagno in Canada. Tuttavia, anche il suo percorso sarà irto di difficoltà e costellato di violenze, di vuoto genitoriale e di alcol: «Sotto i suoi occhi il paesaggio offriva solamente rovine, anticaglie, la noia delle settimane senza soprese, dei volti tutti conosciuti» (p. 266).
In questo tagliato provinciale nefasto, nel quale sembra riprodursi in maniera quasi più esacerbata il darwinismo sociale della metropoli, molti degli ex operai e sindacalisti, un tempo devoti alla sinistra, si sono buttati fra le braccia del Front National, come Luc Grandemagne, amico dei Casati, secondo il quale l’infelicità del territorio «derivava infatti dai flussi migratori. Bastava fare un calcolo. Il numero di immigrati, circa tre milioni, corrispondeva esattamente a quello dei disoccupati. Strana coincidenza» (p. 252). Per lui, come per molti altri suoi compaesani, quei «nullafacenti d’importazione» erano la causa dei mali contemporanei, e sarebbe stato necessario imporre delle quote, delle restrizioni all’accoglienza. Questa diagnosi condivisa scavava ancora di più il fossato sociale tra i francesi e gli abitanti delle periferie emarginate, prevalentemente di origine magrebina e quasi tutti ex operai della defunta Metalor. Di conseguenza, tale frattura si era riprodotta tale e quale anche nei figli, generando esclusione e vergogna in particolare fra i cosiddetti «immigrati di seconda generazione» come Hacine: «Si sentiva a disagio in mezzo a tutti quegli uomini nati laggiù, pieni di idee ingenue, che avevano lavorato come delle bestie e che finivano rinchiusi nel loro angolino, benvenuti ma non troppo» (p. 269). Dei padri che erano sempre rimasti in sospeso tra due lingue e culture, che parlavano un francese relativo, mal pagati, sradicati, senza eredità da trasmettere. E i loro figli, afflitti da una sorta di rabbia incurabile, sapevano in partenza che «lavorare bene a scuola, riuscire, fare carriera, stare al gioco, diventava quasi impossibile» (p. 270).
Nell’isola di Heillange, come ci mostra Mathieu, il solo luogo in cui il sociale sembra espandersi per aprirsi a tutte le diverse varianti che lo compongono è la riva del lago, uno spazio di confine, altresì di forte interazione, nel quale, ogni quattordici di luglio, gruppi di persone che abitano lo stesso mondo, di solito separati dalla stratificazione sociale, s’incontrano e si ritrovano, come nel cronotopo bachtiniano della strada, nonostante le differenze e l’apparente incomunicabilità che vige tra essi. Ma la vera occasione di pax sociale e di riscatto collettivo, che chiude il romanzo, sarà data dai Mondiali del 1998, quelli della nazionale dei blancs, blacks, beurs, quelli della vecchia Francia del commissario tecnico Aimé Jacquet e della nuova Francia di Zinedine Zidane: «Come altri cinquanta milioni di coglioni, Anthony era stato al gioco, la sua infelicità sospesa temporaneamente, il suo desiderio fuso nella grande aspirazione nazionale. […] Dall’alto al basso della griglia salariale, dal fondo della campagna fino alla Défense, il paese bramava all’unisono» (p. 383). La pace, sfociata in un entusiasmo nuovo mai vissuto prima, che renderà viva e dinamica persino l’apatica e deserta Heillange, sarà ovviamente effimera, e il ritorno alla realtà sarà forse anche più duro, in quanto pregno di maggiore consapevolezza circa lo stato delle cose. Ma permetterà altresì a Anthony e Hacine, nel frattempo diventati lavoratori interinali, di intraprendere per la prima volta un dialogo normalizzato, dopo anni di attacchi e di violenze che fecero da corollario al famoso furto della YZ. I due s’incontrano al bar dell’Usine (la Fabbrica) durante la finale che la Francia vincerà per tre a zero contro il Brasile di Ronaldo. Si dicono, una volta rimasti soli, che tutto è finito: che i problemi tra loro appartengono al passato. Eppure hanno così poco da dirsi: «Erano cresciuti nella stessa città, si annoiavano negli stessi lavori, avevano frequentato le stesse scuole, abbandonate troppo presto. I loro padri avevano lavorato alla Metalor. Si erano incrociati cento volte. Pertanto tutti questi punti in comune non rappresentavano niente. Uno muro campeggiava tra di loro» (p. 410).
