Nutriamo un sentimento di venerazione per Alain Resnais, maestro conosciutissimo e rispettato dagli amanti del Cinema-Cinema e non molto conosciuto dal grande pubblico. Parlare del suo Cinema è come parlare di Mozart per chi ama la musica classica o Miles Davis per chi preferisce il jazz; è come se si parlasse di Picasso in pittura o Proust in letteratura. Il 3 giugno compirà 88 anni e ci regala un film di una libertà sconcertante ( libertà che si trova più in vecchietti come De Oliveira o Allen che non in tanti ‘giovani’ affermati ). Una libertà che si permette con naturalezza di ridicolizzare gli sforzi vanagloriosi dei presunti innovatori del cinema di genere nostrani. Resnais ha iniziato la sua carriera come attore interpretando un piccolo ruolo nel film “ Les visiteurs du soir “ di Marcel Carnè del 1941 ( uno di quei registi di cui tutti dovrebbero aver visto almeno due o tre film ). Nel 1946 dirige il suo primo film “ Ouvert pour cause d’inventaire “, con l’attore mito Gérard Philipe, morto a soli 37 anni nel 1959. Gira successivamente una ventina di documentari, tra i quali “ Van Gogh “, che vince l’Oscar, “ Guernica “, che accosta le opere di Picasso all’orrore del bombardamento della cittadina basca. Nel 1953 dirige con Chris Marker “ Les statues meurent aussi “, sulla mercificazione dell’arte africana ad opera dell’occidente. Due anni dopo dirige “ Notte e nebbia “, documentario sull’Olocausto girato nel campo di concentramento di Auschwitz. Trascorre quasi dieci anni dedicandosi a produrre documentari e partecipando al dibattito teorico della Nouvelle Vague che lo vede tra i fondatori ma sempre un po’ in disparte. Nel 1958 chiede alla scrittrice Marguerite Duras di scrivergli un film, lei gli propone “ Hiroshima mon amour “”. Il film è apprezzato da critica e pubblico per l’innovazione del linguaggio e Louis Male scriverà: con Hiroshima mon amour, cambiò la Storia del cinema. E la cambierà effettivamente. Una storia d’amore incantevole fra un’attrice francese ( Emmanuelle Riva ) e un architetto giapponese sullo sfondo del Giappone post-bomba atomica: la scusa perfetta per rompere una vecchia tradizione del linguaggio filmico e imporne una nuova che compenetra dialoghi e monologhi, immagini documentarie e poesie, doppie realtà fra culture diverse ma che concorrono a un lungo discorso sulla memoria. Nel 1961 realizza “ L’anno scorso a Marienbad ”, scritto da Alain Robbe-Grillet ( padre del Nouveau Roman francese e anche regista di opere filmiche di metalinguaggio ), una decostruzione narrativa (cioè quando la storia viene spezzettata e mostrata in ordine non cronologico) che vede l’interpretazione di Giorgio Albertazzi e che vincerà un Leone d’Oro. Nel 1963 dirige un altro film straordinario “ Muriel, il tempo di un ritorno “ sugli effetti traumatici della guerra d’Algeria su un giovane soldato. Nel 1966, con la sceneggiatura di Jorge Semprun dirige la storia di un militante antifranchista spagnolo, “ La guerra è finita ” con Yves Montand . Quarta gemma di una carrirera perfetta. Altri film da segnalare rapidamente, “ Stavisky il grande truffatore “ con Jean-Paul Belmondo, l’eccezionale “ Providence “ con un cast inglese da fine del mondo e unico film che giochi criticamente sui rapporti con la letteratura. Dirige Gérard Depardieu in “ Mon oncle d’Amérique “ basato sulle teorie del fisiologo Henri Laborit sui meccanismi di difesa del cervello ( Laborit tra l’altro è l’autore del saggio “ Elogio della fuga “ ), con “ La vita è un romanzo “ segna un punto di svolta del suo cinema: il regista si concentra sulla messa in scena di complessi congegni narrativi in cui si intrecciano diversi piani temporali e differenti generi cinematografici ( commedia, storico, musical, fantasy ), ma soprattutto crea un gruppo di attori che ritornerà nei film successivi: Sabine Azéma ( sua nuova compagna e protagonista anche del suo ultimo “ Gli amori Folli “ ), Pierre Arditi, André Dussolier e Fanny Ardant.
Per concludere questa piccola digressione su Resnais vorremmo terminare con una brevissima analisi filmica di questo maestro del Novecento: la sua genialità, il suo essere prototipo è quello di rimette in discussione i codici della narrazione cinematografica tradizionale ( un po’ come Godard ma senza lo spirito rivoluzionario e distruttivo ): abolisce il racconto a intrigo per esplorare le combinazioni narrative, le analogie, le realtà apparenti e non lineari. Le costruzioni narrative fanno incrociare diversi personaggi, percorsi temporali o piani di realtà nello stesso luogo o in universi volutamente artificiali e teatrali. La costruzione artificiale e anti-naturalistica del racconto permette al regista di indagare nei dettagli la condizione umana dei suoi personaggi, studiati come animali più o meno in gabbia, un processo che gli permette di spiegare il caos di esistenze fatte di immagini contraddittorie, frammenti di ricordi, avvenimenti vissuti o immaginati, uniti in modo più simile alla realtà sensibile che all’ordine e alla regolarità della narrazione classica.
“ Gli amori folli “ è tratto dal romanzo di Christian Gailly, “ L’incident “, “ Les Herbes folles “, titolo francese del film, più appropriato, racconta delle erbe folli, quei fili verdi che a volte si notano tra le pieghe dell’asfalto, fragili ma resistenti che rompono il cemento, una vita altra che emerge in condizioni avverse proprio li dove non ci si aspetterebbe.
Marguerite (una stralunata e originale Sabine Azema ) è una signora borghese di circa sessant’anni, quando è giù di morale entra in un elegante negozio del centro di Parigi e compra un paio di scarpe belle e costose. Sollevata, esce dal negozio ma subisce lo scippo della borsa; non si perde d’animo rientra nel negozio e si fa ridare il danaro dell’acquisto e fa mettere da parte il paio di scarpe rosse. Georges ( un sempre bravo e equilibrato André. Dussolier), un signore ormai in pensione, un po’ svagato, ma ancora fisicamente attraente, trova il portafogli di Marguerite per terra accanto alla sua vettura, nel parcheggio di un centro commerciale: comincia a pensare su cosa fare. La chiama ? Va alla polizia ? Ci pensa e ci ripensa, fino a fantasticare sulla donna di cui ha anche due foto; è attratto da lei e dalla circostanza fortuita, e senza rendersene conto, ancora prima di contattarla, inizia a desiderarla ma rifugge anche da questa ipotesi. E non perché ha una bella e tollerante moglie, ma per quello che è in noi stessi e che non conosciamo nel profondo. Ma, dopo un po’, il desiderio è troppo forte, vuole conoscerla. Lei è una donna solitaria, fa la dentista e per hobby pilota un aereo leggero. Marguerite gli resiste, ma per poco. Tocca a lui allora resisterle. È una corsa verso l’errore, piena di vita, inarrestabile. Inizia un girotondo di desideri e di amore inespresso. Ed ecco che è proprio Marguerite a rendersi conto di non poter fare più a meno di quelle attenzioni e a partire alla carica, con l’aiuto di una collega dentista, per riconquistare il suo bizzoso ammiratore, coinvolgendo in questo instabile balletto persino la moglie di lui. Fino a che tutti conoscono tutti e verso la fine fanno un volo sul bimotore di Marguerite.
Storia di una passione tra persone non più giovani, irragionevole, spuntata come l’erba che esce dall’asfalto là dove non la si aspetta, rigogliosa e capricciosa in età matura. Dialoghi a volte surreali, quasi da montagne russe e se si entra nel gioco non si vorrebbe più scendere a terra, restare in sella al film, dove tutto è pirotecnico, fantasioso, pieno di sorprese.