Riappare qui l’escamotage della moto, utilizzato all’inizio della narrazione dall’autore, e che ritorna in maniera ciclica nel finale attraverso un rovesciamento della situazione: questa volta è Hacine che possiede una moto, il cui acquisto ha causato la temporanea separazione dalla sua compagna Coralie. Anthony, dopo varie insistenze, otterrà da Hacine di condurre la due ruote nello spiazzo deserto di fronte a un supermercato: è una sorta di vendetta servita fredda. Anthony, alterato dall’alcol ingerito durante la finale, fa due giri dello spiazzo, e quando Hacine gli intima di fermarsi si lascia prendere dall’istinto: «Non temeva niente. Alla fine se la svignò. Senza nemmeno pensarci prese la strada che portava a casa di Steph. Il suo cuore batteva più forte di quello della moto» (p. 411). Ma per Steph oramai tutto ciò non aveva più senso, né Anthony, né il passato, né tantomeno Heillange: qualche giorno più tardi avrebbe preso un aereo direzione Canada. Lasciava un vuoto fisico, un vuoto che Anthony sentiva nel petto e nella pancia: «La vita continuava. Era questa la cosa più dura» (p. 415).
Leurs enfants après eux sembra conformarsi a tratti come una rappresentazione fin troppo cronachistica, quasi manichea, che non lascia spazio, se non nel finale, a slanci poetici più alti, mantenendosi pedissequamente sul registro di una lingua media (caratteristica di molti degli ultimi Prix Goncourt) inficiata talvolta dal gergo adolescenziale e banlieusard. Forse perché, come osservava Dominique Viart in Écrire le présent (Armand Colin, 2013), il presente è effimero e contingente, e possiamo coglierlo solo per frammenti; ciò indurrebbe «ad un divenire-diario del romanzo che si riduce di conseguenza a una specie di cronaca accumulativa». Va sottolineato inoltre che le sequenze dialogiche, spesso molto stringate, appaiono quasi come dei lunghi silenzi, dei mormorii di suoni senza senso, volti probabilmente a dar forma alla difficoltà comunicativa caratteristica dei vari soggetti parlanti. Inoltre, la psicologia dei personaggi è talvolta troppo stereotipata, dando vita delle volte a dei tipi statici, impermeabili a qualsivoglia evoluzione. Di contro, va dato atto a Mathieu di aver saputo dar voce a un mondo che ha perso i puntelli su cui si reggeva, e che si è ormai accasciato su se stesso. L’autore, insomma, sembra essere spinto da quella foga, da quel desiderio di attorcigliare lo sguardo, come diceva Jean-Luc Nancy a proposito di Flaubert, «fino al punto estremo in cui la vita originaria scintilla in una cellula incandescente come una stella». Ma anche dalla tentazione di perdersi nella miseria, sociale e culturale, del mondo raccontato, seppur con la limitatezza dei propri strumenti.
Un romanzo che diviene così una sorta di documento, un’iconografia ingiallita di un’epoca. E tale documento potrebbe anche essere considerato, per dirla con l’Agamben di Infanzia e storia (Einaudi, 2001), come «il prologo (o, piuttosto, come la cera persa) di un’opera mai scritta»: perché, anche se lo possiamo immaginare, non sappiamo cosa succederà nel seguito delle vite di Anthony, Hacine e Steph, né tantomeno cosa ne sarà di tutte le Heillange che costellano questo Esagono così socialmente disintegrato e disintegrante, in un contesto capitalistico profondamente riconfigurato e in continua espansione.
La traduzione delle citazioni è di Roberto Lapia.